Una storia in attesa di futuro.

Foto Mario Barbieri


di Mario Barbieri_

Lo scorso 15 Luglio si sono celebrati i 115 anni dello storico e prestigioso marchio di auto italiane, LANCIA .

Si è riproposto all’attenzione l’ultimo logo del marchio, che non è una vera novità dato che risale al 2007, ma forse siamo talmente disabituati a vederlo, che può apparire novità di oggi

Lancia ha una importantissima storia di #design automobilistico e notissima tradizione di auto sportive. 
Chi non conosce o non ricorda la Stratos disegnata da Gandini per Bertone, nata dall’evoluzione della Dreamcar Stratos Zero del 1971. Concept veramente avveniristico per quegli anni e che personalmente mi ricorda i bozzetti di Syd Meaddesigner e illustratore americano scomparso nel Dicembre 2019. La Stratos motorizzata Ferrari, vincerà 3 Campionati del Mondo Rally (1974, 1975, 1976) e numerose altre gare e importanti piazzamenti.
Anche non considerando un modello tanto stratos…ferico (se mi è concesso il gioco di parole), cosa dire della Lancia Fulvia Coupé  disegnata da Piero Castagnero (che si ispirò pare, ai motoscafi Riva del tempo) o della Lancia Delta nelle loro versioni HF? Auto che definiremmo “iconiche” e che tali rimangono.

Come, facendo un bel salto indietro nel passato, della mitica “coprotagonista” [link] de “Il sorpasso” (film di Dino Risi del ‘62 con un giovane Jean-Louis Trintignant e l’insuperabile Vittorio Gassman), la Aurelia B24 prodotta in soli 716 esemplari.

Dobbiamo quindi temo stendere un velo pietoso sui modelli generati dagli ibridi “Lancia-Chrysler” (più Chrysler che Lancia), nati da dinamiche aziendali che poco hanno a che fare con l’ormai centenaria storia del marchio e non possiamo che rimanere perplessi oggi, quando come ignari nuovi potenziali clienti, affascinati dalla storia rievocata, cercando la “gamma” Lancia sul sito del Marchio, troveremmo ben… due modelli!
In realtà due varianti del medesimo modello, la ormai anch’essa storica Ypsilon, che per quanto la si rimaneggi, attualizzi e vivacizzi, rimane un modello nato nel 2003 e che vede la Seconda Serie datata all’ormai lontano 2011(!) che in questi anni non ha visto altro che cambio di livree, allestimenti, accessori.

Che dire? Accanimento terapeutico, minestra riscaldata e continuamente ri-scodellata?
Certo possono sembrare conclusioni dure, ma è proprio il fulgido passato che rende più gramo l’attuale presente.
Si prospetta un futuro pienamente elettrico per la Ypsilon, ma auguriamoci non si tratti solo del propulsore e ancor più che si possa vedere una rinascita, una nuova fioritura di modelli che questo Marchio merita, perché è un pezzo di Storia dell’Automobile che non è conosciuto solo qui in Italia, assolutamente no.

Per chi volesse ripercorrere storia e fasti:
https://youtu.be/5FetDQiek4w
https://youtu.be/KgQM3S01Upc

Con questo primo articolo intendiamo indagare, proporre riflessioni e approfondimenti alle innumerevoli e diversificate proposte del mondo del Design che rappresenta, insieme ad altre forme di Arte, una eccellenza italiana [e non solo].

Vi rimandiamo inoltre al link qui sotto dove troviamo ulteriori proposte, casi studio, e progetti innovativi che meritano maggiore attenzione e approfondimento.

https://ceuntempoperognicosa.wordpress.com/category/design-e-tecnologia/


Mario Barbieri, classe 1959, sposato, tre figli ormai adulti.
Appassionato di Design e Fotografia.

Inizia la sua carriera lavorativa come illustratore, passando per la progettazione di attrazioni per Parchi Divertimento, negli ultimi anni si occupa di arredamento, lavorando in particolare con una delle principali Aziende Italiane nel settore Cucina, Living e Bagno.

Blog:
https://ceuntempoperognicosa.wordpress.com/
https://immaginieparoleblog.wordpress.com/




Siamo noi le rane bollite.

David D’Amore_ China su carta_1991

di Giuliana Caroli_

Sono sicura che la stragrande maggioranza delle persone conosce il principio della rana bollita di Noam Chomsky. Molti meno sanno chi è Chomsky. Linguista, filosofo, scienziato cognitivista, nonché attivista politico, è un punto di riferimento per chi, come me, si occupa di Comunicazione. In primis per la sua teoria rivoluzionaria sulla grammatica generativo-trasformazionale e poi per l’analisi del ruolo dei mass media nelle democrazie occidentali.

Nel suo libro “Media e potere” del 2014 scrive:

Immaginate un pentolone pieno d’acqua fredda, nel quale nuota tranquillamente una rana.

Il fuoco è acceso sotto la pentola, l’acqua si riscalda pian piano. Presto diventa tiepida. La rana la trova piuttosto gradevole e continua a nuotare. La temperatura sale.

Adesso l’acqua è calda. Un po’ più di quanto la rana non apprezzi. Si stanca un po’, tuttavia non si spaventa.

L’acqua adesso è davvero troppo calda. La rana la trova molto sgradevole, ma si è indebolita, non ha la forza di reagire. Allora sopporta e non fa nulla.

Intanto la temperatura sale ancora, fino al momento in cui la rana finisce – semplicemente – morta bollita.

Se la stessa rana fosse stata immersa direttamente nell’acqua a 50°, avrebbe dato un forte colpo di zampa e sarebbe balzata subito fuori dal pentolone.

In molti hanno utilizzato questo principio in senso metaforico per parlare di potere e condizionamento mediatico, di degrado e scomparsa dei valori e dell’etica, di impoverimento morale e culturale della società.

Ma io voglio prenderla più alla lettera, pensando a ciò che stiamo vivendo in questi giorni. Sono anni che sentiamo i climatologi affermare che “è l’estate più calda di sempre”. Noi ci accorgiamo che le temperature salgono ma non siamo spaventati. Sentiamo parlare di cambiamento climatico e delle sue drammatiche conseguenze, ma ci sembra uno scenario lontano e irrealistico. Per qualcuno è addirittura un complotto o una fake news. Quindi non reagiamo e continuiamo a condurre le nostre esistenze come abbiamo sempre fatto. Intanto il calore sale e diventa torrido e insopportabile. Proviamo a dare qualche segnale di insofferenza, ma senza troppa convinzione pensando che spetti ad altri intervenire per risolvere il problema. Restiamo inerti, immobili, noncuranti condannando noi stessi alle estreme conseguenze.

Con la nostra inazione stiamo alimentando la deriva del nostro mondo e contribuendo al suo disfacimento.

E allora? Come evitare di fare la fine della rana bollita?

Serve una presa di coscienza forte, dirompente, sconquassante da parte dell’umanità. Dobbiamo reagire all’assuefazione e invocare un cambiamento radicale capace di rovesciare lo status quo nel quale ci siamo rifugiati e adattati per convenienza o per ignoranza. 

Per quanto possa essere difficile da credere, non può esserci scenario peggiore di quello che stiamo vivendo e che ci sta conducendo verso una fine sicura. E non possiamo aspettare oltre. Se lo facciamo, non avremo più le forze e le risorse per uscirne e sarà troppo tardi.

Prendiamo coscienza della nostra situazione e abbracciamo dunque il cambiamento.

Se vogliamo salvarci dobbiamo saltare.

Senza timori. 


note sull’Autore_

Giuliana Caroli, classe 1965, lavoro in una grande cooperativa di servizi come Responsabile Comunicazione, ma mi porto come bagaglio una lunga esperienza in ambito consulenziale e formativo.

Scrivo di ciò che conosco e di ciò che mi appassiona. Coltivo la curiosità e alimento le relazioni positive. Detesto l’indifferenza e l’irresponsabilità.

A cosa aspiro? A fare la differenza: per qualcuno, per il pianeta.




Niente da celebrare.

Giulia Gellini_ Crocifissione_Tecnica mista_ 165×130 cm_2013

di Redazione FUORI.MAG_EG

Da un lato multinazionali visionarie che hanno fatto del benessere del proprio dipendente un mantra (vedi LinkedIn) che ha concesso recentemente ai propri dipendenti di scegliere per davvero se tornare in ufficio in modalità ibrida o se lavorare al 100% da remoto), dall’altro piccole realtà che ancora oggi, nonostante una più accesa e matura consapevolezza sul tema sicurezza, le leggi e protocolli a tutela del dipendente e la capacità di poter investire in manutenzione, diventano luoghi di morte.

Sono pericolosi e fuorvianti i confronti tra i vari Golia (pochissimi in Italia quelli che possono fregiarsi del titolo di “gigante”, ma nel senso più umano e visionario del termine) e la moltitudine di Davide (tantissimi e non necessariamente PMI, che ancora intendono i dipendenti come “asset”, “costo fisso/variabile”, “manodopera” o “capitale”), però questa polarizzazione restituisce una fotografia del lavoro in Italia oggi.

Non bisogna sentirsi fortunati, perché “c’è chi sta peggio”, bisogna sentirsi insoddisfatti, perché il meglio dovrebbe essere la norma e non un privilegio.

A tutti dovrebbe essere garantito il rispetto della propria dignità.

In settimana Laila El Harim, operaia di 41 anni rimasta incastrata in una fustellatrice. A maggio Luana D’Orazio, operaia di 22 anni , stritolata da un macchinario manomesso. A marzo Sara Pedri, la ginecologa forlivese di 31 anni, scomparsa dall’ospedale Santa Chiara di Trento, dove subiva mobbing e violenza psicologica. 

Che cosa c’è da celebrare esattamente, qui sopra?


Note a margine _

Con questo articolo intendiamo richiamare l’ attenzione – con continuità di azione nel lungo periodo – alla sempre attuale e interessante tematica riguardante la donna e la sua posizione nel mondo del lavoro.

Cercheremo di denunciare, in forma sintetica ma precisa, il fenomeno del mobbing che, a tutt’oggi, presenta come vittima preferenziale la donna.

Milioni di donne , ogni giorno, subiscono discriminazioni nel mondo del lavoro. Questo preoccupante fenomeno non solo viola i diritti fondamentali ma ha anche conseguenze rilevanti dal punto di vista economico e sociale. Le discriminazioni soffocano opportunità, sprecano il talento umano necessario per il progresso economico e accentuano le tensioni sociali e le disuguaglianze. La lotta alla discriminazione è parte essenziale della promozione del lavoro dignitoso.




Vi regalo un format.

Immagine grafica_ Mario Barbieri.

di Mario Barbieri_

Le Olimpiadi di Tokyo si sono concluse, sappiamo tutti com’è andata, siamo tutti giustamente euforici e grati, per le vittorie degli Atleti che rappresentavano la nostra Italia.

Sono già stati spesi e versati “fiumi di inchiostro”per lo più “digitale”, sul valore e i valori, sui significati, sulle metafore, soprattutto in questo Tempo. Non assenti critiche o lamentazioni, ma tutto sommato passate in secondo piano.
Anche tanto è stato scritto, sulle storie e magari gli aneddoti, di questo o quell’ atleta, inevitabilmente, ma non giustamente, rispettando personaggi “più popolari” o mediaticamente appetibili e discipline popolari più di altre, ma credo non abbastanza e temo come si usa dire, si “spegneranno i riflettori” con la stessa velocità con cui si è spenta la mitica fiamma su quel braciere.

Quindi care TV, private o meno, che ci inondate di storie e storielle, non tutte poi così importanti e di spessore, tali da giustificare ore di trasmissione o che qualcuno che abbia un minimo d’altro da fare, debba rimandare per stare davanti ad un qualsivoglia schermo.
Che ci sciorinate tra cuoricini e lacrime, carrambate (mitica Raffaella) e comparsate, apparizioni di ectoplasmi – tali credo siano – che si sono agitati nell’ultima casa di un qualche fratello o misteriosa isola ipoteticamente sperduta in lontano atollo. Che ci svelate verità nascoste del VIP del momento, che sinceramente potevano rimanere ancora nascoste sino alla fine dei giorni, perché non mettete su una belle trasmissione, un “format” di guarda caso 40 puntate, che ci racconti del prima e se vogliamo anche un po’ del dopo, della storia, le fatiche, i sacrifici, le rinunce, le attese, le delusioni, ma evidentemente anche i sogni, le soddisfazioni e le prospettive, di questi Atleti, di queste donne e uomini, che hanno scelto un percorso certamente non semplice, in discipline – e sottolineo #discipline – tutte esigenti, totalizzanti, ma certamente esaltanti che regalano a noi “atleti solo per partecipazione” tante emozioni e a Loro anche medaglie e riconoscimenti (ma “uno su mille ce la fa”), gloria magari fugace, ricchezze penso poche, ma una dimensione, una ragione, una crescita, un’umanità che, senza farne degli eroi (certamente Christian Lezzi sarebbe d’accordo), possono diventare un riferimento, uno stimolo, un (buon) esempio per “adulti e bambini”, certamente per tanti giovani la cui unica aspirazione è talvolta solo aumentare il numero dei “followers”, non importa come purché sia.
Dove porta invece una #passione, laddove “al cuor non si comanda”, ma quel cuore, quella passione, comanda ed educa mente e corpo sino a diventare uno splendido tutt’uno.

Magari potremo anche raccontare di chi “nell’ombra”, ma quella buona, umile che non chiede la ribalta, questi Atleti, ha aiutato, educato, sostenuto, tecnicamente formato. Penso alle Famiglie e agli Allenatori e perché no anche ai cosiddetti “sponsor” che negli sport cosiddetti “minori”, non lo sono a fine di lucro.

Insomma, raccontiamo le loro storie, non lasciamo che si rispolverino solo alla prossima Olimpiade se per età e risultati potranno di nuovo esserci.
Sarebbe davvero un grande spreco!


Mario Barbieri, classe 1959, sposato, tre figli ormai adulti.
Appassionato di Design e Fotografia.

Inizia la sua carriera lavorativa come illustratore, passando per la progettazione di attrazioni per Parchi Divertimento, negli ultimi anni si occupa di arredamento, lavorando in particolare con una delle principali Aziende Italiane nel settore Cucina, Living e Bagno.

Blog:
https://ceuntempoperognicosa.wordpress.com/
https://immaginieparoleblog.wordpress.com/




La democrazia: un concetto da allargare.

David D’Amore_ China su carta_2019

di Ambientalismo Democratico_

Siamo cresciuti in una democrazia, siamo cresciuti in una cultura socialdemocratica.

Siamo cresciuti in un ambiente pieno di contraddizioni.

Non è sempre facile crescere in un ambiente e accorgersi delle sue profonde incoerenze.

La Storia racconta di tantissimi sognatori e rivoluzionari che hanno saputo raccontare e superare le contraddizioni della loro epoca: Marx e Rosa Parks, Georg Cantor e molti altri.

Quello che la Storia difficilmente racconta sono le difficoltà che sono state superate per arrivare a mostrare quelle contraddizioni.

Noi siamo nati in un contesto di socialdemocrazia. Significa che possiamo andare a scuola e imparare gratuitamente; possiamo chiamare la polizia, la quale correrà in nostro soccorso; possiamo andare a votare per i rappresentanti migliori. Siamo cresciuti nell’idea che noi siamo i lavoratori, siamo la maggioranza, siamo quelli che, fino a 100 anni fa, facevano la fame.

Noi siamo i poveri, nel senso che è storia recente il boom economico che ha reso l’Italia ricca.

Quindi siamo quelli poveri, nati e cresciuti in un contesto di Stato Sociale che ci regala servizi.

Quando andavamo alle scuole pubbliche, per noi era facile scegliere: sei di destra o sei di sinistra?

Destra significava Berlusconi, soprattutto in certi anni. Significava DC o neofascismo, pochi anni prima. Sinistra significava PCI o sinistra extraparlamentare, poi ha significato una galassia di “robe” che possono essere chiamate “post-comunismo”.

Insomma: se sei di destra sei fascista o cattolico, se sei di sinistra sei con i lavoratori.

Però… però qui iniziamo i problemi: noi eravamo con i lavoratori, per carità, ma poi odiavamo gli stessi lavoratori che si infilavano per ore in autostrada per fare un fine settimana al mare.

Eravamo contrari a regimi che sfruttassero il lavoro delle persone umili, ma alla fine non trovavamo tanta distanza tra quello e la vita di certi animali negli allevamenti intensivi o nei laboratori di ricerca.

Per quelli più esperti esistevano anche i Verdi, partito ambientalista vagamente diffuso, ma anche lì qualcosa non funzionava. Era anche difficile capire cosa.

Insomma: l’immagine non quadrava.

Crescendo, quando ci siamo appassionati davvero di ambiente, di politica o di filosofia, abbiamo studiato ciò che potevamo su questi argomenti.

Il problema era che gli autori disponibili continuavamo a commettere gli stessi errori: descrivere la società umana in maniera molto coerente secondo i criteri del socialismo o del liberalismo o i dettami di una particolare dottrina religiosa… poi la Natura veniva spesso letta con freddi parametri biologici e scientifici distanti chilometri dai parametri usati per la società.

Che fossero autori del XIX secolo o del XX, l’umano veniva descritto come creatore di valore, pieno di emozioni e di speranze, come degno della società migliore possibile; l’animale veniva, invece, descritto come un oggetto, come una macchina che risponde a certi impulsi.

Il lavoro umano genera valore.

… eppure una montagna o un tramonto hanno un valore enorme, anche se nessun umano li ha costruiti.

La Natura viene spesso descritta come una bestia feroce che ti mangia appena può, una bestia che va ammaestrata grazie all’intervento dell’umano, che ne aggiunge valore tramite il suo lavoro.

Eppure… eppure la Natura è così piena di bellissime cose e l’essere umano può anche distruggerle, tramite il suo lavoro.

Ecco che nel corso degli anni si è venuta a formare, nella nostra mente, un’immagine chiara: una socialdemocrazia che accogliesse anche gli animali e le piante.

Una socialdemocrazia che accogliesse forme di valore diverse da quello economico, alle volte forme di valore innate nella Natura stessa che verrebbero corrotte dall’intervento umano.

Una socialdemocrazia che accetti un limite invalicabile: gli ambienti vergini, gli ambienti naturali, non vanno antropizzati.

Negli anni abbiamo imparato a chiamare questa idea Ambientalismo Democratico, per dire che siamo ambientalisti, ma siamo a favore della democrazia quella vera, quella dove non decidono e non scelgono solo gli umani.


nota sull’autore_

Ambientalismo Democratico

Siamo un team di ragazzi giovani, che si sono riuniti nell’estate del 2020 per organizzarsi e aprire la paginawww.facebook.com/ambientalismodemocratico Veniamo tutti da esperienze diverse: chi dall’università, chi dai primi anni del lavoro, chi dalla militanza in alcuni partiti, chi dalla passione per l’ambiente scevra dall’impegno istituzionale.Ad agosto abbiamo capito che serviva dare spazio ad un’idea molto semplice: la socialdemocrazia occidentale aveva smesso di funzionare perché lasciava indietro molti, troppi, che sono membri attivi della società. Questa idea sembrava non aver spazio nei giornali ufficiali o nei dibattiti, quindi abbiamo deciso di impegnarci noi, giorno e notte, per diffonderla. Ecco che abbiamo aperto la pagina Facebook e abbiamo iniziato a descrivere una società ambientalista democratica nel migliore dei modi possibili.




Ma allora, chi sono gli Eroi?

Anna La Tati Cervetto_[Mani Rosa]

di Christian Lezzi,

“Mi viene da pensare che non sono tanto gli uomini i guardiani delle greggi, ma le greggi guardiani degli uomini, perché quelle sono molto più libere di questi”.

(Henry David Thoreau).

È passato quasi un mese, da quando ho scritto quell’articolo link e, ancora, sento che qualcosa è rimasto inespresso. In quell’articolo parlavo del concetto usurpato e, spesso abusato, di eroismo. In quelle righe analizzavo ciò che, secondo il mio modo di vedere le cose, non dovrebbe rientrare nella definizione di atto eroico ma, piuttosto, sarebbe da classificare secondo la nobilissima definizione di gesto agito per senso del dovere, di abnegazione al bene altrui, di dedizione a ciò che è giusto, secondo parametri di altruismo e generosità più o meno universali.

Stesso discorso per un gesto avventato e occasionale, agito per senso d’appartenenza, incoscienza, esibizionismo, mancanza di alternative. Mille etichette applicabili, ma non quella di Eroe e, di conseguenza, di atto eroico. 

Ho ricevuto molte interazioni, a seguito di quella pubblicazione e, una in particolare, ha calamitato i miei pensieri, attraendo la mia attenzione ancora oggi, a distanza di settimane.

Ma allora, chi sono gli eroi?

Ho dato molto peso alla domanda, nel corso dei giorni successivi alla pubblicazione dell’articolo e, proprio perché la considero importante, ci ho molto riflettuto. È grazie a quella domanda ( e ad un video di Roberto Saviano che mi ha ispirato) se ho deciso di parlare di Walter Bevilacqua, per suggerire un esempio di ciò che ritengo comportamento eroico, di colui che, secondo me, merita l’appellativo di Eroe.

Perché gli eroi esistono, ma sono rari come i più puri dei diamanti e, spesso, si nascondono ai clamori della notorietà.

Walter era un uomo di 68 anni, un pastore della Val d’Ossola, un vecchio alpino, una penna nera nata e cresciuta a pochi passi dal confine, tra una transumanza e un alpeggio estivo. 

Nulla di particolarmente eroico, fin qui…

Cammin di vita facendo, un triste giorno, Walter si ammala di una grave patologia renale e, tra visite e farmaci, inizia il calvario della dialisi. Le sue condizioni non migliorano e viene iscritto alla lista d’attesa per il trapianto, unica soluzione prospettata dai medici che lo hanno in cura. Passano i giorni, con loro i mesi e, la vita di Walter, per forza di cose, continua, tra terapie, lavoro e acciacchi vari, più o meno come sempre, sperando ben poco in quella soluzione chirurgica, unico orizzonte possibile a difesa della sua stessa vita.

Era un uomo solo e solitario, Walter, cresciuto dal nonno Camillo, dal quale aveva imparato a non risparmiarsi mai, vissuto tra i monti, con le sue pecore che, nel tempo, erano diventate la sua unica famiglia (eccezion fatta per le sorelle Mirta e Iside), il suo gregge naturale. E aveva imparato molto da quel gregge, che non è solo omologazione o imitazione, sinonimo di cieca e sciocca obbedienza, per questo usato spesso come esempio negativo efficace. Un gregge, Walter lo sapeva bene, è anche stare insieme per difendersi, uniti e compatti, per sopportare i rischi e i conflitti, per superare insieme le asperità della vita, per supportarsi a vicenda.

Friedrich Nietzsche ha scritto: “Il piacere di essere gregge è più antico del piacere di essere io: e finché la buona coscienza si chiama gregge, solo la cattiva coscienza dice: io.”

C’è molta nobiltà anche in un gregge di pecore, se solo ci sforziamo di guardarlo da un’altra angolazione, scevra dagli annosi stereotipi e secondo un diverso paradigma. Ma noi umani, ormai incapaci di fare quadrato e di essere gregge, secondo l’alta e solidale accezione, propensi a essere folla (che del gregge è la versione peggiore) forse lo abbiamo dimenticato.

Ma torniamo a Walter.

Un gran lavoratore il nostro pastore, innamorato delle sue montagne, appassionato di agricoltura e molto legato ai suoi animali. Del resto, erano il suo mondo e si dice di lui che non abbia mai fatto un giorno di vacanza dalle sue attività, mai un’assenza, mai una lamentela. Ma forse sono cose che si dicono ai funerali. 

Non importa, non è questo che rende speciale Walter Bevilacqua.

Nell’attesa del trapianto, l’uomo inizia a pensare che forse, quel rene, debba andare ad altri, a chi lo merita di più, a chi ha una famiglia a cui pensare, un gregge umano di cui occuparsi, al contrario di lui che non deve occuparsi d’altri che non siano il suo gregge di pecore. Un pensiero sempre più presente, nella mente del pastore, che gli toglie il sonno, gli lascia il tormento e gli spegne il sorriso, per la paura di portare via, l’ultima opportunità, a chi ritiene più meritevole di lui, a chi quel rene ha più motivi desiderarlo. Per ottenerlo.  Almeno secondo la sua personale etica e la sua soggettiva – in questo caso indiscutibile – morale. 

Se mai arriverà, quel rene. E se mai si troverà, in esso, la piena compatibilità.

Quel momento arriva, portando con sé il turno di Walter. È il momento della speranza, quella concreta, che ha una data e una procedura. Il rene si trova e la compatibilità biologica è tale, da permettere il trapianto che salverà la vita al vecchio alpino ossolano.

Citando Roberto Saviano, “la realtà si muove per paura, per interesse, per piacere, per necessità”. Ma non quella di Walter, che si muove verso l’altro, a tutela di altre vite, forse più importanti e meritevoli della propria, per altruismo e per spirito di sacrificio.

Per spirito di gregge.

Walter ha deciso. Non accetta di vivere, se questo implica consegnare a morte certa un’altra persona. Non toglierà la speranza a chi, restando in vita, potrà dare a sua volta vita ad altre persone. No, non farà quel trapianto. Lascerà il rene a chi è dietro di lui, nella lista dell’eterna e lancinante attesa. Lo lascerà a chi è più giovane, a chi ha una famiglia, a chi ha moglie e figli di cui occuparsi, a chi ha ancora speranze, ancora un futuro.

Walter rifiuta il rene e, con un gesto d’immensa umanità e di infinita solidarietà, tanto forte quanto silenzioso, pregno di quello schivo pudore che solo il vero eroe sa avere, dona la sua stessa vita a un’altra persona, a qualcuno che ritiene, secondo il suo insindacabile giudizio, più bisognoso e meritevole di lui. 

Non per istinto, ma per ragionamento e per libera scelta.

Inevitabilmente, con il passare del tempo, le sue condizioni si aggravano e, durante la dialisi cui settimanalmente si sottopone, presso l’ospedale San Biagio di Domodossola, il suo immenso cuore cede. La sua bara sarà portata a spalla dagli alpini della sezione di Varzo, i suoi amici di sempre, tra le lacrime delle sorelle e il ricordo che, di lui, fa il parroco del paese, Don Fausto Frigerio.

Proprio a Don Fausto, Walter aveva confessato, parlando della sua drammatica decisione: “C’è chi ha più bisogno di me. Sono in molti che aspettano quest’occasione. Persone che hanno famiglia, che hanno più diritto di vivere di me. È giusto così” e questa frase, questo modo di pensare agli altri, prima che a se stesso, la dice lunga sulla filosofia di vita di Walter Bevilacqua.

Personalmente non so dire se, al suo posto, avrei agito allo stesso modo e forse, accantonate le ipocrisie e i “machismi” del caso, nessuno di noi può sinceramente rispondere a cotanta domanda. 

Lui lo ha fatto e tanto basta.

Era un contadino Walter, un pastore, un alpino, un uomo d’altri tempi, di montagna e di frontiera, un fratello per qualcuno, un amico per altri. Ed è soprattutto un Eroe, lui sì, questa volta al presente, perché gli Eroi, quelli veri, quelli lontani dalla retorica patinata e dalle facili ipocrisie, quelli dotati di una straordinaria umanità, donando la propria vita, vivono per sempre.


Nota sull’Autore_

Christian Lezzi, classe 1972, laureato in ingegneria e in psicologia, è da sempre innamorato del pensiero pensato, del ragionamento critico e del confronto interpersonale. 
Cultore delle diversità, ricerca e analizza, instancabilmente, i più disparati punti di vista alla base del comportamento umano. Atavico antagonista della falsa crescita personale, iconoclasta della mediocrità, eretico dissacratore degli stereotipi e dell’opinione comune superficiale.
Imprenditore, Autore e Business Coach, nei suoi scritti racconta i fatti della vita, da un punto di vista inedito e mai ortodosso.




FUOCO.

Giulia Gellini – Incontro impalpabile -tecnica mista 70 x 50 – 2019

di Maria Patrizia Soru_

Sono sacre le mie origini, in me è parte della creazione. Ribelle, desiderio degli uomini mi sono fatto catturare. Servo della vita o strumento degli dei, vivo oggi imprigionato tra mani candide consacrate che al crepuscolo di un giorno stabilito per devozione, liberano la mia forza in falò che illuminano la notte, purificando fedeli chini dinnanzi alla mia luce, al mio calore.

Profano è il mio nome se a liberarmi è una mano vestita di fuliggine mossa da occhi celati da una maschera che tra la folla incita alla danza. 

Mio è il potere di invadere sguardi e consumare sentimenti sfidando il tempo. Fulmineo come l’ardere di un campo di grano in estate tra il calore del sole e l’alito del vento. O lento, sotto la cenere, memore chioma di quercia ora sottili grigi capelli. Puoi sentire il mio calore poggiando la mano al centro del cuore, un calore lieve e persistente più forte del freddo della morte.

Ardo tra le mani di chi scrive, dipinge, scolpisce, suona strumenti. Coloro, invado l’aria, sfreccio velocemente nella mente e nei cuori di chiunque lavori con passione. Di chi sogna e spera in un futuro migliore. 

Io amo ascoltarlo ardere nel camino, e mi sento parte del suo mondo, se pur piccola, come la fiamma di una candela. 

 Come fuoco”

Forse questo non è il modo più ortodosso per accingersi ad affrontare un argomento così delicato come quello degli incendi in Sardegna. Ho scelto di citare me stessa, di usare le parole con le quali poco tempo fa descrivevo un aspetto della mia isola, un’isola dove il fuoco non sempre richiama alla mente immagini di morte e terrore, ma è sinonimo di cultura e tradizione, d’amore e passione. Tra quelle parole non posso negare vi sia un’immagine vivida di distruzione, un campo di grano in fiamme, una quercia, sono metafora d’amore ma sono anche quanto di più vicino alla brutalità del fuoco, all’immagine di sofferenza che ogni sardo porta nel cuore soprattutto in questi giorni, da quando il Monte Ferru è rimato vittima del fuoco, un fuoco che a distanza di una settimana ancora arde ed ha distrutto più di 20.000 ettari di bosco.

Non è facile affrontare un argomento che tocca l’anima in prima persona, nel quale è impossibile trovare una giustificazione, un argomento che ha i tratti vividi di una piaga dolorosa, una ferita sempre aperta che quando sembra potersi rimarginare, viene ravvivata, resa sempre più ampia e profonda perché è la mano dell’uomo a volerlo, perché esistono esseri umani che godono nel vederla “sanguinare”.

L’impiego del fuoco in ambito agropastorale in Sardegna così come in tutte le regioni del mondo dedite a questa vocazione, risale ad epoche molto remote: esso veniva impiegato come strumento per la creazione o pulitura dei campi, o per il rinnovo dei pascoli. Non meno importante è sempre stata la sua funzione sacrale, un connubio di rispetto e riverenza che l’uomo da sempre, dedica a questo elemento della natura, riconoscendone la sua forza e la sua vitale importanza tali da forgiare l’identità culturale di interi popoli, tra i quali appunto, il popolo sardo. Il fuoco in Sardegna è parte essenziale della cultura e delle tradizioni legate ad un paganesimo mai estirpato impregnato di saggezza e rispetto per la vita e per la natura.  

L’incendio invece è sempre è stato un male endemico dell’isola, attribuibile totalmente o in parte a pratiche colturali radicate sia nel mondo contadino che in quello pastorale: l’incendio è “appiccato abitualmente dai pastori per ripulire i pascoli, per fertilizzare e migliorare il cotico erboso, o per favorire il ricaccio dei giovani polloni delle essenze arbustive invecchiate, e per narbonare; od ancora causato accidentalmente dai contadini con l’abbruciamento delle stoppie.”

In Sardegna l’incendio venne considerato un delitto e come tale perseguito da precise norme fin da epoca giudicale. La Sardegna nel Medioevo era divisa in quattro Giudicati, ognuno col suo sovrano, il suo parlamento, il suo esercito e le sue leggi.
L’insieme delle leggi prende il nome di  Carta de Logu perché “su logu” (il luogo) era il territorio dello stato dove queste leggi arano in vigore.

La Carta de Logu promulgata prima del 1392 dalla Giudicessa del giudicato d’Arborea Eleonora De Serra Bas  che governò in nome dei figli minorenni, Federico e Mariano V D’Arborea tra il 1383 ed il 1403, consta di 198 articoli dei quali cinque contenuti nella terza sezione sono gli Ordinamentos de fogu (Ordinamenti del fuoco) dal cap. XLV (45) al cap. XLIX (49) e sono atti a disciplinate, reprimere e punire in materia di incendi.

 Nello specifico è interessante notare come al capitolo XLV (45) si punisca l’incendio di natura accidentale  con ammende di £ 25 e il rimborso dei danni provocati.
Il capitolo XLVI (46) punisce l’incendio doloso di case e il capitolo XLVII (47)  l’ incendio di terreni coltivati  prevedendo pene molto più severe: la pena di morte nel primo caso “… e siat juygadu dellu ligari a unu palu, e fagherillu arder…” ovvero: “il colpevole venga legato al palo e fatto ardere ”, mentre nel secondo caso sancisce che  “ … e si non pagat issa… saghitsilli sa manu destra” letteralmente: “ e se non paga gli si tagli la mano destra”, qualora l’incendiario non fosse stato in condizioni di risarcire il danno cagionato 

Altre norme della Carta de Logu riguardavano la prevenzione degli incendi, come  “il divieto di bruciare le stoppie prima dell’8 settembre e l’obbligo di provvedere alla difesa del villaggio e delle aree coltivate mediante apertura di fasce parafuoco (sa doha) entro il 29 giugno (Santu Pedru de Lampadas), pena, in caso contrario, il pagamento di un’ammenda di soldi 10 per abitante del villaggio.” 

Si evince una forte consapevolezza del reale e terribile impatto che gli incendi nel tempo avevano sulla conservazione dei boschi, percepiti come ricchezza della collettività e come tali, oggetto di tutela. Nelle aree boschive tuttavia l’uso del fuoco colturale era di fatto accettato o tollerato, e dal fuoco, impiegato come strumento colturale, facilmente potevano originarsi degli incendi che divenivano incontrollabili ardevano per settimane intere e distruggevano superfici forestali vastissime.
Si prevedeva così, anche “la pena in solido per il villaggio..” nell’eventualità che il colpevole non venisse individuato (istituto detto incarica): i Giurati del villaggio erano tenuti ad eseguire le indagini e a provvedere alla cattura dei colpevoli entro 15 giorni, “…pena una multa di £ 30 per il villaggio grande e di £ 15 per il piccolo, oltre a 100 soldi a carico del Curatore.”

La preoccupazione per gli incendi non si estinse in epoca giudicale. Nel Parlamento del Duca di Gandia, don Carlo Borgia conte di Oliva (1612-1614), venne prevista una “pena di due anni di galera a chi avesse appiccato fuoco nelle zone ove si erano praticati innesti di ulivi”, inoltre “si raccomandava che i prelati minacciassero la scomunica a carico degli incendiari.”
I provvedimenti erano atti a proteggere beni considerati fonte di ricchezza, le piante che col loro prodotto potevano concorrere ad accrescere il reddito dell’isola affrancandola dalle importazioni d’olio di oliva dalla Andalusia.
Successivamente, sotto Filippo III di Spagna (1578-1621), si prese ulteriore coscienza della pericolosità e della vastità  del fenomeno e si cercò di reprimerlo con norme idonee, quale quella contenuta nelle Prammatiche spagnole al capo XI del titolo 42, che ripropose “l’istituto della responsabilità collettiva nel caso che gli autori dell’incendio fossero rimasti ignoti. […]”

Con la Carta Reale 29.8.1756, in epoca sabauda venne introdotto il “divieto di impiegare il fuoco per eliminare la vegetazione e coltivare nuove terre” o per “procurare pascoli più abbondanti”. Col Pregone del 2 aprile 1771, n. 66, si fece divieto “d’accensione di fuochi sotto le piante o nelle loro vicinanze (art. 68), pena il risarcimento dei danni e l’ammenda di scudi 25”.

Venne inoltre prescritto “ l’obbligo per “i passeggieri, che faranno fuoco nelle montagne, dove sogliono soffermarsi.” di spegnere il fuoco stesso prima di abbandonare il sito, ” pena un’ammenda di lire 25, oltre il risarcimento dei danni.”

L’insieme di queste norme manifestano l’attenzione delle istituzioni verso un evento che non finiva di produrre ingenti danni al patrimonio boschivo. Tali norme ciò nonostante, venivano osservate solo in parte; come nella Gallura, dove infrangere sistematicamente i divieti connessi all’accensione dei fuochi nella stagione estiva, era motivo da parte del feudatario per esigere un “balzello suppletivo” denominato capretta di fuoco (oveja de fuego) consistente nella corresponsione di una capra in cambio del permesso di accendere fuochi in tutte le stagioni.
Vittorio Emanuele I, col Regio Editto riguardante gli incendi del 22.7.1806, oltre a reiterare le norme in uso sopra elencate, introdusse due importanti novità riguardo il divieto di metter fuoco nelle terre nel periodo estivo e prima dell’ 8 settembre:” la perdita, a carico del trasgressore, della superficie coltivata e del suo frutto, a favore del Monte Granatico e l’obbligo di munirsi di apposita autorizzazione del Giudice del luogo per impiegare il fuoco dopo l’8 settembre “. Introdusse  inoltre il divieto di pascolo per un anno sui terreni oggetto d’incendio  in violazione di legge, “..sotto pena di sei scudi per ogni capo di bestiame”.
“[…] il Codice di Carlo Felice (Leggi civili e criminali del Regno di Sardegna) prevedeva ” la pena di morte per chiunque avesse appiccato dolosamente il fuoco a case, magazzini od altri edifici entro o contigui al popolato (art. 1958) o a case o capanne abitate (art. 1959), e la galera a tempo a chi volontariamente avesse incendiato piante in piedi o atterrate e a legne e legnami ammassati o in catasta, nonché a vigne, oliveti e coltivi. […]”

Ma non tutti incendi erano dovuti a cause colturali. Molti erano espressione del malessere del mondo rurale che attraverso modifiche legislative si vedeva “derubato” di consolidati o supposti diritti, spesso secolari. Ne sono un esempio gli effetti dell’Editto delle chiudende, le ripercussioni che si ebbero a seguito delle tagliate eseguite sui boschi di roverella negli anni ’30 e ‘40, oltre alle reazioni dopo la metà XIX secolo, nel mondo rurale in conseguenza dei mutamenti intervenuti nell’organizzazione della proprietà terriera.

Uno sguardo alla storia, un veloce excursus può aiutare almeno in parte a capire per quale motivo il problema degli incendi, non conosca ancora una fine e non venga relegato definitivamente al passato. I tempi sono cambiati e le leggi si sono evolute abbandonando il risvolto drastico e disumano della pena di morte o il taglio della mano. La stessa evoluzione a livello umano non ha accompagnato però alcune menti insensibili che nascoste sotto la maschera di presunti diritti, o sotto quella altrettanto ignobile della vendetta, del “dispetto”,  per poter  “lavorare” o per denaro  liberano la potenza del fuoco contro l’habitat che li nutre e permette di respirare. Niente giustifica questo gesto, niente ne crea il diritto e niente dovrebbe alimentarne neanche il solo pensiero.

Quale gesto è più deplorevole del muovere la mano contro chi inerme non si può difendere, piante ed animali. E poco importa se talvolta a perire tra le fiamme è carne umana. Tra il 1945 e il 2013 a causa degli incendi in Sardegna sono rimaste uccise 67 persone ed altre 17 sono rimaste ferite in modo grave. Tra questi, il 28 luglio del 1983,  9 persone persero la vita e 15 rimasero gravemente ferite nel rogo della collina di Curraggia a Tempio Pausania (SS), mentre cercavano di strappare al fuoco, case alberi ed animali. La loro vita per la vita, così i miei occhi vedono quel sacrificio umano che niente ha insegnato così come la pena di morte, così come il taglio della mano.

Per i boschi e per la natura è impossibile non provare gli stessi sentimenti, le stesse emozioni e sensazioni di fronte alla devastazione del fuoco. Credo ci voglia coraggio come per togliere la vita ad un essere umano nel scegliere il giorno, cogliere il momento, capire la direzione del vento, meditare, preparare l’innesco e liberare il male. 

Un incendio di vaste proporzioni ha effetti devastanti non solo sulla regione che lo subisce, ma anche sulle persone che quella terra amano profondamente. 

Si narra che i sardi siano talmente legati alla loro isola che tutte le volte che si allontanano dal luogo natale per amore o per “cercare fortuna”, lascino una parte del loro cuore e dell’anima sulla banchina o fuori dal terminal dell’aeroporto o semplicemente al confine della provincia. Anima e cuore sono pronte a vagare in preda alla nostalgia ed in cerca di consolazione tutte le volte che la mente e il corpo lontani ne sentono il desiderio. 

Vagano tra le antiche vie di città o paesi tra i profumi inebrianti del cibo e delle feste. Vagano tra i boschi di querce e lecci per udire il canto degli uccelli, scorgere l’ombra del cervo. Vagano tra Domus de Janas e nuraghi in cerca delle loro radici. Vagano tra mirto, ginepri lentisco e rosmarino fino a giungere in riva al mare per contare i granelli di quarzo o ingannare il tempo facendo scorrere tra le mani la sabbia sottile come quella delle clessidre. 

Quando un luogo amato scompare in preda alle fiamme, la sofferenza non è dissimile a quella della perdita di un familiare, di una persona cara. L’anima, il cuore, perdono la loro gioia, la loro consolazione, il loro rifugio ed è difficile trovare conforto, perché quel luogo come fosse una persona, non esiste più, sarà per sempre perduto.

La terra bruciata assume l’immagine che nella tradizione contraddistingue la sofferenza della donna sarda quando perde il suo amato, quando il “fato” il destino la condanna a sopravvivere al proprio figlio, quando il dolore deve essere coperto per poter essere mostrato con dignità. La donna veste il lutto, il nero della gonna e dello scialle che avvolge in un abbraccio le spalle ed il capo. Così la terra arsa privata del suo amore più grande, la fauna e la vegetazione mostra vestita di nero, immobile, la sua dignitosa sofferenza. Non il canto di un uccello, non il fruscio di una foglia, solo l’odore acre del fumo, del carbone, della cenere e della morte.

Questo nella mia mente è un incendio, un rogo voluto, desiderato ed augurato con estremo disprezzo per la vita.

La storia ha evoluto le sue leggi ma in Sardegna non è riuscita a porre rimedio a ciò che forse poche, ma agli atti ancora troppe persone sentono come lecita azione perché radicata come tratto culturale o strumento di protesta sociale. 

Da sarda rinnego con tutta me stessa chi si appella alla consuetudine per giustificare, chiudere gli occhi, non tutelare e vigilare sul nostro patrimonio boschivo, sulla nostra terra, sui nostri animali.

So per certo che le “mani” della maggior parte dei sardi “candide” o “vestite di nera fuliggine” se pur “mosse da occhi celati da una maschera”, non libererebbero mai la forza del fuoco contro le proprie case, i propri campi, i boschi e quanto racchiudono e proteggono. I figli di questa terra conservano un ancestrale rispetto così per la natura così per il fuoco.Io nel mio piccolo rimango vicina alla mia terra in lutto e pazientemente aspetto, aspetto perché so che sotto il dolore palpita la vita. Aspetto di scorgere tra il nero del suo “scialle” il luccicare verdeggiante dei primi fili d’erba che hanno il sapore del perdono, di un sorriso. Aspetto e prometto che non sarà più lasciata sola. Aspetto e prometto ciò che so che tutta la Sardegna desidera, vuole.


Nota sull’ Autore_

Maria Patrizia Soru è una Guida Turistica Archeologica.
Appassionata di Storia e letteratura della Sardegna, è alla continua ricerca di immagini e parole capaci di raccontarne il passato, il presente ed il futuro della sua Terra.




Per il mondo, sei qualcuno. Per qualcuno sei il mondo.

Intervista di Valentina Serafin_

“Gli animali hanno propri diritti e dignità come te. È un ammonimento che suona quasi sovversivo. Facciamoci allora sovversivi: contro ignoranza, indifferenza, crudeltà.”

Se dovessimo usare una frase che rappresenti l’Avvocato Giada Bernardi, useremmo senza dubbio questa di Marguerite Yourcenar che ne rispecchia in pieno la determinazione, l’energia, e la sua capacità di essere sovversiva in una professione che è costretta da codici, leggi e regole.

Avvocato al foro di Roma e Presidente dal 2014 della “Zampe che danno una Mano” Onlus, Giada Bernardi ha fondato insieme a due colleghi “GiustiziAnimale” un vero e proprio studio legale esclusivamente in difesa degli animali che non hanno voce.



Lo studio legale intende lavorare, con forte determinazione, sui vari problemi che al momento il nostro Paese presenta in merito alla tutela degli animali, la difesa dei loro diritti e sulle questioni che è importante migliorare.

“ L’impegno di enti attivi da anni nella sensibilizzazione su temi come la speculazione economica sugli allevamenti intensivi, la vivisezione, il traffico illegale di animali, il bracconaggio selvaggio, e più in generale quelli che riguardano il mondo degli animali, hanno trovato successi ma ancora molto lontani dalla piena realizzazione”  – ci dice Giada – Le disposizioni per la tutela degli animali di affezione dettate dalla Legge quadro 281/91 avente ad oggetto anche la prevenzione e il controllo del randagismo e che in una lunga lista di articoli impone diversi paletti alle condizioni dei canili pubblici e privati, allo sfruttamento economico per la gestione dei rifugi, all’aumento degli abbandoni, alla responsabilità di custodia, alle difficoltà di accesso ai luoghi e trasporti pubblici e a molte altre situazioni ancora ritenute inadeguate e inaccettabili in una società moderna e legate alla convivenza dell’uomo e degli animali ,è molto spesso non rispettata”

La Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Animale, sottoscritta a Parigi nel lontanissimo 1978, è probabilmente l’atto più significativo che le istituzioni politiche internazionali abbiano adottato in direzione di una vera solidarietà uomo-animale. Tuttavia, seppur generalmente riconosciuta nelle varie comunità nazionali, essa non ha ancora oggi valore giuridico e dunque non ha ancora raggiunto la forza di essere vera e propria legge costituiva dei principi delle nazioni.

“Ed è proprio questa mancanza di forza e sostanza che rende i diritti degli animali poco rappresentati e riconosciuti. Innanzitutto, è fondamentale modificare le leggi perché al momento le pene sono bassissime, non fanno paura a nessuno. Bisognerebbe inoltre fare, e questo è un progetto su cui stiamo lavorando, un protocollo da portare nelle scuole, per sensibilizzare i bambini sin da piccoli a rispettare gli animali che sono parte integrante della nostra vita non solo a livello di compagnia ma anche dal punto di vista terapeutico e di salvataggio. Il soggetto responsabile di atti di violenza nei confronti degli animali è socialmente pericoloso: educare l’individuo sin dalla tenera età al rispetto dell’animale e, quindi, della vita, può essere un’arma efficacia di prevenzione della violenza “.

Una iniziativa di questa portata richiede uno sforzo complessivo, che venga rappresentato su tutto il territorio e che non si limiti ad essere una attività, per quanto encomiabile, di portata locale.

“Il nostro Progetto – nonché sogno –  è quello di riuscire a costituire un giorno una rete a livello nazionale, formare un gruppo ed espanderci a macchia d’olio per costituire una struttura forte, importante, un punto di riferimento per tutti. Noi ci teniamo che questa diventi una cosa grande e riconosciuta istituzionalmente, in grado di aiutare più animali possibili e garantire la massima tutela a chi non ha voce, tutela che noi siamo pronti a dare con avvocati, Forze dell’Ordine, Veterinari e specialisti del settore in tutte le Regioni e in tutte le Province a cui fare riferimento. Questo è il nostro Progetto ed il nostro obiettivo per cui ogni giorno ci battiamo.”

Attualmente le normative si basano sul biocentrismo, segnando dei confini e dei divieti a tutela dell’ambiente e della specie animale, specificando che i diritti degli animali devono avere pari importanza ai diritti riservati all’uomo. 

“Eppure, abitualmente i diritti degli animali vengono spesso chiamati in causa solo per i problemi legati alla convivenza con l’uomo, ma le problematiche in realtà sono tantissime e spesso sconosciute ai più”

Da tempo un Decreto Legge ha l’intento, tra le altre cose, di riconoscere l’animale non come oggetto ma come soggetto, inteso giuridicamente come tale, meritevole di tutela penale e civile.

“ Si esatto, in questo caso la differenza è sostanziale perché riconoscere questo diritto in maniera diretta, senza che vi sia un collegamento  con il “sentimento” umano, permetterebbe di poter inasprire le pene inflitte.

Il nostro Codice Penale oltre a contemplare il reato di maltrattamento ed uccisone di animale, classifica come reato l’utilizzo di esche e bocconi avvelenati o tossici, compresi vetri, plastiche e metalli che possono causare intossicazioni o lesioni o la morte degli animali che li ingeriscono. 

“Mi sembra il minimo. Questo aspetto tocca non solo il randagismo ma anche animali detenuti da privati: tantissimi cani muoiono tra atroci sofferenze a causa di questi gesti criminali, spesso perpetrati per vendette personali o stupide ripicche. Aumentare le pene, anche dal punto di vista economico, potrebbe ridurre i casi ma non sempre è semplice risalire ai responsabili.

Le cose da fare sono tante, tantissime. 

“Ogni giorno ci arrivano segnalazioni di illeciti e situazioni non consone. La violenza nei confronti di un animale, di chi non può difendersi, è ciò che presto porterà alla violenza nei confronti dell’uomo.  Quando capiremo, a fatti e non a parole, che le scelte esercitate contro gli animali sono anche scelte contro di noi? “

Quanto incide l’aspetto emotivo in una attività che dovrebbe essere esente dal coinvolgimento morale?

“Io non mi vergogno a dire che piango. Negli anni però, per preservarmi ho imparato a trasformare il dolore in forza. Certo, all’inizio è dolore, sono lacrime. Ma per diventare forti, per combattere, per risolvere bisogna guardare, capire, comprendere. Se non guardi non puoi sapere come affrontarlo, girare la testa non cambia le cose. E noi le cose le vogliamo cambiare.”


Note a margine dell’Intervista.

L’Avvocato Giada Bernardi, Patrocinante in Cassazione, Professore incaricato di Diritto Civile presso l’Università Popolare degli Studi di Milano, è co-fondatore dello Studio Legale “GiustiziAnimale” e Presidente della ONLUS ” Zampe che danno una Mano”.

Per info e segnalazioni:

GiustiziAnimale” ha le sue sedi principali a Roma in Via Virgilio n 1 L ( Tel. 06.36003788 – 338 8133499 – 349 3279472 ) ed a Catanzaro in Via Conti di Loritella n° 7C ( Tel 0961.61000 -340.4939856) mail: studiolegalegiustizianimale@gmail.com




Il senso del dovere: una forma di rispetto?

Anna Cervetto [ annalatati_sketch]_Piovra_Orange Series

di Christian Lezzi_

Tutti noi abbiamo guardato (forse anche più volte) le varie trasposizioni televisive delle umane vicende di Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Ninni Cassarà, Boris Giuliano e tutte le altre vittime di quella immonda vigliaccheria che, genericamente, chiamiamo mafia. Film (o telefilm) che, a volte bene, altre molto male, puntano l’occhio indagatore sulle vicende del diretto interessato, sul suo lavoro, tra luci e ombre, sulle vittorie professionali e le umane sconfitte, su ciò che lo ha portato alla morte e, a volte, come nel caso di Falcone, anche al pubblico linciaggio (guitto mediatico, Falcon Crest, il giudice abbronzato, l’amico dei socialisti… ce le ricordiamo queste infamie, lanciate al suo cospetto da buona parte dei “giornalisti” italiani?).

Si parla solo di rimbalzo, spesso come se fosse una componente secondaria, il poco importante contorno al piatto di portata, della loro famiglia, delle persone ugualmente importanti che, del personaggio principale, hanno condiviso ansie e dolori, gioie e paura, percorsi di vita e, a volte, di morte.

Per quanto sia stato da poco l’anniversario della morte di Falcone (23 maggio) e appena passato quello di  Borsellino (19 luglio), e per quanto non sia mai abbastanza lontano nella memoria l’estremo loro sacrificio (29 anni) non è dei protagonisti del Pool antimafia e del maxiprocesso di Palermo, che voglio parlare. Non di mafie ma di rispetto e, per una volta, voglio dare luce e voce a chi, silenziosamente, ha rischiato e sofferto, pur di restare al fianco dei protagonisti di queste brutte storie di sopruso e inumana violenza. Mogli, figli, in primis, travolti dal pericolo che, dal loro congiunto, come un cancro, si è esteso fino a loro. Famiglie intere stravolte dal cambiamento delle abitudini, dovuto alle minacce e alla non-vita sotto scorta, tra canne di pistola e luci blu. Qualunque cosa, ogni sacrificio, pur di restare accanto alla persona amata che, non per eroismo (e di questo abbiamo già parlato qui  ) bensì per un altissimo senso del dovere e dello Stato, hanno deciso di giocare il proprio ruolo fino alle estreme conseguenze, fino a quel sacrificio, di cui avrebbero fatto volentieri a meno, che era parte del gioco.

“Io accetto, ho sempre accettato, più che il rischio le conseguenze del lavoro che faccio, del luogo dove lo faccio e, vorrei dire, anche di come lo faccio. Lo accetto perché ho scelto, ad un certo punto della mia vita, di farlo e potrei dire che sapevo fin dall’inizio che dovevo correre questi pericoli. La sensazione di essere un sopravvissuto e di trovarmi, come viene ritenuto, in estremo pericolo, è una sensazione che non si disgiunge dal fatto che io credo ancora profondamente nel lavoro che faccio, so che è necessario che lo faccia, so che è necessario che lo facciano tanti altri assieme a me. E so anche che tutti noi abbiamo il dovere morale di continuarlo a fare senza lasciarci condizionare dalla sensazione che, o financo, vorrei dire, dalla certezza, che tutto questo può costarci caro.”

(Paolo Borsellino, a proposito di senso del dovere).

Ed è proprio di senso del dovere, inteso come forma di rispetto per le altre persone coinvolte dalle nostre scelte e dalle nostre azioni, che desidero parlare. E voglio farlo riportando alla memoria di tutti noi, un episodio di vita quotidiana, di desiderio di normalità e di ritorno alla vita, che comunque di rispetto e di senso del dovere, nobilmente si ammanta. Quella percezione di un dovere che non è un obbligo, bensì una scelta, libera, sofferta, ragionata, ma voluta e difesa perché sfida l’inevitabile, che ci fa alzare in piedi e dire “Presente“, quando la situazione lo richiede. Senza eroismi. Solo perché è giusto così.

Oggi voglio parlare di loro, anzi, di una di loro, in particolare. Tra i tanti, diretti congiunti dei troppi caduti per mafia, voglio ricordare l’integrità morale e la forza d’animo di Lucia Borsellino, senza per questo sminuire il sacrificio e l’abnegazione dei suoi fratelli minori Fiammetta (la piccola di casa) e Manfredi, il secondo nato. E nemmeno privando di memoria il sacrificio e la disponibilità di Agnese, madre e moglie esemplare che mai, nemmeno per un istante, vacillò nel suo appoggio al giudice, ben consapevole del rischio e anzi, cosciente della certezza di quanto, prima o poi, soprattutto dopo lo scempio di Capaci, sarebbe accaduto anche a suo marito.

Ma io voglio ricordare Lucia, perché all’epoca dei fatti era solo una ragazza di 23 anni, magra e delicata, forse troppo sensibile per sopportare senza piega la scorta, la paura, l’esilio forzato all’Asinara, le corse nella claustrofobica auto blindata e quel telefono che, in casa Borsellino, seminava il terrore a ogni squillo.

Lucia, che tra mille disagi interiori, dovuti non solo alla situazione contingente, ma anche all’età fragile di per sé, al suo diventare donna, giorno dopo giorno, al bisogno negato (per forza di cose) di libertà e indipendenza, alla necessità di essere serena e di non aver paura, che seppe, nonostante tutto e malgrado tutti, farsi interprete di un’educazione morale eccellente (grazie a papà Paolo e a mamma Agnese) e di un altrettanto eccellente senso del rispetto e del dovere che mai fu solo parole o sterile proclama.

Lucia Borsellino, nel mio immaginario incarna il senso del dovere e del rispetto quanto (e forse più) del suo indimenticato genitore. Quel dovere così sintetizzato dall’insegnamento del Dalai Lama “Segui sempre le tre R: Rispetto per te stesso, Rispetto per gli altri, Responsabilità per le tue azioni”. Perché, in estrema sintesi, il rispetto è anche una forma di responsabilità, quando la responsabilità diventa un dovere.

“Segui sempre le tre R: Rispetto per te stesso, Rispetto per gli altri, Responsabilità per le tue azioni”.

DALAI LAMA

Fu Lucia a voler vedere e a ricomporre i resti martoriati del padre, nella camera mortuaria, nel tentativo di restituirgli quella dignità che la bestialità del tritolo aveva cancellata, distruggendo il suo corpo e quel sorriso che mai dimenticheremo.

Un atto di coraggio, quello di Lucia, che preannuncia l’essenza della donna che sarà, ricca di valori e di forza etica, di senso del dovere, della capacità di dire “ci penso io”, anche quando si trattava di avvolgere di dolorosa pietà (per quanto possibile) i resti del suo povero papà, morto da poche ore.

A tutti noi capita di rinviare un impegno, un appuntamento, solo perché piove, perché siamo stanchi, perché siamo pigri, perché abbiamo altro da fare o perché, tutto sommato, di quell’impegno ci importa poco, togliendo de facto il rispetto alle persone da esso coinvolte. Ma Lucia no, lei ha risposto “Presente“, anche nel momento probabilmente più duro e cupo della sua vita. Un “Presente” che, nelle sue sfumature, aveva la voce di Paolo, artefice di quell’educazione e della trasmissione di cotanto senso civico.

Ed è proprio frutto di quella educazione, di quella formazione genitoriale, di quella percezione del dovere, se Lucia, pochi giorni dopo i tristi fatti di via D’Amelio, con i resti carbonizzati del padre ancora negli occhi (temo per sempre nella mente) decide di onorare l’impegno di un appello universitario, nonostante le validissime giustificazioni che poteva addurre e alle quali nessuno avrebbe potuto obiettare, presentandosi alla commissione e sostenendo un esame universitario, tra lo stupore di professori e studenti presenti..

Perché rispettare i propri impegni, la parola presa, farsi carico dei doveri assunti, è un atto di rispetto, forse il più alto e nobile che l’essere umano possa esprimere e tributare. E Lucia Borsellino, grazie anche all’esempio di Paolo, ne è stata insuperabile interprete, rispettando la memoria di suo padre, le aspettative della sua famiglia, il lavoro dei docenti e la sua stessa dignità.

Oriana Fallaci ha scritto e non a caso: “Non si fa il proprio dovere perché qualcuno ci dica grazie, lo si fa per principio, per sé stessi, per la propria dignità”. Quella dignità che Paolo Borsellino, come tutte le altre vittime di mafia, ha rispettando, pagando con la vita il suo inarrestabile senso del dovere. 

“Non si fa il proprio dovere perché qualcuno ci dica grazie, lo si fa per principio, per sé stessi, per la propria dignità”.

ORIANA FALLACI

Ma Lucia, sua figlia, ci ha dimostrato che di senso del dovere non si muore soltanto. Di senso del dovere si vive, ci si migliora, ci si allontana dalla bestia (come direbbe Immanuel Kant) dando forma alla propria esistenza, alla propria umanità, alle proprie scelte, perché il senso del dovere è, tutto sommato, l’espressione più immediata e tangibile del rispetto che tributiamo agli altri (coinvolti dalle nostre scelte) e a noi stessi, di quelle scelte artefici e protagonisti, nel bene e nel male.

Grazie Lucia. Il tuo esempio ci ha resi persone migliori.


Note sull’Autore_

Christian Lezzi, classe 1972, laureato in ingegneria e in psicologia, è da sempre innamorato del pensiero pensato, del ragionamento critico e del confronto interpersonale. 
Cultore delle diversità, ricerca e analizza, instancabilmente, i più disparati punti di vista alla base del comportamento umano. Atavico antagonista della falsa crescita personale, iconoclasta della mediocrità, eretico dissacratore degli stereotipi e dell’opinione comune superficiale.
Imprenditore, Autore e Business Coach, nei suoi scritti racconta i fatti della vita, da un punto di vista inedito e mai ortodosso.




Fra la sella e la terra c’è la grazia di Dio.

Giulia Gellini_ Equino [2009]_tecnica mista.

Ilaria Corsi _

Amare i cavalli vuol dire capirli, sentirli, sognarli. 

Quando avevo dieci anni, un libro di cui ricordo bene la copertina ancora oggi, parlava di una storia ambientata in USA. Natalie, una giovane ragazza, obbligata a trasferirsi in una piccola cittadina rurale, iniziava un’amicizia particolare con il cavallo della fattoria accanto.

Li divideva uno steccato, ma il rapporto, e questo mi colpì molto, era davvero particolare, quasi fosse un vero e proprio amico per lei, al quale confidare le sue emozioni e turbamenti adolescenziali.

Natalie era una ragazza di città in tutto e per tutto. Adorava giocare, ridere con i suoi amici durante le feste di quartiere e fare viaggi nel negozio di fumetti locale per prendere l’ultima copia della sua serie di graphic novel preferita. Quando la mamma le disse di andare a vivere in campagna, fu inevitabile avere una crisi profonda che la portò ad isolarsi. Chi avrebbe mai voluto vivere nel mezzo di Nowheresville? Ma abituarsi alla sua nuova vita di provincia fu meno traumatico grazie al bellissimo cavallo, Ghost. 

Nowheresville fa parte di una serie di libri scritti da diversi autori che mettono in evidenza le relazioni uniche tra le ragazze e i loro cavalli.

Questo libro in qualche modo mi ha segnato ed ha influenzato la mia vita negli anni della adolescenza e della mia prima maturità.

Dunque, fin da piccola, ho sentito un amore smisurato verso questo animale. Crescendo questa mia passione non si è mai spenta e anzi,  è sempre stata un fuoco che anno dopo anno si è alimentato sempre di più. L’arrivo di Contigo un meraviglioso cavallo baio dal cuore d’oro, ha segnato l’inizio della mia esperienza e delle prime gare, le prime sconfitte ma anche le prime vittorie.  Grazie a lui ho capito cosa significa prendersi cura di un animale che conta solo su di te ed insieme a lui mi sentivo sicura, nulla poteva separarci. Tutte le storie hanno una fine, e la perdita di Contigo, è stato il mio primo enorme dolore.

Galopin JB un irrequieto, meraviglioso cavallo morello di 4 anni, ha in parte colmato il vuoto nel quale mi stavo perdendo. Con lui mi sono messa davvero in gioco, siamo cresciuti insieme ci siamo qualificati per gare importanti e le abbiamo anche vinte.



I cavalli sono animali empatici dai grandi occhioni, prendersi cura di loro richiede sacrificio, senso del dovere, amore, passione e non bisogna averne paura. 

Accarezzarlo, alimentarlo e cavalcarlo sono azioni che mi hanno portato negli anni un profondo stato di benessere psicofisico

Sono tutti capaci di inforcare una bicicletta e pedalare, ma in questo caso si tratta di lavorare in sintonia con un animale in quanto essere vivente con un suo pensiero e le sue giornate no, come tutti noi del resto.

L’ippoterapia ha origini empiriche antiche perché il cavallo, con le sue straordinarie doti di sensibilità, di adattamento, di intelligenza è ritenuto, da sempre, e non a torto, “straordinaria medicina”. 
L’uso dell’equitazione a scopo terapeutico ha avuto inizio già nell’opera di Ippocrate di Coo (460-370 a.C.), che consigliava lunghe cavalcate per combattere l’ansia e l’insonnia.

I benefici dell’ippoterapia dipendono in buona parte dalle caratteristiche fisiche e comportamentali del cavallo e, a differenza di altre terapie che utilizzano animali di piccola taglia, l’equitazione prevede una strategia di trattamento che riesce a trasferire integralmente al paziente, le sollecitazioni prodotte dal movimento tridimensionale del cavallo.

Il parallelismo tra la tridimensionalità del cammino umano e l’andatura del cavallo dà la possibilità a soggetti che non hanno mai camminato o che camminano con schemi motori scorretti, di trovarsi in una situazione paragonabile ad una deambulazione corretta e fisiologica, sperimentandone quindi gli effetti concatenati a livello del bacino, del tronco, e in generale degli arti superiori.

Questa Attività generalmente è programmata ed inserita all’interno di un più ampio progetto riabilitativo, e viene svolta da una serie di figure professionali come i medici specialisti, i terapisti della riabilitazione, gli istruttori di equitazione, gli operatori sociosanitari e gli assistenti volontari specificatamente preparati, motivo per cui viene praticata in un numero limitato di Centri Ippici in possesso di tutti i requisiti necessari.

Un altro beneficio è riscontrabile sulla reattività del sistema nervoso simpatico.

Paralisi cerebrali infantili, forme spastiche, deficit motori derivanti da traumi, sono tutte patologie che possono essere curate anche in sella. 

Il disciplinare tecnico è molto articolato e varia a seconda delle esigenze specifiche. Di fatto il paziente può salire sul cavallo da solo o con un accompagnatore, il cosiddetto maternage

Secondo uno studio pubblicato su Frontiers in Public Health da studiosi della Tokyo University of Agriculture il cervello dei bambini che vanno a cavallo avrebbe una reattività maggiore, in quanto le vibrazioni prodotte durante la cavalcata, risultano particolarmente efficaci nell’attivare tale sistema.

Per avallare questa tesi è stato condotto un esperimento nel quale un gruppo di 106 bambini di età compresa tra i 10 e i 12 anni, è stato sottoposto ad alcuni test prima e dopo aver cavalcato per 10 minuti su un pony e aver camminato a piedi per 10 minuti. Nel primo test ai bambini, dopo aver visionato per 200 millisecondi dei quadrati di colore rosso, giallo o blu su uno schermo, veniva richiesto di premere velocemente un tasto qualora sullo schermo fosse comparso il quadrato giallo o blu, e di astenersi invece con la comparsa del quadrato rosso. In questo test di tipo comportamentale è stata riscontrata la differenza più rilevante: 25 bambini su 54 (46,3%) hanno migliorato infatti il proprio punteggio dopo la cavalcata, dopo la passeggiata invece, soltanto il 26,9% è riuscito a migliorarsi.

Il secondo test, invece, consisteva nell’eseguire 30 addizioni tra numeri ad una sola cifra in rapida successione. In questo caso non ci sono state differenze rilevanti in termini di risultato, ma si è registrato che per il 72,2% dei bambini che erano stati a cavallo, la velocità di completamento del test era notevolmente migliorata. 

Ma perché il cavallo ha questo enorme potenziale? 

Io credo che tra uomo e cavallo si crea una connessione, una relazione che amplifica la capacità degli animali di trasmettere e stimolare emozioni. Loro hanno una spiccata vocazione sociale e chiunque abbia preso le redini in mano sa come il cavallo sia estremamente reattivo agli stimoli.

Cavalcare implica una sintonia con un’altra creatura, esperienza che tornerà poi molto utile anche fuori dal maneggio, ed associabile ad un potente antistress.

A questo si aggiunge anche l’attività effettuata a terra, il cosiddetto grooming, cioè il prendersi cura dell’animale attraverso la pulizia e la cura del suo mantello. 

Un’attività ad alto contatto che facilita la nascita di un rapporto emozionale tra cavallo e paziente. 

Il piacere e l’emozione nell’eseguire questi gesti di cura, aiutano a sviluppare competenze relazionali e amplificano anche i risultati motori ottenuti in sella.

Io ci ho messo del tempo per farmi accettare da questi esseri meravigliosi, e non ho  alcun dubbio che senza di loro, non sarei la donna che oggi sono.

Per ulteriori informazioni:

https://www.fise.it/


Nota sull’autore_

Ilaria Corsi, classe 1998, Laureata in Design della Comunicazione allo IED, ex campionessa giovanile di equitazione, categorie salto ad ostacoli e dressage, da sempre una sognatrice con una voglia indomabile di scoprire il mondo e lasciare un segno. Innamorata della creatività, del mondo degli eventi, con il sogno nel cassetto di riuscire un giorno a farsi “posto fra i grandi”. Espansiva, affettuosa, chiacchierona, solare, con la voglia di “spaccare il mondo”, sempre di corsa. Affascinata dalle persone che non hanno paura a dire la propria opinione che non si nascondono “dietro a un dito”, che non si fermano davanti a un “no” che si oppongono agli stereotipi e dell’opinione comune superficiale. Amante degli animali sostiene che “grazie a loro possiamo superare ogni nostra paura più grande, bisognerebbe parlare di più di come gli animali aiutino noi esseri umani a superare le nostre paure”.