L’eroismo usurpato

di Christian Lezzi_

immagine presa dal web

Tutto sommato e analizzata la questione, non si può aver qualcosa in contrario alle manifestazioni popolari di gratitudine, alle celebrazioni e alle premiazioni dell’eroe di turno, o contro la definizione stessa di atto eroico, quando questa è attribuita a qualcosa – e a qualcuno – che ha davvero meritato questo nobile appellativo. Nulla da recriminare, in quel caso. Ciò che può infastidire una mente pensante è, semmai, la facilità, la superficiale leggerezza, il gretto populismo emotivo, con cui l’appellativo viene concesso, attribuendolo anche al senso del dovere e all’istinto, due considerazioni che hanno una propria dignità e che non hanno bisogno o motivo d’essere definite eroiche. 

E’ la banalizzazione dei concetti nobili, che infastidisce la capacità senziente e avvilisce la stessa gratitudine.

Certo, la responsabilità è di alcuni giornalisti che, pur di attrarre l’attenzione sul loro articolo e su qualcosa di positivo, che rompa la monotonia delle notizie tristi, confezionano l’eroe a tavolino, anche quando di eroismo (nonostante l’indubbia nobiltà del gesto) non vi fosse traccia. Ma il lettore è correo, perché leggere di tragedie accadute agli altri, di cronaca nera e varie umane miserie, lo aiuta ad allontanare il rischio, a sentirlo esterno alla propria sfera vitale, come se ciò potesse farlo sentire al sicuro. Ma ama, al tempo stesso (ed è qui la correità morale) vedere una luce in fondo al tunnel, anche dove di tunnel non v’è traccia, una speranza in un mondo migliore che, senza la narrazione popolare stenterebbe a vedere, per sapere che, da qualche parte, esistono gli eroi, che in questo mondo, che gli fa tanta paura, che probabilmente non sa vivere completamente e al quale – altrettanto probabilmente – poco sa dare, c’è ancora qualcosa di buono, una speranza che, di fatto, induce l’attesa e l’immobilità. 

Ma quella della speranza illusoria è un’altra storia.

La bramosia di bontà e di bei gesti, per coprire il male e i gesti che belli non sono, comporta inevitabilmente una banalizzazione di quei concetti, talmente alti e puri, da esserne gelosi, fino a usarli con estrema parsimonia, invece di attribuirli a tutto e a tutti, riducendoli ai minimi termini, privandoli della primigenia connotazione d’epica matrice, pur di trarne un esempio e una morale da spacciare come l’oppio (dei popoli).

Democratizzati, quasi, perché siano alla portata di tutti. Perché tutti, prima o poi, potremmo avere bisogno di quegli eroi. Perché quegli eroi, nelle opportune condizioni, presto o tardi, potremmo essere noi.

Ecco quindi che “eroe”, sulla stampa, diventa il soccorritore che, venuto giù dal cielo in elicottero, novello angelo meccanizzato, o sopraggiunto di gran carriera tra le onde, cavalcando un gommone, trae in salvo i naufraghi o i dispersi in montagna. Un gesto di alta professionalità compiuto da chi, per lavoro salva vite umane. Per professione, per scelta ragionata, per abilità allenata, mettendo a frutto anni di addestramento. 

Ma siamo davvero certi che si tratti davvero di eroismo?

E, sempre sulla stampa, sotto un altro titolone, apprendiamo del carabiniere, del poliziotto, del militare che, fuori servizio, passeggiando sul lungomare, trae eroicamente in salvo l’annegante, strappandolo ai flutti impietosi e a morte certa. Stessa perplessità sulla certezza che, di atto eroico, si sia trattato.

Conscio della questione morale e logica a margine, il giornalista colloca l’eroe, quando ciò gli è possibile, fuori servizio. Per dare ulteriore risalto al gesto e alla notizia, anche quando questo giunge sul luogo del soccorso con la volante, a sirene spiegate e con la divisa addosso (galeotta fu la fotografia a corredo dell’articolo). 

Ma l’invito al ragionamento non cambia (perché di questo si tratta) quando l’eroe di turno è un semplice passante che, buttandosi a capofitto tra le fiamme, sottrae alla morte gli occupanti di un’autovettura coinvolta in un grave incidente stradale. 

Anche lui è un eroe? Ne siamo davvero sicuri?

Nulla da dire contro chi rischia la propria vita per salvare gli altri, sia chiaro, avendo io stesso un importante passato militare, proprio nell’ambito del soccorso. Ma l’attribuzione di atto eroico, può avere la stessa alta valenza, se conferita a chi ha agito quasi meccanicamente, per effetto di un addestramento e di un’abitudine, dettata dall’esperienza, che lo porta a reagire lucidamente e in tempo zero alle emergenze? 

Un soccorritore, un membro delle forze di polizia, un militare, purché addestrati a pensare velocemente e ad agire altrettanto fulmineamente (e oggi che la leva obbligatoria non esiste più, lo sono più o meno tutti) probabilmente, seppur meritevole della più grande stima e riconoscimento, non può essere chiamato eroe e portato in parata, con tanto di premiazione in pompa magna, proprio perché, il suo intervento, è stato dettato dalle acquisite capacità operative, dalla fiducia in quelle capacità e da quel senso del dovere che, vestita la divisa, ti si attacca addosso anche quando non la indossi.

Ma tale atto non può essere considerato eroismo, se vogliamo preservare l’importanza della parola, se non vogliamo gettare al vento un titolo che prevede ben altri presupposti per essere tale e che costituisca un esempio formativo anche per i più giovani.

Stesso paio di maniche, nel caso di chi agisce per pulsione di conservazione (proprio o altrui) e per una sorta di elevato senso di appartenenza alla comune umanità. Istinto quindi, impulso, agito di getto, di pancia, d’emozione pura, magari come reazione alla paura, o drogati dall’adrenalina e dal testosterone. Anche dal machismo di periferia, perché no. Perché il senso del branco, della folla (come direbbe Gustave Le Bon) porta agli atti più infimi, ma anche a quelli più “eroici” o presunti tali.

Un intervento istintivo operato da chi, messo alle strette dall’impulso di agire, perché non può farne a meno e perché, sotto sotto, inconsciamente ha paura d’essere tacciato di codardia, se solo volgesse lo sguardo e passasse oltre, può ottenere risultati encomiabili, ma non può ardire l’ascesa all’Olimpo degli eroi, dei semidei di ellenica memoria. Quindi un istinto e un impulso culturali, dettati anche dalla civile convivenza, che porta a fare del bene rischiando la propria stessa incolumità, il bene più grande che ognuno di noi ha (la vita), che ancora una volta merita il più fragoroso applauso, ma non l’appellativo di eroe. 

Lanciarsi a capofitto tra le fiamme di una vettura, per salvarne gli occupanti, mentre a pochi passi dalla carcassa indugiano i passanti, attratti magari dalla curiosità, è un atto scellerato, scriteriato, istintivo, forse tribale, che solo per fatalità salva qualcuno, mettendo a rischio qualcun altro. Un gesto che può anche connotare altruismo, ma non eroismo, per il semplice fatto che, probabilmente, se si fosse fermato a riflettere, quel passante ardito non avrebbe preso iniziativa alcuna.

Una semplice considerazione, questa, legata alla linea temporale degli eventi e delle competenze. Perché l’atto eroico, quello vero e di suprema nobiltà, è un gesto compiuto a bocce ferme, quando si ha il tempo di pensare, ragionare, calcolare le variabili e quindi agire. Non quando devi farlo per dovere o perché non puoi farne a meno. E non è un caso se, il passante che interviene in una situazione di pericolo, si guarda intorno prima di muovere la sua azione, come a volersi sincerare di dover essere proprio lui a intervenire, in assenza d’altri che, sollevandolo dall’incombenza, agiscano prima di lui. 

Ma non basta morire per qualcuno, per essere eroi, se l’eroe è colui che, prima di fare qualcosa, anche a costo di perdere del tempo prezioso che potrebbe comportare, per se stesso, un concreto rischio di vita, lucidamente e razionalmente allontana le altre persone dalla scena della tragedia, mettendo in sicurezza il più alto tornaconto umano collettivo.

Eroismo è, in fin dei conti, un calcolo di opportunità, che mira a salvare l’infortunato senza mettere a rischio le altre persone intorno e che, anche rischiando la propria vita, cerca di massimizzare gli effetti del proprio intervento, riconducendo l’azzardo al concetto complesso di rischio calcolato.

Proprio come nel soccorso aereo, dove non si mette a rischio di vita un equipaggio di quattro persone, per salvarne una, se la percentuale di riuscita non è per lo meno credibile e accettabile. Perché non c’è eroismo nell’avventatezza, nemmeno quando quell’azzardo salva una vita. Soprattutto, non c’è eroismo senza eroe, perché non ha alcun senso perdere una vita per salvarne un’altra.

E invece, pur di scrivere titoloni roboanti, immediatamente tradotti in post virali sui social, nominiamo eroe colui che, a fronte del proprio addestramento, interviene e libera le vie respiratorie del bambino che stava soffocando, in un atto che, per lui, è di ordinaria amministrazione, seppur di grande impatto mediatico. 

E poi? Sono eroi i medici? Gli infermieri? i paramedici dell’ambulanza? I soccorritori civili e militari? Gli agenti della stradale? Forse si, ma eventualmente lo sono nel singolo agito, non per appartenenza alla categoria. O forse eroe, nel senso vero e già espresso del termine, è quel comune passante che, pur rischiando la propria vita, senza esservi addestrato e senza dovere alcunché a nessuno, con calma e razionalità fa evacuare una palazzina, dalla quale fuoriesce un tremendo odore di gas e d’imminente tragedia? 

E’ successo a Milano, diversi anni or sono, ma nessuno lo ha chiamato eroe!

Si senta libero il lettore, d’indignarsi per questi concetti forti che indispettiscono, fanno arrabbiare, andando a toccare nell’intimo più profondo le velleità eroiche di ognuno di noi, di coloro che ancora hanno bisogno di vedere angeli in ogni dove. Di chi nutre la quotidiana speranza di una bella storia da condividere sui social, per sentirsi un po’ eroe anche lui, a sua volta una persona migliore. 

Ma se siamo tutti eroi, nella definizione superficiale e populistica, rischiamo di non riconoscere quelli veri, quando se ne presenta l’occasione e di trattare tutti alla stessa stregua, avendo svuotato di senso il riconoscimento d’eroismo.

Perché il rischio è questo, privare d’essenza e potenza il concetto, trasformandolo in qualcosa di usuale, ordinario, privo di quella straordinarietà che solo il vero eroismo sa portare con sé. Chiamiamolo valoroso, coraggioso, prode, se proprio dobbiamo attribuire un’etichetta a ogni cosa. 

Ma non eroe.

Ed è su questo concetto che dovremmo riflettere, diventando avari d’encomi e medaglie, facendo sì che questi elogi non siano un atto dovuto e che conservino un peso vero, per non rendere, quello dell’eroe, un concetto vuoto, una polverosa coroncina d’alloro da dimenticare in un cassetto, accanto alla foto con il Prefetto e a una medaglia che, presto o tardi, sarà dimenticata, anche dallo stesso “eroe”, tra le altre cianfrusaglie accantonate ad arrugginire, nel cassetto della memoria.

Note sull’Autore.

Christian Lezzi, classe 1972, laureato in ingegneria e in psicologia, è da sempre innamorato del pensiero pensato, del ragionamento critico e del confronto interpersonale. 
Cultore delle diversità, ricerca e analizza, instancabilmente, i più disparati punti di vista alla base del comportamento umano. Atavico antagonista della falsa crescita personale, iconoclasta della mediocrità, eretico dissacratore degli stereotipi e dell’opinione comune superficiale.
Imprenditore, Autore e Business Coach, nei suoi scritti racconta i fatti della vita, da un punto di vista inedito e mai ortodosso.




Fai pace con la tua storia.

di Mario Barbieri

C’è una serie, abbastanza recente e ancora disponibile su Netflix, che pur nel suo “fantascientifico” o supposto tale soggetto, propone degli spunti di riflessione tutt’altro che banali.

La prima suggestione, la prima domanda che potrebbe salire alla mente, durante o alla fine della visone di questa 1a stagione – io non so se ne vorrei una 2a tanto la 1a potrebbe considerarsi “finita”, anche se con scenari completamente aperti – è quella che scaturisce di fronte al ritorno di persone scomparse: un dono dal Cielo o un evento potenzialmente capace di distruggere la nostra vita e il nostro “equilibrio”?

Non si tratta di uno scenario da “Il ritorno dei morti viventi” o da “L’invasione degli ultra-corpi” (film cult del 1956), anche se alcuni elementi potrebbero dirsi comuni, ma del veder prendere o ri-prendere vita, persone, individui, esseri, in tutto e per tutto umani, con i loro pensieri, emozioni e apparentemente motivazioni.
Non necessariamente dei morti resuscitati, ma anche “cloni” coesistenti con i loro “originali” – talvolta persino la “versione migliore” del proprio originale – che prendono a convivere nella stessa piccola comunità, costretta a vivere in un disabitato paesino finlandese, bloccato dall’eruzione di un enorme vulcano, le cui ceneri rendono grigio il vivere dalla terra al cielo.

È interessante scoprire la reale profonda motivazione che giustifica, muove, queste genesi: conflitti, sentimenti, paure, speranze, rimpianti, angosce, segreti, amori infranti o sospesi, sono questi in realtà il seme piantato in una fantascientifica – verosimilmente aliena – roccia vulcanica, dalle cui profondità come da un utero, queste figure emergono e iniziano a vivere e convivere con il mondo esterno.
Immaginiamo, i nostri sogni o anche i nostri incubi, quando, credo non di rado, rincontriamo persone non necessariamente decedute, ma perse nella storia e nel tempo, a noi legate per un qualsivoglia motivo e trasferiamo questi sogni, queste persone, nella concreta realtà del giorno dopo, al nostro risveglio.
Scenari e situazioni, consolatorie a volte, di ritrovata gioia anche, ma tal altre, cariche di angosce, di ritrovati conflitti, di introspezioni dolorose… Figure che ritornano.

Quanti avvenimenti, persone, situazioni, abbiamo rinchiuso nel nostro passato per poi “buttar via  la chiave”? Abbiamo chiuso quel sottoscala, quell’abbaino della nostra memoria, quel luogo rimasto oscuro e freddo, come le viscere del vulcano della “fiction”, scegliendo coscientemente di non ritornarvi per nessuna ragione.
Non è che tutto ciò sia sbagliato, talvolta è necessario, è questione di legittima difesa, la necessità di voltare pagina, ma è pur sempre un sorta di realtà sospesa, un binario morto che abbiamo deciso e voluto attivando quello scambio, per restare noi sui binari che procedono verso quell’orizzonte che si spera più sereno.

Tutto questo in una serie televisiva, su uno di canali più in voga, sotto le mentite spoglie di una serie fanta-thriller dagli scenari inverosimili (per noi forse) ma assolutamente realistici?
Beh si, può essere, può essere quando c’è un certo spessore di trama, sceneggiatura e regia (anche se Finlandese ;-), perché no?

A questo punto non vi dirò il titolo della serie, il senso non era una “promo”, ne tanto meno – Dio me ne scampi e liberi – “spoilerare” come usa dire, è solo un invito a riflettere sulle vostre, nostre vite, semmai dovesse capitare quanto fantascientificamente raccontato.

Il senso ultimo è tutto nel titolo di questo articolo.

Per il resto avete abbastanza spunti per andare a cercare la serie da cui sono partito per il mio sproloquio (io me la sono già vista tutta)…

Poi magari ne riparleremo.

Note sull’Autore

Mario Barbieri, classe 1959, sposato, tre figli ormai adulti.
Appassionato di Design e Fotografia.

Inizia la sua carriera lavorativa come illustratore, passando per la progettazione di attrazioni per Parchi Divertimento, negli ultimi anni si occupa di arredamento, lavorando in particolare con una delle principali Aziende Italiane nel settore Cucina, Living e Bagno.

Blog:
https://ceuntempoperognicosa.wordpress.com/
https://immaginieparoleblog.wordpress.com/




Orgosolo, tra immagini e silenzi.

di Maria Patrizia Soru

C’è una Sardegna lontana dal suono delle onde, dalle trasparenze smeraldo e dalle rocce che sanno di salsedine. E’ una Sardegna da tutti definita aspra e selvaggia che da sempre si è sottratta alla conquista e all’omologazione.“ Barbaria”, così la battezzarono i romani  capaci di conquistare e piegare il mondo, ma non il cuore della Sardegna ed i suoi  abitanti protetti dall’ombra del Gennargentu e forti come le sue rocce, che li costrinsero a porre un avamposto, un limes”,  Forum Traiani ( l’ attuale  Fordongianus in provincia di Oristano) ai margini di quella regione per contenere la loro indole indipendente. 

Anche Gregorio Magno spese molte delle sue energie per estirpare il paganesimo da quelle terre, ma a niente valsero i suoi sforzi. La conversione al cristianesimo e la conseguente romanizzazione  si compirono secoli più tardi in maniera semplice e naturale quando la Barbagia accolse le genti che dalle coste cercarono rifugio nell’entroterra per sfuggire alle invasioni provenienti  dal mare. 

Ne i pisani, ne gli spagnoli o gli aragonesi e neanche il governo sabaudo riuscirono a durare nell’isola un tempo sufficiente per esercitare la propria autorità innovatrice tra le “genti barbare” di Sardegna. L’isolamento, la cultura pastorale, l’ambiente fisico ed il clima hanno resistito allo scorrere della storia come racchiusi dentro ad uno scrigno del tempo che ha protetto le tradizioni ma soprattutto, il carattere di una popolazione antica forte e speciale che esprimeva  attraverso la “balentia”  il massimo della potenzialità dell’uomo suggellata tra le righe di un codice non scritto, il Codice Barbaricino.

La natura dei sardi è nota per i suoi silenzi, per le poche parole. E se lungo le coste la voce più potente è quella del maestrale capace di innervosire ed incupire il mare, nel cuore della Sardegna il silenzio ha una voce differente. Il  vento deve attraversare muri di rocce e foreste di lecci, l’acqua striscia e salta nel sottobosco e tra le gole. Qui le “parole” hanno il loro peso, anche se silenziose ed apparentemente leggere come i fiocchi di neve che lentamente in inverno,  ricoprono il suolo. 

La chiamano omertà, la definiscono un’ ancestrale forma di difesa e ribellione al mondo interno ed esterno che contraddistingue l’indole  dei barbaricini  facendo pensare che abbiano poca voglia di aprirsi, di raccontarsi, di raccontare. Per capire che questo pensiero è privo di fondamento bisogna visitare uno dei borghi più belli e particolari, camminare lentamente tra i vicoli antichi, stare in silenzio, aprire gli occhi, osservare ed ascoltare al contempo ciò che le immagini vogliono comunicare.

E’ noto che “anche i muri hanno orecchie”  ma ad  Orgosolo si può dire invece che “i muri parlano” ed urlano a gran voce la storia, le sofferenze e gli ideali di un popolo.

Eco lontano , figlio delle pitture rupestri, la tradizione dell’arte muraria attraversa la storia dell’umanità come forma di decorazione, narrazione o indottrinamento sia  sacro che profano,  in ambito pubblico e privato. L’arte dei murales così come oggi la conosciamo quale forma di denuncia sociale, si sviluppa in Messico dopo la grande rivoluzione del   1910. Immagini rappresentanti  lotte sociali, particolari della storia popolare e sentimenti nazionalisti  presero forma attraverso la pittura  di grandi muri esterni di edifici destinati al popolo.

Proprio nella manifestazione di dissenso, di ribellione ed al contempo nell’unione popolare Orgosolo vede nascere il suoi primi murales . Nel 1969 la tenacia della popolazione lotta e vince contro la realizzazione di un poligono di tiro nel territorio comunale di Pratobello, tradizionalmente asservito al pascolo. Si narra che nei muri del paese comparvero dei manifesti che esortavano i pastori ad abbandonare i pascoli.

 Nello stesso anno un gruppo anarchico denominato  ‘Gruppo Diòniso’ creò un murale di chiara matrice politica ed un murale tipo ‘reclame’.

Dal quel momento venne rotto il silenzio e dal 1975 in poi grazie ad un insegnate d’arte Francesco del Casino, i muri degli edifici del paese iniziarono a parlare.. un sussurro lieve, un urlo potente ma sempre in una “lingua universale” quella dell’immagine e del colore, talvolta accompagnata da qualche nota che attinge alle tecniche narrative del fumetto , talvolta totalmente priva di “parola”. Tratto nitido e  segno inconfutabile assumono ruolo divulgativo, creando un contesto figurativo immediatamente comprensibile anche a distanza, un  messaggio essenziale che può essere colto in maniera chiara a prescindere dall’età e dal livello di istruzione, poiché è sufficiente il solo atto di guardare le figure. 

Così Orgosolo narra se stessa, lo fa senza timore lasciando che il colore si arrampichi sui muri, prenda forma, catturi l’attenzione dei passanti e consegni il suo messaggio in una forma semplice che attraversa lo sguardo e giunge al cuore.

Il fermento intellettuale degli anni ‘60 e ’70 favorì il nascere e svilupparsi dei murales collettivi che illustrano tutt’oggi con dovizia di particolari le lotte di potere, la vita contadina e pastorale, alternando tematiche socio-politiche alla rappresentazione di simboli tipici appartenenti alla quotidianità. Quotidianità che trova spazio tra i “vicoli della narrazione” dolce ed affabile della vita   di donne e uomini impegnati nei loro lavori, nel loro vivere sereno e familiare..   Uomini e donne senza nome e senza gloria che a quella storia, alla storia di Orgosolo e della Sardegna  appartengono perché in essa hanno vissuto, l’hanno alimentata e, consapevoli o meno  sono stati e, ne sono tutt’ora il motore.

Orgosolo adagiata nel verde dei suoi boschi si offre a se stessa ed al mondo come un grande museo sotto il cielo. Parla ed accompagna se stessa verso il futuro mantenendo nitidi i “tatuaggi e le cicatrici sulla sua pelle” su tutti i suoi muri, protetti ed al contempo,  mostrati con semplicità, genuinità ed orgoglio.

Anche se campidanese e non barbaricina sento che quelle immagini, che quella storia mi appartiene. E’ quella della Sardegna intera e dell’Italia, forse cambia solo il tono dei colori, ma i tratti ci accomunano.

link di riferimento

https://www.comune.orgosolo.nu.it/index.php/vivere/cultura/17

https://www.sardegnaturismo.it/it/la-voce-silenziosa-dei-murales-di-orgosolo

Nota sull’Autrice.

Maria Patrizia Soru è una Guida Turistica Archeologica.
Appassionata di Storia e letteratura della Sardegna, è alla continua ricerca di immagini e parole capaci di raccontarne il passato, il presente ed il futuro.

Disclaimer: tutte le immagini presenti in questo articolo sono tratte dal web




L’orco in vacanza.

immagine tratta dal web – artista sconosciuto –

di Christian Lezzi

Sobborghi di Bangkok, un pomeriggio d’estate come tanti, un pomeriggio come tutti, per chi in quei posti c’è nato e lotta per non morirci.

Una casupola della periferia degradata, pareti scrostate e macchiate di tristezza. All’interno penombra, odore stantio di riso bollito e curry, di sudore e lacrime, di fame e miseria, che ti si attacca addosso come il caldo e l’umidità, come gli insetti sempre presenti, come la paura che, come le mosche e le zanzare, vola nell’aria. 

Una donna accoglie un turista occidentale e lo fa accomodare in casa, con l’ospitalità e il sorriso di chi non attendeva altro, di chi è prossimo a concludere un interessante affare. E’ grasso, l’uomo, affannato e sudato, l’umidità lo fiacca e gli insetti gli danno il tormento ma, nonostante ciò, sorride anche lui, di un sorriso malsano, che non lascia presagire nulla di buono. 

Ha gli occhi da satiro l’uomo, mentre la sua mente vola già verso quel paradiso di lussuria che sognava da tempo, un sogno che mai aveva trovato il coraggio di realizzare. Fino a questo momento, fino a questo viaggio.

Socchiude gli occhi l’uomo e, come un predatore che fiuta la preda, già pregusta il piacere che riceverà tra pochi minuti, in cambio di qualche misero dollaro. Ma non sarà la donna a soddisfare le sue voglie, i suoi desideri, le sue perversioni, ogni nascosta e indicibile fantasia. Lei si limita a prendere i soldi pattuiti e offre un tè freddo all’uomo, mentre entrambi attendono che, la vera protagonista faccia la sua comparsa sullo squallido palcoscenico, concedendosi al suo pubblico.

No, non sarà la padrona di casa a essere picchiata e abusata, non questa volta, non più. E’ troppo vecchia e non soddisfa i gusti dell’uomo, che è lì per qualcosa di particolare, di finalmente diverso, che dalle sue parti è vietato, condannato non solo dalla legge, ma anche dalla comune morale. 

E’ un occidentale l’uomo, lui viene dall’Europa. E nella civile Europa, certe cose non si fanno!

Una porta si schiude, con un lieve cigolio ed eccola, la protagonista dell’imminente amplesso.

Si chiama Janjira e il suo nome significa Luna. Entra nel piccolo e maleodorante locale dalla porta laterale che conduce alla piccola camera da letto. E’ nuda, ha gli occhi rigati dal pianto, lividi sulla pelle e graffi e morsi, come se qualcuno avesse provato a farla sua, lottando per piegare un rimasuglio di volontà, già messo a dura prova dagli stenti della sua miserabile vita. Dona un sorriso di circostanza al cliente, fa buon viso a cattivo gioco, proprio come le ha insegnato la donna. Perché lo sa, ormai lo ha imparato, che se vorrà mangiare, quella sera, dovrà fare tutto quello che l’occidentale le ordinerà di fare. Tutto!

Ha solo nove anni la piccola Janjira… ma già non ricorda più, di quand’era solo una bambina serena!

Una storia amara, seppur di fantasia, ma verosimile, che ricorda brutalmente tante altre storie reali, che di tanto in tanto fanno capolino nella cronaca internazionale e ci giungono da mondi lontani. Una storia inventata, com’è inventato il personaggio di Janjira, mentre non sono inventate le centinaia di migliaia di bambini che, ormai, non hanno più il diritto di essere tali, nel mondo. Un artifizio letterario utile a introdurre il discorso e portare l’attenzione su quello che viene definito, con un termine generico e generalizzato, quasi a volerlo derubricare, spogliare di parte delle responsabilità, “turismo sessuale”. Un termine quasi innocuo, del quale, magari, sorridere maliziosamente, con il quale si tende a indicare quel fenomeno, in continuo aumento, che vede individui adulti – solitamente di sesso maschile – scegliere, per le proprie vacanze, quelle mete esotiche o dell’est europeo che, accanto alle bellezze paesaggistiche o artistiche del posto, offrono piacere sessuale mercenario, facilmente reperibile e a prezzo modico, almeno in relazione agli standard di spesa occidentali.

L’Organizzazione Mondiale del Turismo (OMT) lo definisce “viaggio organizzato da operatori del settore turistico, o da esterni che usano le proprie strutture e reti, con l’intento primario di far intraprendere al turista una relazione sessuale a sfondo commerciale con i residenti del luogo di destinazione”. Di cosa si tratti è ben chiaro, fin troppo evidente e se ne distinguono almeno due forme primarie: Quello promosso da Paesi in cui la prostituzione è legalmente un lavoro, costituendo così una risorsa economica trasparente e quello praticato in Paesi poveri, o in via di sviluppo, dove determinati comportamenti sessuali non hanno alcuna regolamentazione, sfruttati da organizzazioni illecite o pseudo legali che, forti della dilagante corruzione tra le forze dell’ordine e facendo leva sulla miseria e sull’ignoranza di un popolo allo stremo, rendono schiavi i bambini o i giovanissimi, maschi e femmine, non solo uomini e donne.

Evidenti le differenze tra i due casi. Il primo è un sistema legale (almeno stando all’ordinamento legale di quei Paesi) basato sulla consapevolezza delle parti, sul consenso, sul mutuo accordo e, nei limiti del possibile (per lo meno si spera) sull’altrettanto mutuo rispetto. Una prostituzione regolamentata, esercitata in locali privati o aree circoscritte e designate allo scopo. E’ il caso di Olanda, Svizzera, Germania, Belgio, Slovacchia (dove, all’ingresso di alcuni locali che offrono questo servizio, è esposto in bella evidenza un cuore rosso), solo per fare qualche esempio, ma dove è comunque aspramente punito lo sfruttamento della prostituzione in strada e al di fuori della legge. 

Decisamente diverso il secondo caso, fatto di sfruttamento nel senso più cupo della parola, di violenza e riduzione in schiavitù, basato su un carente sistema sociale e culturale, alimentato dalla dilagante corruzione tipica dei paesi “poveri” e che, viste le preferenze più in voga, tocca principalmente i giovanissimi. 

Le mete classiche del turismo sessuale illegale sono Cina, Brasile, Repubblica Dominicana, Colombia, Thailandia, India, Cambogia, ai quali, di recente, si sono aggiunti alcuni paesi dell’est europeo e l’Africa. Ma l’elenco è lungo e non si ferma a questi Paesi. Maschi e femmine, comunque bambini o giovanissimi, ridotti in schiavitù e obbligati a vendersi anche dalla propria famiglia che vede semplicemente, in questa pratica, un mezzo per sbarcare il lunario. Un modo come un altro, come se il figlio non fosse il loro, come se quello non fosse un bambino. 

A volte l’unico. Perché dietro questo tipo di schiavitù c’è sempre la miseria e il denominatore comune resta la fame.

E’ una storia turpe, quella del turismo sessuale, fatta di uomini benestanti, socialmente produttivi, rispettati e rispettabili in patria che, in quei pochi giorni di vacanza, si trasformano, tirando fuori il peggio di se stessi e delle loro depravazioni e vanno a cercare quello che, nel paese d’origine, è difficilmente reperibile, o che viene considerato esecrabile e legalmente perseguibile. E per soddisfare queste voglie, violano l’infanzia, la dignità, l’integrità fisica di persone che normalmente vivono ai margini della società e che non hanno scelto di fare questo per vivere. Non lo hanno chiesto loro di essere il giocattolo di una notte ed essere trattati da oggetti in cambio di una ciotola di riso. E’ un quadro comune e sconcertante, rintracciabile in tutti quei Paesi in cui la dignità, il rispetto, la salute e la vita di un bambino sono solo merce di scambio, qualcosa che giova al tornaconto dei singoli adulti e, alla lunga, all’economia nazionale. 

Tutte le conseguenze sono secondarie, fanno parte del mestiere.

In Italia, la questione del turismo pedo-sessuale è regolata dalla legge n. 269 del 1998 (Norme contro lo sfruttamento della prostituzione, della pornografia, del turismo sessuale in danno di minori, quali nuove forme di riduzione in schiavitù), aggiornata poi dalla legge n. 38 del 2006 (Disposizioni in materia di lotta contro lo sfruttamento sessuale dei bambini e la pedopornografia anche a mezzo Internet). La normativa italiana in merito, è considerata molto avanzata, essendo stata la prima a prevedere il principio di extraterritorialità e per questo tradotta in diverse lingue. Proprio in virtù della giurisprudenza extraterritoriale, l’italiano protagonista di questo aberrante tipo di turismo, è perseguibile nel paese ove sono accaduti i fatti, su denuncia delle vittime e poi, d’ufficio, in Italia.

Un viaggio a sfondo pedo-sessuale, per questi individui dall’ordinaria apparenza, con una buona cultura, tendenzialmente benestanti e, in media, d’età compresa tra i 20 e i 40 anni (fascia che si è abbassata, negli ultimi anni), per il 90% uomini, significa poter finalmente scatenare perversioni e fantasie, concedendosi il lusso di sensazioni fuori dall’ordinario che, prima di allora, albergavano solo nei loro sogni più deviati. Il tutto condito dall’inebriante impunibilità tipica di alcuni paesi, nei quali basta una tasca piena di dollari per aggirare le leggi e le sanzioni, cullati dall’anonimato e ben lontani dalle condanne morali. 

Un viaggio di liberazione dell’Io malato, dal rischio calcolato e dal basso costo. Tanto poi, il vero costo, lo pagano le vittime. E quello, di certo, non può essere definito basso.

Parliamo di soggetti animati da desideri che, spesso, sono in linea con precise forme psicopatologiche, catalogate dal Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali, che li definisce pedofili in piena regola, nella piena corrispondenza con il criterio dell’Egodistonia, quel disturbo della personalità che caratterizza i soggetti incapaci di provare disagio nel realizzare le proprie perversioni, pur riconoscendole come devianze. Ne consegue il rischio, in verità molto concreto e statisticamente rilevante, di reiterazione futura del criminoso operato. Una volta rotto il blocco mentale ed effettuata quindi l’esperienza “liberatoria”, i soggetti in questione tendono a ripetere l’esperienza arrivando, in preda all’escalation comportamentale, ad abusare anche dei propri figli. 

Il turismo sessuale, quando non si svolge tra adulti consenzienti e secondo la legge, rappresenta l’ultima frontiera della perversione illecita e rende, certi Paesi, un paradiso dove tutto è concesso, dove basta pagare (e nemmeno tanto) per soddisfare qualsivoglia prurito. Una piaga non indifferente per tutto il mondo, soprattutto in virtù della violenza, dello sfruttamento e della riduzione in schiavitù di cui abbiamo già parlato che, statisticamente, vede protagonisti gli italiani (primi in classifica, con ben 80.000 viaggiatori annuali, seguiti da francesi, tedeschi, inglesi, cinesi e giapponesi). 

Solo se consenziente, il sesso può assumere quella connotazione di piacere ludico e ricreativo, anche all’interno di un viaggio organizzato, ideato allo scopo o meno, anche se dietro quel piacere c’è una contropartita in denaro, perché rispetta la dignità e la libertà altrui, senza ledere diritti inviolabili e naturali come quelli dell’infanzia o dell’essere umano. 

Sostituiamo quindi, una volta per tutte, il termine “turista sessuale” con quello più adeguato di “turista pedofilo”.

Occorre separare nettamente le due definizioni, mettendo da una parte i casi di prostituzione consenziente, legale e con persone adulte, dall’altra la finalità sessuale violenta, rivolta ai minori, ovvero quelle pratiche ripugnanti, soddisfatte ai danni di chi non ne ha colpa e ancor meno interesse ma che, suo malgrado, concorre per necessità a tenere in piedi questo marcio business, questo affare che prolifera sotto gli occhi, l’indifferenza e il silenzio complice di buona parte del mondo. E occorre parlarne, con le giuste parole e senza paura. 

Così come Giovanni Falcone ebbe a dire che “di mafia si deve parlare”, Teorema sostenuto e dimostrato da Roberto Saviano, è il caso che tutti noi, anche della pedofilia (nostrana o itinerante) iniziamo a parlarne, senza paura e senza inutili giri di parole, senza se e senza ma, senza giustificazioni e senza attenuanti, perché l’infanzia torni a essere un diritto inalienabile, non una concessione da applicare nei soli giorni feriali.

Nota sull’ Autore

Christian Lezzi, classe 1972, laureato in ingegneria e in psicologia, è da sempre innamorato del pensiero pensato, del ragionamento critico e del confronto interpersonale. 
Cultore delle diversità, ricerca e analizza, instancabilmente, i più disparati punti di vista alla base del comportamento umano. Atavico antagonista della falsa crescita personale, iconoclasta della mediocrità, eretico dissacratore degli stereotipi e dell’opinione comune superficiale.
Imprenditore, Autore e Business Coach, nei suoi scritti racconta i fatti della vita, da un punto di vista inedito e mai ortodosso.




Per sesso o per possesso.

di Ludovica D’Alessandro

Nessuno ci insegna ad amare. Nessuno ci impartisce quella misura precisa con cui farlo.
E nessuno ci insegna neppure a disegnare l’area dentro la quale, con un compasso, racchiudiamo cosa amiamo e chi amiamo.
La famiglia, le esperienze, la società ci insegnano come e dove amare qualcuno ma non è sempre esattamente così.
Come? Ci dicono che bisogna amare prima se stessi e poi gli altri .
Come se volersi bene o non volersene precludesse in sintesi la possibilità di essere pazzi di qualcuno o che qualcuno possa desiderarci lo stesso.
Con tutte le ossa fracassate, con tutta la carne scoperta che abbiamo, con tutto il marcio che c’è.
Dove amare qualcuno? In quello spazio che c’è tra il rispetto per se stessi e l’ossessione.
Certo perché è così facile trovare una linea di comportamento socialmente corretta quando c’è di mezzo una dipendenza. Una dipendenza da un profumo, un corpo, la semplice “presenza” di qualcuno o anche il sesso.

Come se, tra le strade di Buenos Aires, sotto le stelle (a volte) e sotto la tempesta altre, ballassimo un tristissimo tango.
Astor Piazzolla, definiva quella musica,come un emozione triste che si balla. 
Sí perché nella malinconia, c’è dentro un po’ di tutto questo.
Due corpi che si sfiorano e che si lasciano andare ad una fusione completa .

Per chi come me ha sofferto di dipendenze, è veramente difficile provare un sentimento calmierato, diciamo “ un emozione misurata”. 
Non mi hanno insegnato a farlo e a dir la verità non sarei nemmeno interessata.
Dentro a quell’area circolare che provo a disegnare con il compasso, moltissime volte ci giro dentro come un topo in gabbia che non riesce a trovare una via di fuga.

Mi scontro con il voler dare troppo, con il non avere freni, con il desiderio di sperimentare cose nuove, con la paura di essere assolutamente e sempre fuori luogo, con la certezza che se è vero che non ho mai imparato a scegliere cosa offrire di me so, allo stesso modo ed esattamente quanto sia importante vivere tutto.

Da piccola era molto diverso, appannato, aggrovigliato , non volevo sentire e non volevo essere vista. 
Oggi da donna adulta , invece , sono dipendente da quella adrenalina che è una meravigliosa scoperta .
Ho bisogno di sentire quella scossa che mi fa sobbalzare dalla sedia, quel dolore che ti sventra e ti denuda, quel desiderio che ti fa chiedere e supplicare ancora. 
Sono seduta in macchina, con il culo attaccato al sediolino, solo perché sò che tra pochi secondi spingerò l’accelleratore.
E ci saremo solo io e la potenza e la follia di questa corsa, in piena notte senza una meta.

Scrivo queste cose perché so che la fuori ci sono tantissime donne e uomini che hanno delle dipendenze, ma che credono che averne una significhi per forza di cose doversene liberare.

Ho imparato, invece, che forse la strada migliore per gestirle è quella di viverle con qualcuno che le sappia trasformare in amore.

La trasformazione è la chiave.

Forse , non aprirà tutte le porte ma sicuramente aprirà le porte di noi stessi alla ricerca della nostra essenza.
Qualunque essa sia, qualunque intensità abbia e dovunque ci stia inesorabilmente portando.
Ci vediamo lì in fondo al pozzo dove nessuno ci dirà come e quanto amare, chi e cosa, di che sesso, cultura o estrazione sociale , ossessivamente o di nascosto, per sesso o per possesso, per una vita di comodo o per una allo sbando.

Io voglio continuare a ballare il Tango con Astor Piazzolla in sottofondo. 

Nota sull’autrice.

Ludovica D’Alessandro è una Office Manager and Executive Assistant.

Nata a Napoli, ha vissuto e lavorato per molti anni a Londra.

Ora vive a Milano.

Scrittrice per diletto, talento enorme e indiscutibile, è prossima alla pubblicazione della sua opera prima.




Preferisco non avere scelta

Ringraziamo Filippo Russo, amico personale, per averci offerto la testimonianza di una “normalità” le cui stesse fondamenta sono messe in discussione dall’ambiente. Dalla famiglia. Dalla sfortuna, forse.

Immagine tratta da Google- The Sleepers – 1996

“Usurpatore di un cane che non sei altro! Padre immeritevole di amore che non hai saputo darmi       scelta, vorrei che bruciassi all’inferno!”

Questo è quello che Alessio (lo chiamerò così) avrebbe voluto urlare al mondo se   solo avesse avuto la possibilità di farlo.

E come lui forse molti altri, ragazzi abituati ad entrare ed uscire dai riformatori di mezza Italia, ragazzi nati già adulti, costretti a darsi da fare da subito, “svantaggiati di senno e di settore” avrebbe detto un famoso cantastorie siciliano di nome Ciccio Busacca.

Ricordo come se fosse ieri il mio primo giorno di lavoro come educatore in una comunità   alloggio per minori detenuti. 

Arrivai carico e teso come la corda di un violino. Non sapevo cosa aspettarmi né come sarebbe   stato l’impegno su cui avevo investito tanto.

“E se non fossi all’altezza?”

Me lo chiedevo continuamente. D’altronde avevo 26 anni e nessuna esperienza sul campo. Solo tanta teoria imparata durante l’anno trascorso in una scuola specializzata.  Nulla a che vedere con i colleghi conosciuti in seguito, che erano là da anni, a proprio agio, con lo sguardo sornione e un po’ menefreghista di chi ne ha viste tante e probabilmente ha perso fiducia e speranze.

Feci in fretta ad imparare. Il terzo giorno mi toccò il turno notturno in solitaria. Un collega molto “incoraggiante”, mi aveva raccontato che il ragazzo di cui avevo preso il posto, era andato via perché non aveva resistito alla pressione dell’ambiente.  La settimana prima, durante lo stesso turno, in piena notte aveva chiuso gli occhi per un attimo, e si era addormentato.

Così i ragazzi (già organizzati in un’associazione delinquenziale contro la comunità/ sistema che di loro si prendeva cura malamente) avevano dato fuoco al divanetto   sul quale riposava e solo un miracolo lo salvò dal morire bruciato vivo a 25 anni.

Siamo onesti: nessuno di noi voleva immolarsi e, perciò, proprio coloro che dovevano   rappresentare dei modelli educativi da seguire, si trasformavano spesso da vittime a carnefici. In episodi che, di educativo, avevano ben poco.

Da parte mia, pur senza giudicare l’atteggiamento di alcuni, volevo sperimentare tutta la difficoltà del mio ruolo. Forse solo per imparare che “educare” dei giovani reietti della società a NON emulare padri, madri   e fratelli entrando ed uscendo di galera come dal Grand Hotel, è impresa quasi disperata.

Dire che mi sentivo inadeguato è davvero poco. Durante il periodo di formazione ci avevano spiegato come aiutare le persone a reinserirsi nella società. Avevamo appreso le tecniche   di persuasione, l’importanza dell’ascolto, tutta la teoria possibile sulle cause sociali del disagio. Frequentammo persino un corso di clowneria…chissà poi perché. 

Ma nessuno ci aveva spiegato come reagire all’incendio del divano sul quale ti sei appisolato, magari dopo una serata apparentemente del tutto normale.

Decisi di resistere alla tentazione di darmela a gambe levate. Resistere ancora per un po’, per non darmela vinta e dimostrare a me stesso di essere più coraggioso di quanto non fossi. Perché sì: in realtà me la   stavo facendo sotto.

Ma forse è questo il coraggio, no?

Feci la scelta giusta e in qualche modo riuscii ad instaurare un dialogo con quei “diavoli   scatenati”, come li chiamava il parroco presidente dell’associazione che gestiva la comunità.

Nel tempo sono riuscito a capire quanta rabbia ci fosse nel cuore di questi ragazzi, quanta dolore si   nascondesse dietro ogni terribile azione commessa.  La fame di un amore mai corrisposto, la solitudine di un adolescente che sembra non avere una scelta.

Tra una risata compiaciuta e l’altra, Alessio mi raccontava le sue bravate, quanti soldi era riuscito a rubare senza farsi mai scoprire, le armi che nascondeva per conto di un padre contrabbandiere e i motorini che rubava per poi rivenderli in pezzi di ricambio.

“Ma sei un genio, cazzo!”

Ricordo che, una volta, rapito da un turbinio di emozioni contrastanti, esclamai così. Di puro istinto. I suoi   occhi si spalancarono, ed io capii che, in quel momento, non si sentiva più giudicato. Per questo si raccontò a ruota libera per tutta la sera, tra una sigaretta e l’altra.

Ma sapevo che quel momento di complicità era destinato a finire.

Alessio, allora, aveva solo 14 anni. E già una lunga storia alle spalle.

Era stato arrestato in flagranza di reato con il suo complice, un ragazzo più grande di lui, mentre    effettuavano una rapina in un supermercato.

Dopo vari interrogatori e dopo che il giudice ebbe sentito il parere positivo del collegio degli educatori (capitanati da un’improbabile psicologa alle prime armi) e dell’assistente sociale, venne deciso che poteva scontare la sua pena presso la comunità con “messa alla prova”.

Una sentenza dal significato pesante.

I ragazzi che vengono mandati in comunità, vivono una sorta di carcere surrogato in cui hanno, sì, la playstation e un calcetto balilla per ammazzare le giornate, ma non possono fare praticamente nient’altro che non gli venga preventivamente consentito.

Come in un carcere minorile qualunque, ma con “la libertà” di scappare in ogni momento, perché la porta è sempre aperta.

Nessuno degli educatori ha il potere o il dovere di trattenerli con la forza.

Sono liberi di uscire, ma consapevoli che, dopo la segnalazione della comunità alle forze dell’ordine, verranno arrestati e costretti a finire la loro pena in carcere.

Verrebbe naturale pensare “meglio la comunità che il carcere”, ma ho scoperto che, in realtà, non è così.

Ne erano scappati tanti, apparentemente senza motivo. Passavo il tempo a domandarmi perché lo facessero.  

Mentre lavoravo, Alessio scappò 2 volte. La prima volta il giudice lo perdonò e venne riaccompagnato in   comunità.  La seconda venne richiuso in carcere minorile.

Durante le nostre chiacchierate, una sera mi confessò: “sai perché preferisco stare in carcere?”        

“     No, perché?” Gli risposi stupito.

“Perché sapere che dietro quella porta c’è la libertà… e la porta è lì, aperta, ma io non posso varcarla, mi pare la storia della mia vita.  Fa troppo male e non riesco ad accettarlo.  

Preferisco non avere scelta”.

Dunque era questa la spiegazione che cercavo. Avere una scelta, è impensabile per chi è nato, vissuto e cresciuto credendo di non averne alcuna.

È megliovivere sottochiave; è più “comodo”. Così, almeno per una volta, non sarai tu a doverti prendere cura di te stesso: saranno altri. Non importa chi.

Non ho mai saputo che fine abbia fatto quel ragazzino che adesso sarà un uomo; ma mi piace pensare che abbia trovato il coraggio di aprire la porta verso la libertà e verso una vita migliore, che si sia preso quello che gli spetta di diritto e gli è stato negato in gioventù. Spero che la vita, se la stia mangiando a morsi.

Per quanto mi riguarda ho lasciato la comunità dopo 4 mesi.  Il coinvolgimento emotivo era troppo grande e questo non è un lavoro nel quale ti puoi permettere di cedere alle emozioni.

Anche adesso non riesco a vomitare su questo foglio altre storie di   vita negata.

Da quest’esperienza ho avuto molto più di quel che mi sarei aspettato. Soprattutto ho imparato che non esiste libertà che non debba essere conquistata. E che chiunque, anche l’uomo più   ricco e amato della terra, deve lottare per averla.

Lottare per pensare, agire ed essere.

Mentre scrivo passa un bluse nostalgico di Gary B. B. Coleman alla radio e il mio volto non è più così asciutto, prendo consapevolezza, un senso di serenità mi assale dentro.

Adesso ho capito perché “visto da vicino nessuno è normale”.

Filippo Russo.

Filippo Russo è un Content Creator esperto in strategia di Business Online.

Attivo nel Sociale ha collaborato con Istituzioni Locali , progettando e sviluppando diversi eventi socio-culturali.




Il punto di vista della mediocrità

di Christian Lezzi

E infine ritornammo a… prendere il caffè al banco del bar! Non me ne voglia il Sommo Poeta, di cui ricorrono quest’anno i settecento anni dalla morte, se abuso dei suoi sublimi versi, snaturandoli e riconducendoli allo scopo, ma m’era d’uopo per l’introduzione di un concetto, che dal caffè muove i suoi passi, ma che reca con sé ben altro aroma, quello fetido della mediocrità e dei punti di vista superficiali.

Il caffè, dicevamo. Quasi un rituale, una tradizione in quella tazzina, che mancava a molti, dato il particolare momento storico che stiamo vivendo e che, a seguito dei vari lockdown, più o meno rigidi, ha partecipato a rendere ancor meno gradevole la situazione “pandemica” e il suo ingombrante riflesso sull’ordinario quotidiano di tutti noi. Perché in quel caffè, non c’è solo la caffeina che dovrebbe tenerci svegli, il gusto, il profumo, ma un universo mondo di socializzazione, interazione, umana convivenza, scambi e battute, momenti di vicinanza occasionale anche tra chi, normalmente, vicino non è.

E chiacchiere, quelle da bar, che con la superficialità più spensierata, trattano argomenti di vitale importanza, talmente pesanti e profondi che nemmeno un simposio basterebbe a esaurire.

Nelle chiacchiere da bar, che intervallano Mancini a Draghi (magari anche confondendone i ruoli), ci trovi di quelle perle di geopolitica e di economia internazionale che ti sogneresti altrove. Lectio Magistralis su ogni ambito, anche il più complesso e ostico dello scibile umano. E complottismo, tanto complottismo, che quello, insieme alla controinformazione e al caffè, al bar non manca mai.

Non che fosse inedita, essendo giunta già altre volte al mio incolpevole orecchio, ma la perla di questa mattina riveste,  di fatto, una particolare e rilevante importanza, lapidaria come solo la più becera superficialità sa essere, atta solo a infiammare gli animi, a farci sentire artificiosamente uniti perché attaccati dall’alto, vittime di un complotto sistemico, dei poteri forti, di qualche più o meno credibile para-governo transnazionale, contro il quale fare quadrato, sentirci popolo, magari cantando dal balcone. E quale migliore occasione per unirsi, se non quella di avere un nemico comune, sia esso rappresentato dai migranti e dai profughi, o da un virus di cui ben poco si sa, ma ben troppo si dice.

Diceva questa mattina, ai suoi attenti ascoltatori, il solito beninformato avventore – quello che ne sa sempre una più del diavolo e di Gesù Cristo messi insieme, che le notizie le apprende prima degli altri, perché sua zia è la cugina del parrucchiere dell’amica del cuore della Meloni – che Loro (nei complotti i cattivi si chiamano sempre “Loro”, evidente retaggio di una sindrome paranoica più o meno latente), ci vogliono ignoranti e disoccupati, per poterci controllare meglio.

Probabilmente, mentre l’uomo asseriva cotanta bestialità, nel mondo, un pensatore esalava l’ultimo mortale sospiro, fulminato da qualche raro e inspiegabile colpo apoplettico.

Perché, tutto sommato, può anche essere lecito, dato il contesto ludico e goliardico, ergersi ad allenatori di qualsivoglia sport (io avrei fatto così) o a Premier politici (io avrei fatto cosà), commentando male quelle notizie che si sono comprese ancora peggio. O a cedere alla velleità di sostituirsi ai giudici, senza nemmeno aver studiato gli elementi processuali e le motivazioni della sentenza. Così, per sentito dire, provando a interpretare un titolo o poco più, magari buttando distrattamente un occhio ai post di facebook. Ma il ragionamento, signore e signori, il ragionamento, quello è altro dall’informazione dozzinale e non può permettersi il lusso di essere altrettanto. E’ un percorso interiore che porta all’elaborazione del mondo circostante, per arrivare a edificare quella che, almeno in apparenza, è la propria personale e soggettiva idea. E il proprio assetto mentale, non può essere così poco importante da relegarne la cura alla fretta, alla superficialità e alle chiacchiere da bar.

Loro ci vogliono ignoranti e disoccupati, perché così siamo più controllabili.

Analizziamola insieme, questa “perla” di saggezza, partorita tra un bianco e un amaro:

Loro ci vogliono ignoranti…

Ammetto che questa parte rechi con sé una quota di verità, essendo incontrovertibile che, un popolo ignorante, sia più controllabile. Ma è l’angolazione con cui si guarda la questione, a essere sbagliata. E’ fondamentale in primis operare un distinguo tra ignoranza e incapacità di pensare e, in secondo luogo, prender atto e coscienza che, l’ignoranza di oggi, non è quella di cent’anni fa. Oggi, complice un sistema scolastico raso al suolo e destrutturato ai minimi storici, mera ombra di se stesso, siamo ignoranti e incapaci di un pensiero complesso, ma con un diploma o con una laurea appesi al muro e con tanta speranza da custodire nel cuore, talmente tanta che nemmeno nei Promessi Sposi. Perché sono quei titoli di studio, incapaci ormai di fare la differenza sul mercato, a riempirci la pancia e a renderci più tranquilli, più docili, più sereni, con la coscienza a posto (sono disoccupato, ma ho studiato, che altro potevo fare?) e con l’illusione di poter disporre liberamente del pensiero indipendente.

E ci si adagia in questa convinzione, in questa deleteria speranza che tutto uccide (perché tutto muore, a furia d’aspettare) avvolti dalla copertina di Linus che ci vuole precari a tempo indeterminato, indottrinati improduttivi a carico di genitori che, sempre più anziani, sono i reperti fossili di un’opulenza che fu e di una stagnazione secolare che occlude l’orizzonte futuro, ammantati da un’illusoria speranza sempre più nebulosa, una certezza sempre più lontana che intanto ci mette tranquilli, c’induce all’attesa, ci fa aspettare, lasciandoci seduti, zitti e buoni, che tanto, presto o tardi, il nostro momento verrà.

E addio rivoluzione, come avrebbe sentenziato il buon Peppone!

Questa ignoranza specifica (non quella assoluta di cent’anni fa, che almeno ci lasciava l’arguzia) è dovuta alla barbarica semplificazione del linguaggio, operazione nefasta che, a sua volta, banalizza il pensiero, tarpandone le ali e castrandone l’estensione.  Stiamo allontanando la Filosofia dalla scuola (nei licei s’insegna solo la sua storia e se ne insegna sempre meno), stiamo rendendo più veloce, superficiale e meno profondo il pensiero, la capacità di creare connessioni

Che poi, a furia di semplificare, si sfocia nel banale e nell’inconcludente.

Ma non dobbiamo cedere all’errore di pensare che le parole servano solo ad esprimere il pensiero. La questione è ancora più profonda e ribalta il punto di vista: noi pensiamo limitatamente alle parole che possediamo, quindi, come c’insegna il Pof. Umberto Galimberti, le parole sono la forma, non il vettore, del pensiero, l’elemento collante strutturale, la materia che conferisce concretezza all’astratto. E una scuola che riduce la filosofia al mero insegnamento della sua storia, che riduce tutto al più inutile nozionismo mnemonico, di certo non aiuta. Non possiamo pensare a qualcosa, in termini completi e trasmissibili a terzi, senza averne in mente la definizione linguistica. Il filosofo Martin Heidegger ha scritto che “dove la parola manca, manca il pensiero” e ci basti pensare alla differenza culturale tra Greci e Latini, a ciò che hanno rispettivamente realizzato ai loro tempi e al relativo lascito a beneficio dell’umanità, per avere il polso della questione.

Non a caso, i primi, avevano 80.000 vocaboli, contro gli appena 4.000 dei secondi. E tutto il resto è storia.

Ma se, almeno in parte, dobbiamo riconoscere un minimo senso logico, alla prima parte della frase, seppur la questione fosse analizzata dal punto di vista sbagliato, presi in esame tutti i distinguo appena espressi e argomentati, la seconda parte è paradossale:

… e disoccupati!

Ed è qui che casca definitivamente l’asino (con tutto il rispetto per l’intelligente ma bistrattata bestiola) perché l’errore è così evidente, talmente lampante che avrebbe stupito persino il signore di La Palisse. Un errore che disconosce le ragioni storiche di molte sommosse popolari, in cui masse intere si sono sollevate contro la tirannide per fame, per la mancanza di denaro e di aspettative lavorative, per la disperazione di non poter sfamare i propri figli, di non riuscire a vestirli o a curarli, proprio a causa della povertà che è figlia, erede naturale, della disoccupazione. Una situazione in cui la speranza implode (e per fortuna) lasciando montare la rabbia della rivolta, perché la speranza è l’ultima a morire, ma prima o poi muore!

Proprio all’opposto di chi, sazio e titolato, smette di fare e se ne sta comodo a sperare e ad aspettare un domani migliore. E addio rivoluzione (Bis)!

Diventa quindi evidente come sia proprio il contrario di quanto asserito dall’illuminato avventore del bar, a indurre il controllo sulle masse, sulla folla, sul popolo sovrano, che la sovranità ormai non ricorda nemmeno più cosa sia e come sia fatta, perché non ha le parole sufficienti a poterla descrivere.

Un popolo con la pancia piena, quello sì che è controllabile, proprio come una fiera nella gabbia del domatore di circense memoria, sedata e sazia, perché non sia aggressiva e intrattenga il pubblico con movenze da gattone dall’apparenza feroce. Una laurea vuota che ti lascia dentro ben poco, se non la speranza (sempre lei) un lavoro di basso livello, al quale corrisponde un titolo d’impatto sul biglietto da visita (siamo ormai tutti dottori e  manager di qualcosa) e un magro stipendio in busta paga, a fine mese, che ci faccia sopravvivere ma non vivere davvero, permettendoci di pagare il mutuo quarantennale, le rate della macchina, quelle della Super Mega Smart TV o dello smartphone all’ultimo raglio della moda – e perché no? – anche quelle per le ultime vacanze. Che tanto, ormai, si sopravvive a rate!

E’ saziandolo, che si controlla il popolo, non affamandolo ed esasperandolo. Un cane sazio non morde, al contrario di quello che, per effetto della fame o della paura, diventa aggressivo. Allo stesso modo, una persona con una parvenza di vita normale da tener lungi dal rischio, non scende in piazza e non muove rivoluzione. Perché, in fin dei conti, l’essere umano ha una sola immensa paura, più spaventosa di tutte le altre, anche di quella di morire o di parlare in pubblico. Ed è quella di perdere lo status quo, ciò che si rappresenta e ciò che si ha, il bilocale in periferia che finirai di pagare quando sarai in pensione (se ci arrivi alla pensione), una macchinetta mediocre che già cade a pezzi e una vacanza che, in condizioni normali, a malapena avresti considerato una gitarella.

Evviva la mediocrità che tutto appiattisce e ogni cosa scolora.

E’ così che si controlla un popolo, sedotto e sedato da un titolo di studio, talmente ridotto ai minimi termini da essere alla portata di tutti e da un lavoro, dalla speranza a entrambi correlata, insieme al minimo indispensabile (che siano quei quattro soldi lavorati o elargiti a vario titolo dallo Stato) per sopravvivere e trascinare una vita che – erroneamente – consideriamo dignitosa.

Dovesse mai scoppiare una rivoluzione, con tanto di tumulti e disordini e ribaltamento dei poteri, magari qualcuno ce lo porta pure via lo status quo, insieme a quel televisore da 80 pollici. E dove le guardiamo le partite di calcio che non ci fanno pensare ai problemi? E le 4 edizioni del telegiornale con cui ci riempiamo la testa ogni giorno? E i Talk Show che c’inculcano il pensiero unico o le serie Netflix fagocitate a turni di dodici episodi per volta che, di ogni rimanenza di pensiero critico, fanno sistematica tabula rasa?

Immaginiamo di spegnerla, o di non averla più, quella TV, di riaccendere la mente e di rimanere soli con i nostri pensieri, come auspicava Schopenhauer. Proviamo a riprenderci la capacità di pensare e di agire, per essere meno controllabili e ancor meno attendisti in preda alla speranza, riprendendoci noi stessi e fuggendo dagli stereotipi che tanto cattivo gioco fanno alla nostra intelligenza.

Si, ma poi, di cosa parliamo al bar?

Christian Lezzi




La città delle Onde Serene

(di Mattia Marchetti Aloisio 马天龙)

http://Di Whole_world_-land_and_oceans_12000.jpg: NASA/Goddard Space Flight Centerderivative work: Splette (talk) – Whole_world-_land_and_oceans_12000.jpg, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=10449197

L’Antica Via della Seta, e la sua via sorella, la Via della Seta Marittima, furono dei crocevia per commercio, scienza e religione. Entrambe servirono come ponti tra Oriente ed Occidente, e in ultimo, furono essenziali per creare il mondo così come lo conosciamo oggi. Prodotti esotici come sete, spezie e the trovarono la loro via dalla Cina e dall’India fino in Europa.

Grazie ad esse, sorsero civiltà ed imperi, prosperarono città che diventarono “case lontano da casa” per diplomatici, mercanti, imprenditori, missionari, viandanti e contrabbandieri.

Tra i vari prodotti commercializzati lungo le Vie, il the ebbe un ruolo speciale: infatti, entrò come prodotto di consumo in società molto differenti. L’aumento della richiesta di the portò quindi alla creazione di un’apposita rotta commerciale, la Via Marittima del The.

All’estremità Orientale di questa nuova rotta, si trovava una città con una lunga tradizione manifatturiera ed imprenditoriale, una città che un giorno sarebbe diventata, grazie alla sua posizione geografica, uno dei più importanti hub commerciali del mondo, ed uno dei porti per containers più trafficati.

Questa città si trova nel Nord-Est della provincia dello Zhejiang, nella parte sud della Baia di Hangzhou, proprio di fronte a Shanghai; la città, il cui nome significa “Onde Calme” e oggi conosciuta come Ningbo

fonte: Google Earth

Studi archeologici hanno trovato resti di una città nella zona datati 4800 a.c., resti classificati come appartenenti alla cosidetta Civiltà Hemudu.

Ma fu solo dalla Dinastia Tang che la “Città delle Onde Serene” incominciò ad avere una sua importanza. A quel tempo la città di Ningbo si chiamava Mingzhou e nel 738 d.C il suo porto fu ufficialmente costruito .

Durante la Dinastia Song venne costituita la prima comunità di stranieri. Mercanti arabi si insediarono nella città.

Date le politiche di apertura della Dinastia Song, questi mercanti arabi furono accolti anche se rimanerono sempre molto legati alla propria piccola comunità e non si integrarono troppo con gli abitanti locali.

Sempre durante la dinastia Song, la città , allora conosciuta come Siming, divenne uno dei porti più indaffarati della Cina; questo portò il governo imperiale ad istituire uno degli “Uffici per Navi Mercantili”; ossia uffici adibiti a compiti doganali di controllo e tassazione. Questo tipo di uffici vennero aperti solo nei porti più importanti, quelli cioè che ricevevano navi dall’estero.

La città di Ningbo (Siming), divenne quindi uno dei più importanti centri di scambio della Cina, ed una delle città più fiorenti. L’aumento del benessere, conseguenza degli intensi scambi commerciali, ebbe effetti sulla mentalità della popolazione locale rispetto al modo di condurre affari.

Un tempio tradizionale a Ningbo

Quello che negli anni ‘90 sarebbe diventato famoso come il Modello Zhejiang (il modello di business basato su stretti rapporti interpersonali) si sviluppò anche a Ningbo. La Gilda dei Mercanti di Ningbo divenò talmente potente da creare una rete di banche private per prestiti che si allargò oltre i confini della città stessa, arrivando perfino a Shanghai.

Si dice, infatti, che sia stata proprio la Gilda di Ningbo a mettere le basi per il futuro sviluppo finanziario di Shanghai.

Durante la Dinastia Qing, subito dopo la Prima Guerra dell’Oppio (1842), il porto di Ningbo fu uno di quelli “forzatamente” aperti agli imperi stranieri attraverso il successivo Trattato di Nanchino.

Ciò portò un nuovo periodo di espansione economica in quanto, missionari, mercanti e nuove delegazioni diplomatiche provenienti da Giappone, Portogallo ed Inghilterra si stabilirono qui.

Queste nuove comunità di stranieri, da un lato portarono alla costruzione di edifici in stile europeo (palazzi e chiese ancora presenti e che diventeranno una caratteristica della città), dall’altro anche tutta una serie di incidenti che sfoceranno in vere e proprie battaglie e che porteranno disastri per Ningbo ed un suo declino.

La Storia però, sorriderà di nuovo alla città, dandole una nuova opportunità per ritrovare la sua importanza a livello mondiale.

Questa nuova opportunità per Ningbo arriverà nel 1984, quando fu scelta per far parte del secondo gruppo di citta’ che avrebbero ospitato una “Zona Economica Speciale”, ossia delle zone aperte al libero mercato, in cui gli affari vengono condotti in uno speciale regime di tassazione, volto ad incentivare la creazione di imprese, facilitare l’import-export ed attrarre investimenti esteri e tecnologia.

Queste Zone vennero create durante la leadership di Deng Xiaoping (Il Piccolo Timoniere) in modo da favorire la transizione dell’economia cinese verso un sistema di mercato, esse saranno uno dei motori dello straordinario sviluppo cinese dagli anni ‘80. 

Da quell’anno, Ningbo ha continuato a svilupparsi e prosperare. Adesso è la sede di: un parco industriale, due porti franchi e tre zone economiche speciali.

Il porto di Ningbo-Zhoushan è il quarto porto per containers al mondo, e nel 2019 il PIL fu di quasi 1.2 trilioni di yuan (153 migliaia di miliardi), diventatando così uno dei porti principali per l’iniziativa One Belt-One Road.

Oggi la città è una metropoli sviluppata, ed è stata recentemente promossa al livello 1.5 secondo la scala usata in Cina per definire lo sviluppo dei centri urbani.

veduta notturna di Ningbo

 Ningbo è anche una città multiculturale, dove grattacieli moderni si mescolano ai palazzi costruiti dagli europei.

Ningbo New Library, Schmidt Hammer Lassen Architects

inoltre è sede del primo campus universitario straniero in Cina (l’Università di Nottingham) ed è anche sede della più antica biblioteca privata della Cina Meridionale. Ningbo ha anche legami con l’Italia, è gemellata con Firenze ed ospita dal 2006 una replica del David di Michelangelo, raggiunta più tardi anche da una statua del Sommo Poeta, Dante Alighieri.

note sull’autore dell’articolo:

Mattia Marchetti Aloisio 马天龙 vive in Cina a Ningbo, Zhejiang da molti anni, ed è specializzato in Brand Identity | Archetype Branding | Customer Care | Social Media Manager.




La nobiltà del compromesso.

di Christian Lezzi

Chi ama i treni, usa definire il percorso di vita come un metaforico binario, una strada ferrata caratterizzata da rettilinei, curve, salite, discese… e scambi, soprattutto. Quegli scambi da intendere come il momento in cui si opera una scelta e che ci tiene incollati al ragionamento, all’esito statisticamente probabile, alla memoria e all’esperienza. Ma anche alla pancia, all’istinto, al lampo e all’intuizione.

L’essenza del concetto non cambia se, al posto di binari, volessimo parlare di nodi, paragonando la vita a una fluente chioma scompigliata dal vento, da esso sbattuta, avviluppata, agitata come fosse viva, annodata. Nodi da sciogliere, da dipanare per venirne a capo, comprendere il verso, il senso, la direzione delle cose. Perché la questione non riguarda solo i capelli del famoso adagio. Anche la vita stessa si aggroviglia in infiniti nodi (metaforicamente parlando, in questo caso) che, presto o tardi, al pettine della resa dei conti, ci arrivano.

E possono far male, proprio come una tirata di capelli.

Ma qual è il nesso tra i nodi, gli scambi ferroviari, il buonsenso e il compromesso?

I transalpini lo definiscono bonsens, ma la piccola differenza linguistica non cambia la sostanza. Parlo dell’essenza del concetto che definisce, anche con l’accento francese e con le parole del dizionario Treccani, la capacità naturale e istintiva di giudicare rettamente, soprattutto in vista delle necessità pratiche. Quella capacità, quindi, di disperdere le nebbie e dissipare i dubbi, di analizzare, distillando il senso delle cose, per comprendere il da farsi, senza azzardi eccessivi o troppa ristagnante speculazione. E’ il buonsenso che suggerisce di raggiungere la corretta preparazione, prima di affrontare qualsivoglia sfida, sia essa di natura sportiva o d’affari. E perché no? anche d’amore. E’ sempre lui, il buonsenso, a dirci che è fondamentale imparare a giocare a calcio, prima di scendere in campo per una partita ufficiale, passando ore a preparare il fisico e la strategia, l’interazione con la palla e coi compagni, con il pubblico e con l’arbitro.

Non è una cosa che s’improvvisa e, quello calcistico, è solo un esempio al quale potremmo affiancarne a centinaia. Per fortuna del lettore, proprio il buonsenso mi suggerisce di arrivare al dunque, senza ulteriori preamboli.

E il dunque si palesa, muta forma e scenario, vira la rotta bruscamente, allontanandosi dai manti erbosi per giungere, quasi planando sulle ali del filo logico, sul terreno d’altro gioco, ben più scivoloso e complesso, ch’è quello della creazione di un’impresa. Perché proprio come non si veste la maglia di una squadra di serie A, scendendo in campo da titolare, privi della preparazione adeguata, senza l’allenamento sufficiente a sostenere il ritmo e a fare bene, allo stesso identico modo non si vestono i panni dell’imprenditore, senza prima essersi preparati, facendo proprio quell’ecosistema di competenze e di assetto mentale, che costituiscono il bagaglio minimo e indispensabile a legittimare l’azione.

E’ come quando vai per mare. O per cielo. Mai metteresti in acqua una barca se, il bacino che la ospiterà, non ti fornisse una quantità d’acqua minima e sufficiente a tenerla a galla e mai salteresti da un aereo senza saper usare un paracadute, ignorando la gestione delle correnti e i principi aerodinamici di base. Allo stesso modo, non si crea un’azienda senza le condizioni minime per poter partire, muovendosi casualmente, come uno sprovveduto automobilista che si avventura lungo un percorso che non conosce, con la macchina in riserva e qualche spia rossa accesa, a caso, sul quadro strumenti. O senza la ruota di scorta, giusto per rincarar la dose.

Perché l’imprenditoria, come lo sport professionistico, come qualsiasi altra attività dello scibile umano, non s’improvvisa. Non s’improvvisano i trofei, le coppe, le medaglie, come non si improvvisa un fatturato in crescita, uno sviluppo internazionale, la leadership di mercato o la exit di successo. Ci sono delle condizioni minime da rispettare, in entrambi i casi, che s’insegua una palla o l’ingresso in borsa.

Ciò non significa attendere passivamente la perfezione, arrovellandosi in annosi calcoli, ma inseguire e creare attivamente quelle condizioni di partenza, per far sì che la nostra creatura abbia di che navigare, una rotta lungo la quale andare, qualcuno che la sappia pilotare e il carburante, almeno sufficiente a raggiungere la prossima tappa, il prossimo step, non necessariamente la meta.

Senza suicide improvvisazioni, perché il fallimento, nel mondo reale, costa denaro, risorse, sudore e sangue, vita e vite.

Il momento giusto per partire non è adesso, non necessariamente e non per forza, come spesso leggiamo o sentiamo dire, molto superficialmente. Non ci si sveglia al mattino per andare in giro, senza sapere dove andare e come andarci, per lo meno se si vuole dare un senso alla giornata. Il momento giusto, quale che sia l’attività da svolgere, è sempre e solo quello in cui possiamo disporre degli elementi minimi, necessari a permetterne la nascita, almeno quella. Non quelli massimi, non la perfezione (mi ripeto volentieri), ma quelli minimi, appena sufficienti a prendere l’onda, senza farsi troppo male. A restare a galla o ad atterrare senza schianto.

Che per improvvisare, si deve essere dei fuoriclasse con due Spalle così! Con o senza S.

E invece, spesse volte, passiamo le giornate a documentarci, a studiare, a snocciolare le caratteristiche di cose futili, secondarie, non necessarie o ancor meno imminenti, del prossimo cellulare o dell’abbonamento alla Pay-per-view, ad esempio, perché non vorremmo mai comprare un oggetto non aderente alle nostre necessità. No, certe cose non si affidano all’imprudenza, dice il buonsenso, ma ci permettiamo il lusso di arrangiare una ragion d’essere professionale. Ancora troppi formatori, per superficialità e semplicismo, ci inculcano il pericoloso concetto secondo il quale, per fare qualcosa, ci si deve buttare, si deve improvvisare e imparare, strada facendo, dai propri errori, cosa che difficilmente possiamo permetterci, per via del timing tiranno (il tempo d’incubazione necessario a rendere profittevole un business) e delle risorse risicate – due motivi che portano spesso al crollo senza appello – confondendo sadicamente l’improvvisazione con l’approssimazione e con la (presunta) arte dell’arrangiarsi.

Ci dovrà pur essere una giusta via di mezzo, tra l’immobilità del perfezionista e l’incoscienza kamikaze dell’improvvisatore all’arrembaggio (che spesso alimenta le statistiche delle imprese cadute nei primi anni di vita), tra l’eterno attendista calcolatore e quello che chiude gli occhi e salta, senza nemmeno aver calcolato il punto d’atterraggio, azzardando il lancio del cuore oltre l’ostacolo, senza sapere cosa ci sia di là dello stesso (parafrasando i versi di Lauren St. John).

Ed è qui che entra in gioco il bistrattato compromesso, vilipeso anche quando, come in questo caso è ammantato di nobile utilità, perché posto al servizio del successo di tutti noi.

E’ il compromesso che ci permette di stabilire delle priorità, il livello logico e la fase in cui ci troviamo, se quella delle strategie o quella della loro discesa in campo. Ed è sempre il compromesso a farci mediare tra ragione ed emozione, tra mente e corpo, come abilmente spiegato dal neurologo portoghese Antonio Damasio che, nel suo eccellente libro intitolato “L’errore di Cartesio”, dimostra come le emozioni siano, in realtà, dimensioni cognitive.

Credo nelle idee che diventano azioni, ha scritto il poeta americano Ezra Pound e un’idea di base ci deve necessariamente essere (idea intesa come progetto articolato e cogitato), proprio come in un’azione si deve necessariamente sfociare, perché l’idea senza azione è sterile filosofia, mentre l’azione senza idea è pericoloso masochismo. Per dare un corpo alla mente e una mente al corpo, un’azione all’idea e viceversa.

Perché noi umani, in fin dei conti e in barba al vetusto concetto del “cogito ergo sum” (Cartesio, sempre lui), non siamo esseri pensanti che si emozionano, ma esseri emotivi che pensano.

Esiste senz’altro questa via di mezzo ed è proprio la fusione tra compromesso e buonsenso, in una sorta di nuovo sistema, capace di mediare le parti, le istanze, le aspettative e i bisogni, di sciogliere i nodi intesi come dubbi e perplessità, che ci aiuta a capire come osare un rischio almeno in parte calcolato, prevedendo la via di fuga e il piano B.

Un sistema utile a non finire come la mosca contro il vetro, per non relegarci al ruolo di aspiranti startupper perpetuamente inconcludenti, per non ricominciar sempre da zero, arrancando faticosamente fino al prossimo progetto, fino alla prossima battuta d’arresto, al prossimo tracollo e all’ennesima delusione.

Christian Lezzi




La linea editoriale

Ci chiedono, da più parti,  di definire la nostra linea editoriale. …ok, allora dovremmo fare il punto per collocarci nell’area culturale di riferimento più appropriata per evidenziare al meglio lo spazio creativo che vorremmo offrire nel tempo ai nostri scrittori e ai nostri lettori?

…ah, saperlo! 😉

Vassily_Kandinsky, Composition #8, 1923. Guggenheim museum, New York, USA