Qualche giorno fa, mi sono ritrovare a chiacchierare con una persona pressoché sconosciuta, mentre entrambi aspettavamo il nostro “turno distanziato” nei pressi di un ufficio pubblico.
Come talvolta capita tra sconosciuti, forse proprio perché tali, forse per “empatie” che ci sfuggono o solo perché chi si racconta ha voglia di farlo, oltre all’elenco di una serie di acciacchi e malanni che mai non possono mancare, vengo a conoscere parte dell’umana vicenda che ha coinvolto e segnato questo comunque simpatico signore ultra cinquantenne.
In modo sintetico qui li riassumo perché questi episodi, questi “fatti di vita”, sono il punto di partenza per la mia riflessione spero non banale.
Quest’uomo, sposato o “accompagnato” come usa dire, non ricordo ma è dettaglio secondario, quando la figlia ha nove mesi, vede le sua moglie/compagna, andarsene con un altro uomo e lasciarlo solo con la figlia, senza più “voltarsi indietro” e, se ho capito bene , senza più avere alcun tipo di rapporto con lui e neppure con la figlia.
L’uomo cresce la figlia e quando questa è adolescente, lui si trova a frequentare un’altra donna o forse negli anni più di una, ma i suoi stretti legami con la figlia, gli impediscono di avere una relazione stabile o di convivenza e di fatto oggi si trova solo e con la figlia oramai ventiseienne che è uscita di casa.
Possiamo partire da qui cercando di evitare giudizi e/o sentenze sui comportamenti di una o dell’altra persona e nel contempo prendendo per buono il racconto dell’uomo, che è ovviamente solo la sua versione dei fatti. Capirete spero in seguito, che la ratio non è “scoprire la verità” o arrivare a stabilire chi si è comportato peggio e chi meglio rispetto le nostre idee o la morale. Quella morale che si può considerare comune e che si vorrebbe potesse segnare la netta demarcazione tra il Bene e il Male.
Sospendiamo il giudizio morale su una madre che abbandona un figlia di soli nove mesi per andarsene senza tornare indietro. Quello che mi preme indagare e evidenziare è il motivo (per come mi è stato raccontato) che ha portato a questa drastica e per certi versi terribile, decisione. La donna, aveva una relazione con altro uomo e questi, alla nascita della figlia o comunque qualche mese dopo, avrebbe posto un diktat: “Scegli… o me o tua figlia, perché io lei non la voglio con noi!”.
Terribile diktat, terribile scelta, ma dal racconto fattomi pare ci sia stato l’uno e l’altra e quella donna sceglie l’amante. Potremmo dire l’amore? Non so…
Facciamo un salto in avanti. L’uomo prosegue nel suo racconto e mi narra di come ha allevato la figlia e come il loro si diventato un legame molto forte, totalizzante, al punto che la figlia, divenuta adolescente, non accetta che il padre frequenti alcuna donna o quantomeno, che un’altra donna entri in modo stabile nella loro vita. L’uomo, il padre, sceglie in questo caso la figlia, il suo legame con lei e tronca il rapporto con una possibile compagna. Ma, a ventiquattro anni, la figlia, come fanno o dovrebbero fare tutti i figli, lascia la casa del padre per andare a vivere da sola. Una sua legittima scelta e chi rimane (nuovamente) solo è il padre. Rimangono in buoni rapporti, si sentono e vedono spesso, ma questa è un’altra questione e meno male almeno questa consolazione al mio compagno d’attesa, è rimasta.
Siamo al dunque… potremmo arrivare alla morale – che niente ha a che fare con il moralismo – di queste umane vicende. Una morale amara ma reale, una morale temo tutt’altro che rara da ritrovare, quella dell’ “Amor Capestro”. Quel tipo di amore intriso e anzi costruito su tanto e tale egoismo che fa del supposto “amore” un capestro appunto, una corda al collo o talvolta una prigione, un’arma carica puntata alla tempia. E’ quel (supposto) amore che ti chiede di scegliere tra lui – l’amor capestro – ed un altro amore.
L’amore dell’amante – in questo racconto – che chiede ad una madre di scegliere tra lui e la figlia! L’amore di una figlia – in questo racconto – che chiede al padre di scegliere tra lei e un possibile amore “rivale”, anche se non esattamente dello stesso genere. L’ Amor Capestro è quello che ti mette difronte ad una scelta obbligata, una scelta dolorosa, una scelta che comunque ti infliggerà sofferenza. Finirà per stringersi al punto ti mancherà il respiro!
Perché non stiamo parlando di quella scelta che per quanto difficile, può per amore, cambiarti in meglio la vita – scegli me, o la bottiglia! Scegli me o la tua droga! E tante volte non la si spunta perché sono legami o meglio catene ben più complesse – ma di rinunziare ad una parte di ciò che ami, perché qualcuno, vuole questo tutto per sé, non permette esista altro. Un egoismo che inghiotte, come un buco nero. Un amore che non riesce ad amare ciò che tu ami, un amore “taccagno” nel migliore dei casi.
Io amo te, ma tua figlia che non è mia, mi dispiace no. Non ci riesco e forse neppure voglio provarci. Io ti voglio bene papà, ma questa donna che non è mia madre, mi dispiace no. Non ci riesco e forse neppure voglio provarci.
Bisognerebbe avere la forza di fuggire dall’Amor Capestro… e qui veniamo all’ultima parte della mia riflessione, per chi ha avuto la pazienza di legger sin qui. La debolezza, la paura, del restare soli, del “perdere l’amore” (seppur capestro). Una paura che forse un po’ tutti ci attanaglia, ma che talvolta è tale e talmente forte, che acceca, non permette di vedere l’evidente, di avere discernimento, di indirizzare le nostre scelte verso un bene maggiore. Un bene maggiore che non coincide per forza con il nostro “immediato bene”, che anzi nell’immediato ci porterà nuovamente una sofferenza, uno strappo, magari un conflitto, ma nel tempo ci ripagherà. Per essere pratici, possiamo calare questa idea, nuovamente, nella vicenda umana raccontata.
“Mi chiedi di scegliere tra te e mia figlia?Scelgo mia figlia e non perché ami più lei di te, ma perché mi rendo conto che tu non mi ami e sei incapace di amare ciò che amo, semplicemente mi vuoi (forse), ma se mi amassi non mi chiederesti una cosa del genere! Mi domando cosa mi chiederai domani…”.
“Figlia mia, lo sai quanto bene ti voglio, ma se anche tu mi vuoi bene, perché mi chiedi di restare solo, di rinunciare a chi mi può stare vicino, con cui spero condividere una altro pezzo della mia vita anche quando tu te ne sarai andata… perché figlia mia tu, come è giusto, te ne andrai, te ne andrai con chi amerai in modo totale e diverso dal bene che dici di avere per me… e io ne sarò felice!”.
Questo forse è quello che si sarebbe potuto dire e certamente ci sarebbero potute essere delle conseguenze, non è detto che tutto si sarebbe risolto con un abbraccio piuttosto che con una rottura, ma nella vita le scelte possono essere “stroncature” che non lasciano speranza o “potature” di evangelica memoria, che permettono all’albero di crescere più rigoglioso e forte di prima… e a suo tempo dare frutto.
Mario Barbieri, classe 1959, sposato, tre figli ormai adulti. Appassionato di Design e Fotografia.
Inizia la sua carriera lavorativa come illustratore, passando per la progettazione di attrazioni per Parchi Divertimento, negli ultimi anni si occupa di arredamento, lavorando in particolare con una delle principali Aziende Italiane nel settore Cucina, Living e Bagno.
Ho letto la serie dell’amica geniale nel 2015 e per un anno intero non sono più riuscita a leggere altro!
La storia viene sviluppata in quattro libri e racconta l’amicizia fra Elena (Lenù) e Raffaela (Lila) nata nell’infanzia e proseguita fino all’età adulta.
Il racconto della loro amicizia viene contestualizzato nelle vicende familiari di entrambe; le difficoltà e le esperienze tipiche di ogni fase della crescita delle due ragazze (infanzia, adolescenza, età adulta) sono ben descritte e assolutamente coinvolgenti.
Lenù e Lila hanno caratteri molto differenti.
Lenù è timida e introversa e, solo all’apparenza, fragile.
Lila è un vulcano, ribelle, eccentrica; la sua sicurezza in se stessa l’ha raggiunta soltanto a seguito di tanti sacrifici.
Entrambe vivono una vita familiare molto difficile e dolorosa; Lila forse è quella che ne risente di più e il suo futuro verrà fortemente condizionato dal rapporto con il padre e il fratello.
La storia è ambientata nella Napoli degli anni ’50, ancora libera dalle problematiche politiche e sociali di oggi ma non per questo più facile.
Le regole del rione sono spietate; la famiglia è molto dura e violenta con i figli ed essere donna comporta farsi carico di pesi molto grandi da sopportare.
La serie coinvolge il lettore per l’intensità della scrittura. Gli sviluppi sono molto chiari e l’attenzione viene mantenuta alta fino all’ultima pagina; quattro libri possono essere tanti per la storia della vita delle due amiche ma assolutamente non viene mai meno la passione del racconto.
Elena Ferrante mantiene alta l’attenzione e le emozioni che regala sono varie e di alto livello. Non ho mai avvertito un calo nella storia, ho divorato tutti i libri, assetata del prosiéguo e addolorata per gli eventi che si susseguono.
Si tifa per Lila, per la sua forza e la sua capacità di non arrendersi, nonostante le sue contraddizioni.
Si apprezza Lenù per la precisione del racconto e l’amore, a volte soffocato, per la sua città e i suoi abitanti. Le sue origini le rimangono nel sangue, anche quando cerca di rimuoverle e i sentimenti che prova entrano nel sangue del lettore.
Il successo di Elena Ferrante non è mai abbastanza per le emozioni regalate dalla sua serie “L’amica geniale”!
Ciao a tutti! Sono Sara Balzotti. Adoro leggere e credo che oggi, più che mai, sia fondamentale divulgare cultura e sensibilizzare le nuove generazioni sull’importanza della lettura. Ognuno di noi deve essere in grado di creare una propria autonomia di pensiero, coltivata da una ricerca continua di informazioni, da una libertà intellettuale e dallo scambio di opinioni con le persone che ci stanno intorno. Lo scopo di questa nuova rubrica qui su FUORIMAG è quello di condividere con voi i miei consigli di lettura! Troverete soltanto i commenti ai libri che ho apprezzato e che mi hanno emozionato, ognuno per qualche ragione in particolare. Non troverete commenti negativi ai libri perché ho profondamente rispetto degli scrittori, che ammiro per la loro capacità narrativa, e i giudizi sulle loro opere sono strettamente personali pertanto in questa pagine troverete soltanto positività ed emozioni! Grazie per esserci e per il prezioso lavoro di condivisione della cultura che stai portando avanti con le tue letture! Benvenuto!
A questo link qui sotto puoi trovare altre mie recensioni.
Ogni giorno quando mi sveglio una delle prime cose che faccio è guardare il cielo. Credo sia una sorta di saluto al mondo, al pianeta . Saluto, ringrazio e mi preparo il caffè, la mente potrebbe “sembrare” sgombra ma la mia è carica di sogni, tutti legati alla bicicletta.
Riflettendo, tra un cucchiaio e l’altro mentre riempio la mia moka di caffè, a volte mi sorprendo della sensazione che questo mezzo mi crea. Rilassamento, ma anche una carica energetica, un desiderio un bisogno proprio fisico di salirci e di provare quel senso innato di vivere…
La bicicletta per me rappresenta il perno su cui far girare la mia vita. É quel lato che trasforma il mio modo di relazionarmi, rapportarmi al mondo circostante e ancor più a me stesso. Vivere la bici è il vero senso della libertà, della gioia e del delirio delle mie paure. Sto in bilico attraverso il mondo e ha volte questo si paga. Se conosci le sensazioni del poter pedalare sai cosa vuol dire, non la puoi spiegare a qualcuno che non l’ha mai provata. Ma io ci provo, troppo bello poter far sognare le persone.
Si la bicicletta è fatta di sogni, che poi grazie a lei diventano realtà. E Forse proprio quella realtà diventa ancor più bella in sella. La mia bici quindi diventa una sorta di identità, il mio stile, la mia indole, il mio vero essere. É una prova di forza, è il coraggio di valicare i miei limiti, di voler scoprire, andare oltre…Ecco questo “tratto” è il mio preferito, la scoperta inebria, la mente si apre e il mio corpo si adatta tra il ritmo della mente e del cuore. I miei occhi aperti, l’aria che mi impregna il viso, le mie gambe, dure, a volte…Sensazioni, dolori anche profondi come la vita… La bici ti guarda in faccia, ti affronta , a volte vince, a volte vinci tu, altre ti logora perché ti porta all’estremo di tutto.
Mi sono spesso sorpreso, ancor adesso che sto scrivendo accade, di quanto subisca la sua mancanza. Se non pedalo in qualche maniera soffro. Come mi capita per la perdita di qualcuno di speciale. Un vuoto potente. Ditemi pure che può sembrare follia la mia, ma è vero…Mi succede anche ora che cerco in ogni modo di far capire che cosa valga davvero la pena vivere attraverso una bicicletta. Sembreranno solo una accozzaglia di emozioni sconclusionate, invece, quasi istintivamente come un correttore automatico, la bicicletta distribuisce in modo naturale le cose, soprattutto il sorriso. Credo di non essermi mai sentito così “naturalmente” felice come quando salgo su una bicicletta, di qualsiasi forma essa sia. Potrei quasi definirla curativa per i miei “bui emotivi” ; assorbe il nero scuro e rilancia i colori, li irradia; ecco perché dovremmo fare di tutto e spingere le persone a usare una bicicletta, anche per i piccoli tragitti. Un cambio di rotta, un modo di intendere la vita più leggera. Chi lo sa se il mondo capirà che la bici è il futuro dell’uomo…per me è così.
Sono selvaggiamente sporco, amo il selvaggio e il pantano che mi resta attaccato, amo le vie impervie e i colori delle montagne nei boschi. L’asfalto l’ho vissuto molto, le paure date dal traffico dagli automobilisti e dalle distrazioni ovviamente le conosco, ma preferisco il rischio naturale dove l’errore resta umano e non del caso. Dove e come sentirsi lo dice il percorso, mi indica dove scegliere le vie che mi portano alla gioia di raggiungere un luogo davvero speciale ,una discesa ripida. Il punto più alto del viaggio è il mio momento più intenso, se poi uno sguardo arriva a vedere la vastità del mondo, allora è davvero indimenticabile. I momenti più alti sono quelli in cui il mio istinto prevale sulla mia ragione. Il vero coraggio di voler vivere senza trattenere le emozioni catturandole una ad una, una scorpacciata di vita.
La vera forza della bicicletta sta nel non dare limiti a me stesso, se mi sento di andare, uno scatto mi spara in paradiso. Se amo vivere e cogliere l’attimo tengo una velocità leggera, ascolto il rumore del cuore e del terreno, e se invece ho bisogno di riflettere basta fermarmi, posare la bici e sdraiarmi per terra, ed osservare il cielo.
Tutto questo per me è vita, da vivere adesso, senza più rimandare .
Il mio é un amore, e la bici mi rende vivo.Ho fatto molti sport ,ma solo con lei vivo questa energia questa essenza di vita e libertá. Ho 40 anni ,ma ho un energia da ragazzino. Tutto ció che piú vorrei é poter lavorare e vivere per e con la mia bici. Sono di origine Sarda, anche se nato in veneto, e naturalmente amo la Sardegna, altro infinito amore che sento vibrare profondamente in me.
p.s.= la bici sullo sfondo è “Daisy”, la mia vecchia bici protagonista di molte avventure.
Come fare a recuperare la dimensione ideale del proprio ESSERE che annulla se stessa e si perde nei lugubri sotterranei della mediocrità?
Avanziamo nelle tenebre, con passo lento ma deciso, perché vogliamo aprirci un varco che ci permetta di conquistare finalmente la LUCE. Non più, dunque, guerrieri erranti sottèrra in lotta con fantasmi di un passato troppo ricurvo su se stesso, ci apprestiamo ad affrontare la madre delle battaglie: il nostro avversario è la morte, la morte dell’anima.
Le sole armi di cui disponiamo sono gli ideali che la massa, impietosa e vigliacca, reputa degni del più profondo aborrimento.
Ci condannano, ci scherniscono perché vagabondiamo alla ricerca di sensazioni forti, di brividi e sussulti: non sanno che , solo appagando il desiderio di sfuggire alle pastoie di un’esistenza scontata, avremo requie.
Siamo un piccolo esercito di uomini e donne nuovi, marciamo alla conquista di un mondo privo di confini visibili, coltiviamo un’idea che è già una realtà, siamo terreno fertile su cui essa attecchisce e si sviluppa.
Ognuno di noi, in potenza, custodisce una tessera del mosaico di quel mondo così tanto agognato ma si ostina,caparbiamente, a volerla cercare nel proprio simile al punto che, quando la scova, si illude di aver trovato l’incastro perfetto.
Ma completarsi è scoprire di possedere in sé per poi stanarlo altrove, quello speciale corredo di principi, valori e verità che vincono il transeunte e ci elevano al grado di persone, strappandoci a quello di ombre di umanità.
Ora che finalmente percorriamo le giuste vie, il SOLE ci inonda del suo calore e scioglie il ghiaccio dei nostri cuori inariditi dal contatto con le gelide profondità della TERRA: è come rinascere, è il segnale che attendevamo per tornare ad attingere alla sacra sorgente della SAPIENZA.
Per raggiungerla, scaleremo rocce acuminate, cadremo ferendoci mille volte e mille volte ci rialzeremo e, alla fine, laceri e sfiniti, potremo dissetarci senza sosta e medicarci le ferite.
Lungo il tragitto avremo modo di rivivere in un solo attimo tutta la nostra esistenza e forse ci sembrerà di non aver vissuto affatto: avremo la sensazione di esserci lasciati vivere.
Se mai questo momento dovesse arrivare, nessuno si farà trovare impreparato e supereremo le asperità mettendo in condivisione le tessere del nostro mosaico di speranze: i dubbi del singolo saranno i dubbi del gruppo, così come le certezze.
Ci hanno insegnato a vivere – o forse a sopravvivere – contando esclusivamente sulle nostre forze e trovando in noi stessi le risposte a tutte le domande: condizione né piacevole né equa.
A volte il sole ci sembra davvero non sorgere mai. Ma quando il senso del viaggio è chiaro, il sentiero da percorrere apparirà sempre battuto.
I guerrieri di questo tempo balordo ottengono dalla vita una sola e inestimabile ricompensa: quella di non ritrovarsi soli sul campo di battaglia e di scoprire che, nei loro sussulti di vita e di luce nuova, si riflettono altre vite, si incrociano altri destini. Ci si dona gli uni agli altri, con spontaneità e gentilezza, senza mai smettere di cercarsi e senza voler ricevere nulla in cambio.
Insieme si cade, insieme ci si rialza. Siamo note di vita, passi di danza sincrona, cenni di consumata teatralità, fascino dell’essere. Siamo una realtà palpitante e viva, non un sogno distopico affidato agli scettici. ANIME scintillanti nel presente che non hanno bisogno di interrogare uno specchio per sapere chi sono, libere dai fantasmi «del tempo che fu» e che combattono con tenacia affinché, su chi è bramoso di vita e di luce,non cali mai il sipario. Non ambiscono a nulla, se non a questo i veri guerrieri.
Ho 47 anni. Coniugata, due figli. Sono un ex avvocato civilista, da sempre appassionata di scrittura. Sono autodidatta, non avendo mai seguito alcun corso specifico sulla materia. Il mio interesse é assolutamente innato, complici – forse – il piacere per le letture, la curiosità e la particolare proprietà di linguaggio che,sin dall’infanzia, hanno caratterizzato il mio percorso di vita. Ho da poco pubblicato il mio primo romanzo breve dal titolo:Il social-consiglio in outfit da Bianconiglio. Per me è assolutamente terapeutico alimentare la passione per tutto ciò che riguarda il mondo della scrittura. Trovo affascinante l’arte della parola (scritta e parlata) e la considero una chiave di comunicazione fondamentale di cui non bisognerebbe mai perdere di vista il significato, profondo e speciale. Credo fortemente nell’impatto emotivo dello scrivere che mi consente di mettermi in ascolto di me stessa e relazionarmi con gli altri in una modalità che ha davvero un non so che di magico.
Universalmente conosciuti come BIAS, i tratti cognitivi rappresentano vere e proprie scorciatoie di pensiero, deviazioni dal percorso logico originario (quindi basate sul ragionamento) dovute all’esigenza della nostra psiche di operare un efficace risparmio cognitivo, come contrapposizione difensiva alla gran mole di stimoli e alla importante quantità di informazioni, che giungono a noi, ogni giorno e in ogni momento.
Ottimizzazione quindi, tesa a risparmiare tempo, impegno e fatica, nel decidere di conseguenza a quegli stimoli. A volte, queste scorciatoie, ci permettono di prendere decisioni immediate, senza appunto implicare troppe risorse mentali e di tempo ma, altre volte, inducono una errata interpretazione della realtà, ovvia conseguenza alla concatenazione di errori di valutazione e di ragionamento, capace di distorcere e snaturare la realtà stessa.
Il concetto di base, che agisce per mano di questi meccanismi, è quello secondo cui siamo esseri emotivi con una spiccata tendenza alla razionalizzazione – non esseri razionali tout court – quindi agli esatti antipodi del vetusto Cogito ergo sum, di cui abbiamo abbondantemente parlato in altre sedi e in altri articoli, abilmente destituito di fondamento, dal Prof. Antonio Damasio, nel libro “L’errore di Cartesio”. Una razionalizzazione che tende a creare quelle strategie cognitive preimpostate, quella serie di scelte strategiche pronto uso o pronta cassa, finalizzate al minore dispendio di risorse e all’utilizzo semplice di schemi e strategie comportamentali.
I Bias conosciuti e codificati dalle Neuroscienze moderne sono moltissimi, ma altrettanti sono quelli ancora non codificati, al punto che, ipotizzarne un numero definitivo è cosa ardua, forse impossibile. Si suppone comunque, a titolo di esempio, che siano circa duecento quelli più importanti.
Tra questi, giusto per citare le principali macro-categorie, troviamo quelli di giudizio, di memoria, individuali, di gruppo, di decisione, di motivazione, etc., raggruppati a loro volta per sovraccarico(troppi stimoli, tutti insieme), scelta(la cernita di quelle informazioni, per risparmiare la memoria), fretta (per risparmiare od ottimizzare il tempo) e per mancanza(la mente umana unisce i puntini e, in assenza di informazioni complete ed esaustive, le immagina, le deduce dal contesto o, semplicemente, le crea).
E, scendendo nello specifico, non possiamo dimenticare i Bias ritenuti tra i più importanti in assoluto, i “fantastici tre” che, nel bene e nel male, dominano la mente umana di tutti noi, nessuno escluso: il Biasdiconferma(la ricerca inconscia delle tesi che danno ragione alle nostre convinzioni e alle nostre credenze, escludendo in automatico tutte le altre), quello di colpa o merito(i risultati positivi sono merito nostro, mentre quelli negativi sono colpa d’altri) e quello di eccessiva fiducia (in noi stessi e nelle nostre capacità, sovrastimandole, salvo poi sottostimare i rischi e i pericoli correlati a ciò che facciamo).
In questa sede ci occuperemo del secondo citato, ossia del Bias di colpa o merito e del suo aspetto più interessante, ovvero il particolare meccanismo di elaborazione, attribuzione e delega delle responsabilità.
Per effetto di questo tratto cognitivo che semplifica, come gli altri, le esperienze umane, sentiremo un automobilista dire “mi sono venuti addosso”, oppure “ho evitato un incidente” qualunque sia stata la dinamica dell’incidente, in funzione della sua attribuzione inconscia di colpa o merito relativa allo sgradevole episodio. Allo stesso modo, uno studente distinguerà la responsabilità di un cattivo voto, dal merito di uno positivo, arrivando a dire, delegando la responsabilità, “il professore mi ha messo 3”, in aperta contrapposizione cognitiva con il più autocelebrativo “ho preso 7”.
Probabilmente derivante dal colpa e merito, di estrema importanza e interesse è la variante della responsabilità esterna, ovvero la convinzione di non essere responsabili (di non aver colpe) delle proprie azioni e del risultato conseguente dipendendo, quest’ultimo, esclusivamente da fatti e forze al di fuori del nostro controllo (almeno secondo il tratto cognitivo in questione). Si tratta di una scorciatoia che ci porta a cercare le responsabilità al di fuori della nostra sfera d’influenza, fino a credere ai complotti, alle macchinazioni, ai poteri superiori e occulti sempre pronti a tramare contro di noi e a remare contro il nostro destino.
Questa convinzione ci libera dell’ansia della decisione, proteggendoci dall’insoddisfazione e dalle delusioni provocate dai nostri errori, portando il pensiero a ruotare ossessivamente intorno a questo concetto e rendendolo incapace di reagire e di uscire dal pantano dell’auto-inganno.
Questo tratto cognitivo – e il conseguente assetto mentale – porta a sentirsi protetti e tutelati, perché andrà tutto bene (ti ricorda qualcosa?), che tanto, presto o tardi, qualcuno se ne occuperà e, con un po’ di fortuna, ci toglierà le castagne dal fuoco. Un modo come un altro per rifiutarsi di crescere, di assumersi le proprie esclusive responsabilità, facendo leva inconscia sul ricordo di un’infanzia perduta, di quando erano i nostri genitori a decidereper noi, sollevandoci dall’incomodo onere, nel bene o nel male.
È più facile dare la colpa delle nostre umane miserie a chiunque, o a qualunque cosa, al di fuori di noi, pur di non guardarci allo specchio, per non dover puntare quell’indice indagatore contro noi stessi e contro le nostre scelte. Anche contro le mancate scelte (perché anche non scegliere, è una scelta) foriere di conseguenze immediate o future. E pur di trovare un’attenuante o una giustificazione ai risultati che la nostra vita, per nostra mano ottiene, siamo pronti a darne la colpa alla divinità (scegli tu quale, a tuo piacere), al destino, all’oroscopo, ai concorrenti, al mercato, alla crisi, alla pandemia, ai russi, agli americani e, perché no? ai cinesi e ai talebani.
Insomma, a qualunque cosa (o persona, o evento, o forza sovrannaturale) che abbia a che fare con quelle nostre scelte e con le nostre azioni, anche quando siamo gli unici fautori di esse, quindi gli unici artefici di quel destino che, nella nostra idea, ci rema contro.
Mai inganno fu più distruttivo dell’esito e lesivo della dignità di pensiero.
La libertà consapevole di scegliere e di agire spaventa, genera stati d’ansia e d’angoscia, derivati dalla paura di fare i conti anche con se stessi, riconoscendo con serenità i propri errori e sfruttandoli come insegnamento, punti fermi dai quali ricominciare, senza che la nostra autostima e la nostra autovalutazione ne escano sconfitte.
Il lato più deleterio di questo Bias (come di quasi tutti i Bias, del resto) è la velocità con la quale agisce, il senso d’urgenza motivato solo dal risparmio di energie e mai da necessità reali (fatto salvo il Bias di autoconservazione). Occorre invece prendere le distanze da questa fretta, dal pensiero precipitoso e affannato, soprattutto quando siamo alle prese con decisioni di grande importanza. Un passo indietro, in questi casi, è ciò che può far la differenza, tra successo e fallimento o, melodrammaticamente parlando, tra la vita e la morte, razionalizzando le emozioni e la “pancia”, facendo sì che ci indichino un percorso da prendere, ma solo dopo averci ragionato, supportandole razionalmente.
Valutati i pro e i contro, insomma, con lucidità e oggettività.
Facile? Proprio per niente. Anzi, è addirittura difficile riconoscere questo meccanismo cognitivo nei nostri stessi processi logici e nel nostro vissuto quotidiano. Per contro, possiamo facilmente riscontrare il meccanismo diresponsabilità esternanella vita quotidiana al di fuori di noi, o negli altri, ad esempio quando i leader politici di riferimento che si propongono come unici risolutori di un problema che dipende e deriva sempre da altri, o è stato ereditato dai predecessori, che quindi esula dalle proprie responsabilità, proponendosi come difesa dalla minaccia (crea un nemico comune e avrai un elettorato) in favore del singolo e della collettività, finora trascurata e indifesa.
A condizione che tutti, singolo e collettività, abdichino al controllo e alla verifica del reale rischio, del vero problema e delle corrette soluzioni adottate.
Il tratto cognitivo della responsabilità esterna, se da una parte ci protegge dall’incertezza presunta e ci rassicura da un pericolo che, spesso non è così reale come veniamo suggestionati a credere, per contro, pretende in pegno i nostri beni più preziosi: la libertà, l’autonomia, il senso di responsabilità e la capacità di operare una scelta consapevole.
Una condizione a dir poco vessatoria e per nulla equa, a ben vedere, cui opporre necessariamente un ragionamento attivo, che non sia estraneo alle scorciatoie, ma che, a condizione di conoscere noi stessi e le nostre emozioni, conservi integra la capacità di valutare e di sfruttare a nostro beneficio queste ultime, lasciando spazio all’istinto, cum grano salis!
Christian Lezzi, classe 1972, laureato in ingegneria e in psicologia, è da sempre innamorato del pensiero pensato, del ragionamento critico e del confronto interpersonale. Cultore delle diversità, ricerca e analizza, instancabilmente, i più disparati punti di vista alla base del comportamento umano.
Atavico antagonista della falsa crescita personale, iconoclasta della mediocrità, eretico dissacratore degli stereotipi e dell’opinione comune superficiale. Imprenditore, Autore e Business Coach, nei suoi scritti racconta i fatti della vita, da un punto di vista inedito e mai ortodosso.
Che nesso c’è tra le emozioni e la leadership efficace?
E’ possibile guidare se stessi e gli altri, pensando di ignorare le dinamiche interne dell’anima ?
In questo articolo parleremo di come le emozioni siano una componente basilare dell’individuo e di come essa svolga un ruolo importante nella relazione in genere e nello specifico tra leader e follower.
“La maggior parte della pubblicità non fa tanto appello alla ragione quanto all’emozione.”
Erich Fromm (psicoanalista e sociologo)
1 – Leadership: comunicare bene, è sufficiente?
La prima cosa che ci viene in mente parlando della leadership, è la capacità di guidare se stessi ed i nostri collaboratori dopo aver stilato una scala di priorità, grazie alle quali scaturiranno le linee guida che permetteranno di raggiungere gli obiettivi prefissati, rispettando nel contempo il budget economico messo a disposizione.
Negli ultimi anni, inoltre, ha preso piede la consapevolezza che per raggiungere obiettivi sempre più stringenti è necessario che l’ambiente lavorativo sia pervaso da entusiasmo e per fare ciò è necessario fornire al proprio team delle motivazioni.
Ma al centro di questa visione, aggiungiamo noi, ci sono persone che si relazionano gli uni con gli altri comunicando.
Concretamente, come avviene questo scambio di contenuti ?
Il primo mezzo che ci viene in mente é la parola.
La parola é un “ponte”, un tramite, che permette il passaggio di informazioni da una persona all’altra,
Etimologicamente, comunicare deriva dal latino “commūnĭcāre”, che a sua volta deriva da “cŭm” insieme a, con, contemporaneamente a, e da “mœnīre” che tra i vari significati include anche, rendere accessibile ed aprire.
Pertanto comunicare in senso più ampio, significa ad aprire il proprio mondo agli altri, a condividere le idee, scambiare pareri e nel nostro caso, coinvolgere i collaboratori sia nella fase che precede le scelte che poi nel debriefing, quando arriva il momento di tirare le somme e valutare i risultati raggiunti.
Ma per comunicare, non basta, né tantomeno è sufficiente, conoscere bene una lingua e l’arte del saper parlare in pubblico e scopo di questo articolo è andare in cerca di quei presupposti a priori, che rendano la comunicazione verbale veramente chiara ed efficace od in altre parole, essere ragionevolmente sicuri si il che il messaggio sia stato realmente compreso dal nostro interlocutore.
“Il problema principale della comunicazione é dare per scontato che essa sia realmente avvenuta”. George Bernard Shaw
Come l’esperienza ci insegna, seppur siamo in possesso di una buona cultura ed abbiamo frequentato dei corsi di formazione, la conversazione basata sul linguaggio continua ad essere caratterizzata da incomprensioni, equivoci e fraintendimenti di vario tipo.
Pensiamo per esempio quanta letteratura fonda la sua esistenza sul cosiddetto “qui pro quo” e di come la trama della storia verta intorno alla risoluzione dei malintesi e quindi al chiarimento finale tra i protagonisti.
Il motivo di ciò risiede nel fatto che l’approccio che si focalizza prevalentemente sul contenuto e sulla modalità delle informazioni da scambiare, parte dal presupposto che essa è una questione che coinvolge aspetti semantici, sintattici o grammaticali.
Ma il dialogo tra le persone avviene anche su un livello differente, che come vedremo, ha un’importanza tutt’altro che trascurabile.
E’ quella che si rivolge non tanto all’aspetto logico/razionale della mente, ma a quella parte del mondo interiore dell’individuo, fatto di emozioni e sentimenti.
2 – La comunicazione non verbale
Questo aspetto merita a nostro avviso di essere preso in maggior considerazione.
Sul posto di lavoro, almeno ufficialmente, non c’è spazio per le emozioni, mentre nello sport, questa presa di coscienza ha fatto capolino già da tempo, perché qui più che in altri ambienti, é risultato evidente che solo dall’emozione può scaturire quel qualcosa in più che renda possibile una prestazione eccezionale, oppure, quella resistenza senza la quale, non si potrebbero superare allenamenti durissimi.
Siccome il timore è che le emozioni possano intaccare la prestazione lavorativa del singolo o che, turbando la sensibilità altrui, finiscano per influenzare il rendimento dei colleghi, esse di norma, vengono ignorate o tutt’al più, ritenute lecite solo all’interno di ambiti ben delineati, come le ricorrenze, il raggiungimento di obiettivi particolarmente ambiziosi o al contrario, quando la situazione congiunturale è complicata e bisogna richiamare il gruppo a fare dei sacrifici.
Ma che ne siamo consapevoli o meno, esse sono un ingrediente fondamentale della nostra esperienza e che fanno capolino in ogni circostanza della nostra vita.
Anche quella lavorativa.
Pensare di ignorarle con l’intento di renderle inoffensive é inutile, anzi quando ciò accade, esse operano dentro di noi come la lava incandescente che scava le gallerie nelle profondità della terra e si trasformano in quelle che secondo alcuni studiosi, sarebbero le cause delle malattie psicosomatiche.
Ma prima o poi esse manifestano la loro azione e più tardi questo accade, più lo faranno in maniera eclatante e talvolta esplosiva.
Pensiamo per esempio ad un attacco di rabbia o più semplicemente ad una crisi di pianto causata da un sentimento di dolore troppo a lungo represso.
Sono perennemente presenti e benché agli occhi di molti non appaiano visibili, per coloro che invece hanno occhi per vedere, orecchie per sentire ed un cuore per comprendere, la loro manifestazione appare evidente.
Anzi, per certi versi, lo fanno in maniera “assordante”.
“Noi gridiamo quello che siamo.”
Uno degli assunti fondamentali della psicologia junghiana.
Da queste premesse comprendiamo il motivo perché in alcune circostanze ed in particolare sul luogo di lavoro, vengano viste con un certo sospetto, in quanto rivelerebbero il nostro stato interiore più autentico che, grazie alla timidezza, al rispetto delle convenzioni dettate dall’educazione oppure dalla convenienza, resta celato.
Pensiamo per esempio al caso in cui esse lasciassero trapelare il disappunto per le scelte fatte dal capo, o più semplicemente, quando sono spie rivelatrici di emozioni distruttive latenti come l’aggressività e quindi, potrebbero mettere a rischio l’integrità del gruppo.
Secondo alcuni, le emozioni in fabbrica od in ufficio, sarebbero apportatrici di confusione che generano inefficienze, ostacoli alla comprensione reciproca ed allo svolgimento ordinato dei compiti da eseguire, mentre come vedremo più avanti, andrebbero interpretate come la spia di un malessere, di un problema o di un conflitto, sia personale che di gruppo e noi, similmente a quando sul cruscotto della nostra automobile si accendesse una spia di allarme, invece di prenderle in seria considerazione, decidessimo di ignorarla.
A complicare il quadro, interviene, la concezione dicotomica che caratterizza tutt’ora il pensiero occidentale, il quale divide in maniera spesso tranchant i fenomeni in “bene o male”, “buoni o cattivi”, “favorevoli od ostili”, che ha fatto si che si creasse nei tempi passati tra i filosofi, una netta distinzione tra l’attività meccanica del corpo e l’attività intellettuale del pensiero, ignorando o trascurando invece, il cosiddetto “convitato di pietra”, cioè l’universo delle emozioni, riservandole non solo un ruolo secondario ma ritenendole in alcuni casi, il vero nemico del pensiero logico/razionale.
Per molti secoli, infatti, la sfera delle emozioni è stata confinata al mondo spensierato dei bambini od al più tollerato con benevola indulgenza quando riguardavano il genere femminile.
Per il resto veniva relegato alla ristretta cerchia di poeti ed artisti.
Questa dialettica filosofica era più che comprensibile in passato, in quanto nasceva dalla necessità di placare le ansie del vivere quotidiano accentuate dall’arretratezza del sapere scientifico e dove, le malattie e le guerre, contribuivano a rendere la vita ancora più insicura ed incerta.
3 – La palestra delle emozioni
Ora, quand’è che le emozioni cominciano a manifestarsi e a svilupparsi dentro di noi ?
Tutto ha inizio quando tra la madre ed il figlio appena nato, si instaura un’intesa basata non sul linguaggio verbale ma sullo scambio di sorrisi, occhiate e mugolii di vario tipo, che a loro volta, non sono altro che il mezzo con il quale le emozioni vengono manifestate all’esterno.
Esse sono di vario tipo e vanno per esempio, dalla manifestazione del piacere di rivedersi, il desiderio di ricercare un contatto visivo, il bisogno di mangiare, il compiacimento quando questo piacere viene soddisfatto, e così via.
E’ questa la prima forma di comunicazione tra individui ed é a tal punto universale che, quando un piccolo, nato e cresciuto per un certo periodo di tempo in un paese se, prima dell’instaurarsi della relazione verbale, viene adottato in un’altra nazione, tra la nuova madre ed il bambino si crea egualmente un affiatamento.
Cogliamo l’occasione per far notare che un modo diverso per veicolare sentimenti ed emozioni é la musica, la quale, facendo appello proprio al linguaggio primordiale di cui stiamo parlando, viene compresa in qualunque parte del mondo, anche ed indipendentemente dall’epoca in cui é stata composta o dal paese di provenienza dell’autore.
Amore, odio, attrazione, repulsione, piacere, disgusto, compiacimento, disprezzo, ammirazione, fastidio, stupore, terrore, serenità, rabbia, delirio di onnipotenza, senso di frustrante solitudine, pace, serenità, compassione, calma, nervosismo, comprensione, giudizio, attrazione, repulsione, desiderio di unione, vengono vissute da ciascuno di noi come vibrazioni che si propagano all’interno e tramite le espressioni del viso ed il linguaggio del corpo, vengono trasmesse e captate da chi ci sta di fronte, innanzitutto a livello inconscio.
Emozioni che possono essere comprese solo da chi é capace di empatia, ovvero, da chi é in grado di sintonizzarsi con il mondo interiore altrui.
Dovremmo soffermarci un po’ su questa dote assai importante.
4 – L’empatia: alleata delle relazioni efficaci
L’empatia consiste nel saper cogliere, afferrare il mondo emozionale dell’altro, di percepirne i moti interiori ed i sentimenti.
Tutto ciò che insomma, ha ben poco a che vedere con il mondo della logica e della razionalità.
Iniziamo con l’osservare che la capacità di sintonizzarsi sulle emozioni altrui é sviluppata più nelle donne che negli uomini perché, come abbiamo visto, é compito della madre prendersi cura del neonato in quanto, coglierne il linguaggio non verbale, è una questione di vitale importanza.
Ma anche gli uomini, non tutti in egual maniera, sono dotati di questa medesima capacità che é fondamentale a prescindere per instaurare relazioni sociali soddisfacenti.
Perché, se da un lato é vero che affinché lo scambio di idee sia produttivo é indispensabile possedere l’abilità di parlare e di saper esporre con chiarezza le proprie idee in pubblico, ma affinché essa sia anche persuasiva e convincente é imprescindibile entrare in sintonia con l’universo dell’anima del nostro interlocutore.
Ogni emozione è un messaggio, il nostro compito è ascoltare… Gary Zukav (divulgatore scientifico e coach)
A nostro avviso per convincere un collaboratore, non é sufficiente studiare od elaborare tecniche di comunicazione verbali e “body languages” appropriati ad ogni situazione, ma é anche necessario prendere coscienza di quanto le dinamiche del profondo degli esseri umani influiscano, sia sulla qualità della trasmissione, che sulla comprensione dell’argomento.
Perché esiste sempre un significato sottinteso che va “al di là” di quello che volevamo esprimere verbalmente e che viene percepito da ognuno dei nostri interlocutori in maniera completamente diversa.
Infatti se é ormai acquisito che durante una conversazione possano avvenire sia equivoci causati da errori di pronuncia, che quando sono inconsapevoli sono detti lapsus freudiani, sia da interferenze esterne come il rumore, ben sintetizzato dal modo di dire “capire fischi per fiaschi..”, meno scontata invece, é l’influenza che le emozioni hanno quando si tratta di attribuire ad un’espressione verbale un ben determinato significato.
Il detto “mai parlare di corda in casa dell’impiccato” descrive bene questo concetto.
Un termine che per qualcuno rappresenta uno strumento di lavoro e per un’altra persona evoca emozioni legate a spensierati giochi infantili, purtroppo a certuni, potrebbero evocare fatti tragici legati alla propria vita familiare, facendo rivivere le stesse sensazioni di tristezza, di dolore e lutto che aveva provato a suo tempo.
Perché ad ogni parola noi associamo un’emozione e ciascuno di noi lo fa in maniera unica, in un modo che dipende dal proprio vissuto esperenziale.
E’ grazie all’empatia se riusciamo a metterci in sintonia con il mondo interiore del nostro collaboratore e a far si che la l’interlocuzione sia più efficace e meno condizionata da sentimenti che evocano stati d’animo che possono “inquinare” il reale contenuto del messaggio.
Quando é il momento che le decisioni e le azioni prendano forma, i sentimenti contano almeno quanto il pensiero razionale e spesso anche di più.
Daniel Goleman (psicologo e scrittore)
5 – Leadership ed indulgenza: chi l’avrebbe mai detto ?
Ma esiste un aspetto dell’empatia che è importante nella stessa misura, che consiste nell’attitudine di saper ascoltare i sentimenti dentro di noi, per capire chi siamo veramente e che, quando questo ascolto é onesto e sincero, ci insegna ad essere più indulgenti sia nei confronti di noi stessi che degli altri.
L’indulgenza di cui stiamo parlando, non ha nulla a che vedere con il perdono.
L’indulgenza, che deriverebbe secondo un’interpretazione simbolica, dal latino “indulgentĭa” a sua volta composto da in”, cioè verso e dal verbo“dulcāre” che significa addolcire, sarebbe quell’arte che consiste nel saper vedere negli altri, come in se stessi, sempre il lato più dolce, ovvero quello migliore.
Un primo effetto é che col tempo grazie ad essa, impariamo ad astenerci dal giudizio, ovvero a comprendere che i nostri pensieri e le nostre azioni, come quelli di chi lavora a nostro fianco, si fondano sempre su dei buoni motivi, che dipendono, ovviamente, dal vissuto di ciascuno e da come gli obiettivi lavorativi impattano sulla propria autostima.
Questo tipo di consapevolezza, che si acquisisce solo col tempo, ci mette in condizione di collaborare alla creazione di un ambiente di lavoro, che sia produttivo ma allo stesso tempo sereno.
A chi piacerebbe lavorare in un ambiente eccessivamente competitivo e perennemente sottoposto a stress di ogni genere?
Costruire e mantenere un clima emozionale positivo dovrebbe essere la prima preoccupazione di chiunque gestisca un team, sportivo od aziendale che sia.
Paolo Trabucchi (psicologo e sportivo, fondatore della teoria della resilienza nello sport)
Ma cosa significa in concreto?
6 – La relazione leader e follower consapevole del potere delle emozioni
Significa innanzitutto accettare chi ci sta di fronte per quello che é, e nel contempo, tenere conto di un’altro assunto della psicologia junghiana, che a prima vista potrebbe apparire contraddittorio o bizzarro ovvero, che quando troviamo qualcosa di detestabile in qualcuno, in realtà la critica è rivolta, senza esserne consapevoli, anche e soprattutto a quegli aspetti del suo carattere che sono simili ai nostri ma con i quali, o non abbiamo ancora fatto pace, o semplicemente, non sono ancora emersi dal magma caotico ed indifferenziato del nostro inconscio.
Per lungo tempo, si é creduto che bastasse acquisire una buona cultura generale per essere tolleranti, per accettare chi da un punto di vista caratteriale é diverso da noi.
In realtà dietro al rifiuto di accettare una persona o al pregiudizio nei suoi confronti, non c’è soltanto un condizionamento culturale, ma anche e soprattutto un influenza esercitata dal mondo interiore che è rappresentato dalle emozioni.
Tutto ciò che degli altri ci irrita può portarci alla comprensione di noi stessi.
C.G. Jung (psicoanalista)
Anche se questo ragionamento può sembrare assurdo, come é possibile infatti, “che dentro di me ci sia un aspetto che io detesto ? “, esso ci appare più comprensibile se pensiamo che, così come un diapason in quiete può risuonare anche quando gliene viene posto accanto uno che si trova già in stato di vibrazione, parimenti, quando qualcosa di indefinito dell’altro ci dà particolarmente fastidio, è il segnale che ci dovrebbe suggerire che dentro di noi, convive un aspetto molto simile.
E per capire in che modo le emozioni ci condizionino e di come a causa loro, ci relazioniamo con gli altri, per esempio i nostri collaboratori, é importante dare inizio ad una riflessione riguardo il proprio mondo interiore.
Anche quelli più oscuri intendiamoci, di quei lati che la psicoanalisi junghiana definisce la nostra “ombra” e che consiste sia in tutto ciò che ancora non è emerso nella parte conscia, sia da quello che nella letteratura é descritta molto bene dalla figura del personaggio del romanzo “Lo strano caso del dr.Jekyll and mr. Hyde” , dove Hide in inglese, significa appunto, “nascosto”, ovvero, il lato nascosto di chi di giorno curava i malati e salvava le vite, mentre di notte si trasformava in un personaggio sadico e malvagio.
L’uomo sano non tortura gli altri, in genere è chi è stato torturato che diventa torturatore.
C.G. Jung (psicoanalista)
Perché conoscere se stessi è un buon modo per iniziare a comprendere anche gli altri e che ci permette di acquisire col tempo un’altra qualità, talvolta sottovalutata, ma da noi ritenuta altrettanto cruciale in ambito lavorativo.
Stiamo parlando dell’astensione dal giudizio.
L’astensione dal giudizio non è solamente un concetto astratto, ma qualcosa che influisce in maniera determinante e positiva sulla motivazione e quindi sulla prestazione del collaboratore, perché anch’egli e talvolta più di noi, é dotato di empatia e pertanto in grado di “percepire” se abbiamo fiducia di lui o se siamo prevenuti nei suoi confronti.
Ed è importante che questo spirito sia sincero e non costruito, perché nel secondo caso l’incongruenza tra ciò che diciamo e come lo diciamo, verrebbe svelata ed interpretata come un tentativo di manipolazione.
Purtroppo, non é sufficiente frequentare un corso che ci insegna ad entrare in sintonia con l’altro, per esempio mediante tecniche di ricalco posturale, perché, se non siamo eccellenti attori, veniamo subito smascherati dall’inconscio altrui e tutto quello che diciamo, da un certo momento in poi finisce di perdere ogni credibilità.
Anzi, cogliamo l’occasione per riflettere sul fatto che, quand’anche fossimo dei professionisti della recitazione, dobbiamo ammettere per forza di cose che i nostri rapporti con gli altri non sarebbero basati sulla sincerità, ma sull’ipocrisia.
E quindi, estendendo il ragionamento, dovremmo affermare che “in primis” non saremmo onesti con noi stessi e si verrebbe a creare uno scollamento sostanziale tra quello che diamo a vedere e quello che siamo veramente.
Quante volte ci è capitato dire di una persona, all’apparenza simpatica e gentile, dire che “.. però ha un qualcosa che non mi convince”, oppure che ci appare “viscida”, “costruita”, “non genuina” od “inafferrabile” ?
Ci farebbe piacere che pensassero le stesse cose anche di noi ?
Perché il linguaggio delle emozioni, che si manifesta tramite il linguaggio del corpo, ci tradisce sempre.
Dischiudere a noi stessi il nostro mondo interiore, quello inconscio, ci aiuta a capire chi siamo veramente e quindi a scoprire che, sebbene ogni individuo sia una creatura unica e speciale, siamo tutti “guidati” dalle medesime leggi universali.
Ecco che iniziando a prestare ascolto alle nostre emozioni e a darle sempre più spazio, si fa strada un nuova sensibilità e di conseguenza, comprendiamo quanto esse orientino il modo in cui affrontiamo la vita e fino a che punto esse sono in grado di condizionare le nostre scelte e decisioni.
Anche quelle lavorative.
Esse sono onnipresenti, scelgono per noi durante i nostri acquisti, ma ci guidano senza che ce ne accorgiamo anche nella scelta dei nostri partner, dei nostri collaboratori, dei nostri studi, degli obiettivi che ci poniamo e dei rischi che siamo in grado di assumerci sulla vita o sul lavoro.
Spetta a noi mediante un indulgente lavoro di introspezione renderci consci della loro influenza.
Io non voglio essere alla mercé delle mie emozioni. Io le voglio usare, divertirmi con loro e dominarle.
Oscar Wilde – Il ritratto di Dorian Gray
7 – Il segreto per integrare le emozioni a lavoro ? Umiltà, umanità ed umorismo.
Abbiamo qui appena iniziato a scoprire che le emozioni sono un universo complesso ed articolato.
Non basta un breve testo come questo per spalancarne le porte e per intraprendere un cammino verso la scoperta di quanto sia ricco ed articolato il mondo che si cela dentro ciascuno di noi.
Fare questa ricerca é sicuramente impegnativo, ma il risultato sarà certamente appagante.
È vero che scendere negli abissi della nostra anima può darci all’inizio una sensazione di smarrimento.
E’ comprensibile infatti, di aver paura di scoprire che da qualche parte internamente, si annidi magari un signor Hyde, tenuto a bada solo dall’educazione e dall’autocontrollo.
Ma forse, é probabile che il nostro lato scuro non sia poi così sinistro e pericoloso.
Oppure di temere che esista un aspetto del nostro carattere che possa risultare sgradevole alla vista degli altri.
Che poi ci domandiamo se in realtà, sia veramente così..
Pensiamo per esempio a tutte quelle volte che ci siamo stupiti di quando qualcuno si è rivolto a noi dicendo ci che eravamo interessanti proprio grazie a quegli aspetti della nostra personalità che invece ci parevano di poco conto, se non addirittura imbarazzanti.
Ma al ritorno da questa ricerca, saremo totalmente rinnovati e rinforzati nella consapevolezza di quello che siamo e valiamo.
Vi invitiamo ad osservare e riflettere infine, che abbiamo evitato consapevolmente di usare il termine “cambiati”.
“Γνῶθι σεαυτόν” – Conosci te stesso
Iscrizione ritrovata presso il tempio di Apollo a Delfi
C’è chi chiama questo percorso, un cammino in discesa, che però non va inteso come un sentiero facile, ma nel senso che esso é più simile all’esplorazione di uno speleologo all’interno della terra ed il cui premio finale sarà il dono dell’umiltà.
Soffermiamoci per un momento su di essa che essendo considerata una virtù, viene assimilata alle cose eteree, celesti ed irraggiungibili, ma che invece, se intesa nel suo significato allegorico, dovrebbe entrare a far parte della cassetta degli attrezzi del leader efficace.
Fatta la premessa che, in questo contesto stiamo privilegiando l’interpretazione figurata rispetto a quella letterale, umiltà deriva etimologicamente dal latino “humilis” cioè basso, vicino al suolo e dal sostantivo “humus” che sta’ per suolo o terra.
Ma questi sono gli stessi vocaboli che fornirebbero la radice al temine umorismo che quindi, metaforicamente parlando, indicherebbe la capacità di vedere con distacco ciò che sta in basso, ciò che c’è sotto o ciò che si nasconde in profondità.
Ecco allora che per umiltà, non si intende quell’attitudine autolesionista che farebbe di noi una persona che ha poca stima di se’, non conscia del proprio valore e dei propri meriti, bensì la consapevolezza che sviluppa colui che, avendo compiuto un viaggio verso il centro della terra interiore, acquisisce una nuova facoltà: l’umanità.
Perché, come dice Manfred Kets De Vries, professore presso l’Harvard Business School, docente presso l’INSEAD, e l’Università di Amsterdam:
“Umiltà, Umanità ed Umorismo, sono le vere doti di un leader.”
Appassionato fin da ragazzo di fisica nucleare, elettronica e computer, entrato nel mondo del lavoro scopre che la sfera emozionale sia importante tanto quanto quella razionale.
Ricoprendo all’interno delle aziende ruoli di sempre maggior responsabilità, osserva che per avere successo, oltre ad investire in ricerca e sviluppo ed in strumenti di marketing innovativi, le organizzazioni non possono prescindere dal fatto che le emozioni giochino un ruolo determinante tra i fattori critici di successo.
Grazie ai libri del Prof. Giampiero Quaglino, viene a conoscenza delle più moderne teorie sulla leadership ed in particolare quelle del docente dell’Insead, Manfred Kets de Vries, con cui condivide la visione secondo la quale non esistono modelli di leadership vincenti, ma solo relazioni efficaci tra gli individui.
Nel 2014 la rivista “Nuova Atletica”, organo ufficiale della Federazione Italiana Di Atletica Leggera, gli commissiona una serie di contributi sulla leadership per allenatori professionisti, coerente con le teorie che quotidianamente cerca di mettere in pratica sul lavoro.
Appassionato anche di filosofia, va alla ricerca instancabile di un modello che metta al centro l’individuo e ne rispetti l’unicità ma che al contempo, sia riconducibile a dei principi da cui cui tutto “principia”, convinto che la cultura e la superspecializzazione della scienza e della tecnologia moderna, conduca ad un inevitabile frammentazione dell’Io.
Ritiene di aver trovato ciò che cercava, riscoprendo la filosofia platonica e di Plotino e nella rilettura dei miti greci attraverso le lenti della psicologia archetipica introdotta dallo psicoanalista junghiano James Hillmann assieme ad i contributi dei filosofi E. Casey, L. Corman e dell’antropologo J.P. Vernant.
Pubblica con cadenza mensile sul magazine “karmanews.it” articoli che reinterpretano i miti dell’antica Grecia in chiave psicoanalitica, ritenendoli una metafora dei travagli dell’anima che, mediante l’uso di immagini e di racconti fantastici, si rivolgono direttamente al cuore e quindi all’inconscio.
Ho sempre cominciato a leggere l’odissea dal quinto libro. Quando Odisseo, che è stato per molti anni fermo sull’isola di Ogigia, al centro dell’oceano, infelice sposo della dea Calipso, può finalmente prendere il largo per tornarsene a casa sua.
Odisseo è già stato per mare, ovviamente. Ha vagato per anni, di isola in isola, ma stavolta è tutto diverso.
È la volta ‘buona’.
Lo capiamo subito.
È la sua seconda volta. Seconda vita. Seconda opportunità.
La seconda vita è quando stacchiamo alcuni fatti dal continuum del passato e li cominciamo a vedere come una partita che si è svolta. L’abbiamo persa. Era un gioco di cui non conoscevamo le regole, neanche sapevamo di giocare una partita!
Incontriamo una persona, rispondiamo a un messaggio, accettiamo un invito… siamo come gli ubriachi: non possiamo sapere che sviluppo avranno quei semplici gesti. Così Odisseo, ogni volta sbarca su un’isola – che può fare? Ha sete e fame – gli viene incontro qualcuno: è un cannibale? Una maga? Lo catturerà? Lo avvelenerà? Lo accoglierà con delicatezza?
Non può saperlo. Non possiamo. Procediamo a tentoni. Facciamo amicizia, cambiamo lavoro, lèggiamo un libro; ma non distinguiamo un giorno dal precedente, non sappiamo che cosa stiamo iniziando: abbiamo appena conosciuto il nostro migliore amico o la persona che ci distruggerà, il lavoro della vita o l’esperienza più atroce che mai consoceremo?
La prima vita è quella dell’esposizione, della nudità, del fallimento in agguato…
Ma impercettibilmente impariamo, giorno dopo giorno, isola dopo isola, e quando abbiamo un po’ di tempo cominciamo a vedere i fili invisibili che legano le cose fatte, i dettagli che ci sfuggivano, il disegno si svela e … ha senso!
A quel punto vorremmo rigiocare la partita! Stavolta sceglieremmo con cura il campo, anticiperemmo le mosse dell’avversario, risparmieremmo le forze per quegli ultimi minuti concitati, entreremmo sulle gambe dell’attaccante che segnerà a porta vuota (meglio un rosso che un goal allo scadere)
E però non è possibile.
Quante vite abbiamo?
Tante.
Quella fatta di ciò che ci è capitato, e quella che abbiamo plasmato secondo un’idea che ci siamo inventati di ciò che siamo, che vogliamo. La seconda vita inizia quando scegliamo, quando distinguiamo nel flusso degli accadimenti uni spazio per la scelta.
La decima isola per Odisseo è quella giusta, perché non ha più niente: non navi, non compagni, nemmeno vestiti. Ha solo le sue capacità: la sua intelligenza e la sua parola fluente.
Quando Odisseo parlava, ci dice Omero, tutti stavano in silenzio, meravigliati, e le sue parole erano come fiocchi di neve che scendono dal cielo e ricoprono ogni cosa.
Immagine straordinaria! E che dobbiamo rivivere con lo sguardo mediterraneo e la pelle temprata dal sole e dal sale di chi vive in mare.
Ma anche senza quelle straordinarie capacità, quando una vita si presenta come storia e distinguiamo un tema, un inizio, uno sviluppo di fatti, un senso… questa è già la seconda vita, in cui la prima appare ormai come ritaglio, la sua casualità riscattata, il suo tempo riguadagnato, la sua oscurità chiarificata.
Possiamo ormai, come Odisseo alla corte dei Feaci, dire chi siamo. Qual è la nostra casa. La nostra anima gemella. Non quelle che la sorte o il caso ci hanno assegnato, ma quelle scelte, strappate alle contingenze, desiderate con ardore in tutti i porti e in tutti i mari solcati, nell’ora “che – dice Dante – volge al disìo ai navicanti ‘ntenerisce il core”.
Alzi la mano chi non ha mai vissuto un periodo della propria vita dove tutto va a rotoli…!
Davide, trentenne e protagonista della storia, si laurea e dopo i festeggiamenti piuttosto “briosi” inizia ad affacciarsi al mondo del lavoro. All’inizio il protagonista affronta la ricerca con tranquillità, quasi con leggerezza, sicuro che la tipologia di lavoro che sta cercando sarà sicuramente disponibile.
Con il passare del tempo la realtà sarà del tutto diversa e l’euforia iniziale si trasformerà gradualmente in preoccupazione e, quasi, in angoscia.
I colloqui che sostiene sono quasi paradossali e Davide è molto bravo a difendere la propria dignità.
Quanti giovani o neolaureati si trovano a dover lottare, e quasi elemosinare, un posto di lavoro dignitoso che consenta loro di costruirsi un proprio futuro? L’offerta formativa è molto vasta ma quanti posti di lavoro sono realmente disponibili per consentire un adeguato collocamento ai giovani che investono (anche economicamente) sul proprio futuro?
Non è retorica, è un problema sociale sul quale non dovremmo abbassare l’attenzione.
In questa fase, anche famiglia e vita sentimentale sono per Davide fonte di sofferenza.
I social, in particolare Facebook, e il vizio del fumo sono le uniche ancore di salvezza del ragazzo ma fino a che punto sono efficaci?
Facebook è sempre più una vetrina per chi ha bisogno di affermare se stesso nella società, condivisione di luoghi comuni o mezzo di divulgazione di basso profilo per utenti facilmente manovrabili.
Le sigarette hanno un costo, non solo sul portafoglio.
Come uscirne?
La grande passione del protagonista sembra essere la sua ultima ancora di salvezza, fino a quando…
All’inizio ho trovato un pò di difficoltà ad immedesimarmi nella storia; il punto di vista maschile del racconto è diverso dall’approccio femminile all’interpretazione degli eventi.
Noi donne siamo abituate ad analizzare ogni singola situazione da mille punti di vista, ognuno dei quali è l’opposto dell’altro: il tutto intriso di mille emozioni, anche in questo caso, contrastanti!
L’uomo è pragmatico e quando l’ho realizzato, mi sono affezionata a Davide!
Davide è una persona seria, forte e molto rispettosa di se stesso.
Ovviamente fa fatica a reggere il peso degli eventi e alla fine…
Il racconto delle peripezie di Davide avrà vari colpi di scena; questi sta vivendo davvero sulle montagne russe!
Come evolveranno gli eventi? Come andrà a finire?
“Sii impeccabile con la parola” ci offre una lettura molto chiara della nostra società che ancora non riesce a tutelare e valorizzare i nostri giovani; PERSONE serie che hanno tutto il diritto di fare le proprie esperienze in un mondo del lavoro che li rispetti.
“Sii impeccabile con la parola” vuole essere anche uno spunto di riflessione affinché riusciamo a rimettere Facebook nel posto che merita nella nostra vita: forse in fondo !
Ringrazio Matteo Capelli per avermi inviato il suo lavoro; la sua scrittura, come Davide, è simpatica e ironica e mai superficiale!
In bocca al lupo caro Davide! 🙂
Ciao a tutti! Sono Sara Balzotti. Adoro leggere e credo che oggi, più che mai, sia fondamentale divulgare cultura e sensibilizzare le nuove generazioni sull’importanza della lettura. Ognuno di noi deve essere in grado di creare una propria autonomia di pensiero, coltivata da una ricerca continua di informazioni, da una libertà intellettuale e dallo scambio di opinioni con le persone che ci stanno intorno. Lo scopo di questa nuova rubrica qui su FUORIMAG è quello di condividere con voi i miei consigli di lettura! Troverete soltanto i commenti ai libri che ho apprezzato e che mi hanno emozionato, ognuno per qualche ragione in particolare. Non troverete commenti negativi ai libri perché ho profondamente rispetto degli scrittori, che ammiro per la loro capacità narrativa, e i giudizi sulle loro opere sono strettamente personali pertanto in questa pagine troverete soltanto positività ed emozioni! Grazie per esserci e per il prezioso lavoro di condivisione della cultura che stai portando avanti con le tue letture! Benvenuto!
A questo link qui sotto puoi trovare altre mie recensioni.
Capita più o meno in tutte le lingue, dall’italiano all’inglese, dal russo al francese, che parole molto simili rappresentino, in realtà, concetti diversi, se non proprio diametralmente opposti, per lo meno molto distanti tra di loro. E da qui nasce l’inganno, la confusione, dovuto all’uso improprio delle parole, rese intercambiabili dalla superficialità, ma sostanzialmente diverse nel significato più vero e profondo.
Soprattutto in italiano, lingua particolarmente ricca di sfumature, declinazioni e ambiguità (linguistiche). Un po’ come i “false friends” della lingua inglese, parole che sembrano significare qualcosa, ma solo perché somigliano ad altri vocaboli.
È il caso, giusto per portare un esempio, del termine “Sympathy”, reso particolarmente familiare dai Rolling Stone e dalla loro canzone Sympathy for the Devil. Ma, attenzione, Sympathy, non significa affatto simpatia – eccolo il falso amico che c’inganna con una subdola somiglianza – significa compassione. E tutto il senso del testo, chiarito il significato corretto della singola parola, muta contesto e sostanza.
Potremmo citarne a tonnellate, di esempi in merito, di parole che sembrano qualcos’altro, di termini che somigliano ad altri, che quindi spesso confondiamo e intercambiamo, fino a usarli a sproposito. Perché nell’apparentemente sottile differenza tra due parole simili, può esserci un abisso di sostanziale diversità del significato. O, per lo meno, nella loro applicazione, può comportare meccanismi psicologici e comportamentali del tutto diversi.
Prendiamo in esame, ad esempio, le parole “accettazione” e “rassegnazione”.
Apparentemente (ma solo al primo lontano e frettoloso sguardo) esse sembrano talmente simili da rappresentare il medesimo significato, talmente uguali da ricordare due gemelli omozigoti separati alla nascita.
Ma nella linguistica, l’inganno è sempre in agguato, pronto a indurci in errore, a tentarci con parole dal suono simile, ma dal significato diverso che, se usate alla leggera e senza cognizione di causa, alterano il senso del discorso e del nostro vivere quotidiano.
Proprio come nell’esempio della canzone.
Accettare e rassegnarsi, possono anche sembrare parenti strette, ma convogliano implicazioni psicologiche che impediscono loro di essere intercambiabili. Seppur entrambe implichino l’atto di far propria una nuova e diversa prospettiva, una presa d’atto in merito a ciò che ci accade intorno, implicano schemi mentali e aspettative che, tradotti in atti concreti, mutano di molto il nostro agito.
L’errato uso di uno o dell’altro termine, implica un’alterazione delle nostre percezioni, di come vediamo e percepiamo, distinguendoli, ciò che possiamo ancora controllare e ciò che non possiamo controllare più. Capire la differenza che intercorre tra le due parole (dal punto di vista psicologico, non solo da quello semantico) rende possibile, a noi stessi, il controllo sul nostro atteggiamento, dal quale deriva il comportamento nei confronti degli input che ci arrivano dal mondo circostante, permettendoci di mutare l’elaborazione degli stessi e delle aspettative che nutriamo nei loro confronti.
In altre parole, accettare un evento, implica una risposta cognitiva ed emotiva ben diversa da quando, a quell’evento, ci rassegniamo passivamente e senza volontà alcuna. Un bivio che divide due mete drammaticamente diverse e opposte: controllare attivamente gli eventi o subirli passivamente, lasciandoci magari travolgere da essi, incapaci di reagire al momento, allo stimolo agli accadimenti che ci coinvolgono e, in questo caso, ci travolgono.
Che si scelga la prima o la seconda strada, a cambiare è l’atteggiamento, il modo di porsi nei confronti delle circostanze, laddove il primo caso comporta un ruolo attivo e voluto, mentre il secondo, per ovvio contrasto, un ruolo del tutto passivo e involontario. E quella scelta si riflette sul nostro stato emotivo che, a sua volta, determina un agìto di riflesso, che spesso, nel caso della rassegnazione, porta al piagnisteo, alla lamentela e alla fuga dalla realtà e dalle responsabilità.
E anche queste, le responsabilità, distinguono il percorso. Nel caso dell’accettazione, non solo prendiamo atto dell’accaduto, ma ce ne assumiamo le responsabilità, ovviamente se queste sono riconducibili a noi, almeno in minima parte. Nel caso della rassegnazione, le responsabilità non sono mai nostre ma sempre di soggetti terzi e di eventi al di fuori della nostra sfera d’influenza.
Anche quando, di fatto, di responsabilità oggettive non s’ha traccia.
Ciò accade perché la rassegnazione, a differenza della sua apparente gemella, comporta il giudizio, l’assunzione del ruolo di vittima delle circostanze. Mentre l’accettazione quel giudizio lo sospende, accettando la realtà e vivendola con piglio attivo, per cambiarla e ricondurla al suo proprio beneficio, oppure accettarla (appunto) vivendola con serenità, la rassegnazione diventa il nostro stesso inquisitore, il giudice inflessibile che decide (dal suo esclusivo punto d’osservazione) ciò che è giusto e ciò che non lo è.
Salvo poi omettere che si tratti di deduzioni del tutto soggettive dovute ai capricci di un tiranno.
Operare un distinguo ragionato, tra i due concetti, è una questione di volontà, essendo l’accettazione un processo (per buona sua parte) voluto e consapevole. Si decide di accettare qualcosa, in maniera volontaria e cosciente. Al contrario, la rassegnazione ai fatti della vita, comporta una cessazione di quella volontà, una dismissione della coscienza, a favore di un’inconsapevolezza che ci arreca distonia, malessere e disagio interiore. E che, per effetto di quel malessere, c’impone la resa incondizionata e la delega delle cosiddette colpe.
È un po’ come dire: “voglio cambiare le cose”, oppure “lascio che le cose mi cambino”. Sembrano concetti uguali, ma non è aritmetica. Cambiare l’ordine dei fattori (delle parole, in questo caso) il risultato lo cambia eccome. Così come il variato ordine cambia le nostre percezioni, la risposta a quegli stimoli, lo stato d’animo, le nostre azioni e il risultato che ne consegue.
Mentre l’accettazione impara a perdere con stile, la rassegnazione, come spesso osserviamo nel mondo dello sport (soprattutto del calcio) scarica le proprie responsabilità sull’arbitro, sull’allenatore, sul presidente e sui tifosi tutti.
No, comprendere e fare nostra la differenza tra accettazione e rassegnazione, tra attività e passività del ruolo assunto, non è solo una questione di semantica, ma di acquisita capacità e volontà d’essere felici e di saper stare al mondo.
Occorre coraggio, per accettare qualcosa (un lutto, una malattia, un fallimento). Tanto coraggio e altrettanta forza.
Al contrario, per la rassegnazione, basta la viltà, condita dalla stucchevole capacità di fuggire dalle proprie responsabilità e di piangersi addosso, magari bagnando la spalla di qualcun altro.
Christian Lezzi, classe 1972, laureato in ingegneria e in psicologia, è da sempre innamorato del pensiero pensato, del ragionamento critico e del confronto interpersonale. Cultore delle diversità, ricerca e analizza, instancabilmente, i più disparati punti di vista alla base del comportamento umano.
Atavico antagonista della falsa crescita personale, iconoclasta della mediocrità, eretico dissacratore degli stereotipi e dell’opinione comune superficiale. Imprenditore, Autore e Business Coach, nei suoi scritti racconta i fatti della vita, da un punto di vista inedito e mai ortodosso.
Viviamo una fase storica piuttosto delicata, carente a vari livelli sul piano formativo.
Il grado di istruzione non rappresenta più un discrimen sociale e sembra quasi che la linea di demarcazione tra addottrinamento obbligatorio e non obbligatorio sia tracciata dai social che, indubbiamente ,non garantiscono alcuna forma di controllo sul livello di recepimento dello sciame di informazioni quotidianamente veicolate.
Si percepisce la mancanza di idonei strumenti attraverso cui educare le coscienze all’autonomia in tema di libera formazione di pensiero e di giudizio, laddove per giudizio non si intende la capricciosità di una teoria volubile ma un vero e proprio costrutto strutturato, ancor meglio se supportato sul piano argomentativo. Oggigiorno praticamente un’utopia!
Esistono,infatti, troppe forme di dipendenza e di condizionamento da opinionismo nozionistico, talmente radicate da rappresentare, a volte, una specie di anticamera dello shit-storming, nel senso che lo alimentano attraverso l’immissione e la condivisione in rete di affermazioni categoriche e perentorie, pronunciate con eccessiva – o a volte senza alcuna – partecipazione emotiva e che finiscono con l’affiancare i casi di vere e proprie offese gratuite disseminate, qua e là, dagli haters a colpi di post e di commenti sui social.
Ferma restando la netta condanna nei confronti di tutto ciò che nel web lede l’altrui immagine e reputazione, ciò che, in alcuni casi, risulta fuori controllo è la tendenza, soprattutto nel mondo dei social, a giocare allo sceriffo a oltranza, nel tentativo di smascherare qualsiasi profilo/persona poco rispondente ai canoni dell’autenticità e della trasparenza.
E’ avvilente constatare che si è persa l’abitudine a distinguere uno schiaffo da una carezza e che, tutti presi dalla caccia alle streghe in rete, come nella vita, non riusciamo a concederci cedimenti emotivi, viviamo nel terrore di essere circondati da approfittatori di professione o,peggio ancora, da esperti di modi affettati e di strategico perbenismo.
Si finisce col tacciare una persona gentile e ben educata di buonismo con la medesima facilità con cui una persona insolente viene accusata di maleducazione e rozzezza! E questo, oltre che paradossale è anche pericoloso, perché provoca nelle persone corrette la sensazione di sentirsi sbagliate e fuori posto.
Inevitabilmente,infatti, l’individuo costruisce il proprio “IO” rapportandosi con l’immagine di sé che riceve come output dal suo approccio con altri individui, anche attraverso occasioni di confronto offerte dalla comunicazione virtuale.
E’ importante essere capiti, anche nel web: è molto facile, invece, essere fraintesi e finire nel calderone degli haters o dei polemici di professione.
Non si può pensare di liquidare con un click,mediante un freddo automatismo, un soggetto pensante e vivo sul piano emozionale per la smania di voler frugare trovando il marcio che lo renda più facilmente attaccabile.
Che triste eredità ci ha lasciato l’esperienza pandemica!
La tendenza a guardare in cagnesco l’altro come se lasciassimo scandire il nostro tempo da un count down in grado di allertarci sulla fregatura che, da un momento all’altro,potremmo rimediare da terzi. Siamo sempre più prevenuti e calcolatori:non ci lasciamo andare…questa è la verità.
L’alternativa non è più scegliere tra una persona che ci piace e una che non ci piace – il che sarebbe sacrosanto e legittimo perché nella vita non si può piacere a tutti – ma tra chi,rimanendo se stesso fino alla fine, ai nostri occhi giustizialisti a oltranza cade per primo in fallo e chi, invece, magari si vende meglio e quindi non commette errori.
Attraverso l’uso del “bannaggio“, della restrizione e del blocco sui social si spazza via tutto ciò che suona anche solo come posticcio e poco convincente: non c’è necessità di arrivare all’offesa…ormai si bollano le persone per molto meno.
E’ un fenomeno, quello della corsa a smascherare il “fake” che è fuori di noi, che spesso tradisce la necessità di disconoscere i nostri stessi limiti, soprattutto l’incapacità di distinguere un essere umano moralmente integro da uno che non lo è. Il sentore, purtroppo, è che al senso di umanità abbiano rinunciato a credere un po’ tutti.
E’ indubbio, però, il giudizio da presunto impostore affibbiato ad altri ci costringe, prima o poi, a fare i conti con noi stessi e con i nostri lati oscuri ma soprattutto con l’esigenza di dover bandire qualcosa o qualcuno che ci ha toccato – sebbene attraverso una forma di relazione virtuale – e che è riuscito a smuovere in noi delle sensazioni scomode.
Scovare ed isolare la falsità,talvolta, è come ottenere una ricompensa e consolarsi per non aver saputo gestire un’ingerenza nella propria vita. E anche una riflessione o un pensiero personale, formulato sotto forma di post o di commento, può essere vissuto come un’entrata a gamba tesa nella vita altrui.
In sintesi, se chi legge determinate parole frutto di scambi su un social conserva dentro di sé degli aspetti irrisolti, questi lo rendono estremamente vulnerabile ad interpretazioni poco felici nel tratteggiare la personalità di chi, dall’altra parte di uno schermo, quelle parole le ha scritte.
Si instaura una sorta di pregiudizio per cui sia gli haters che i personaggi considerati poco “LEGGIBILI” vengono considerati sullo stesso piano.
Il senso della crociata contro il fake nel web è tutto qui: nella paura di dover barattare parti di noi accondiscendendo al riconoscimento dell’altrui autenticità e consentendosi degli scivoloni che, inconsciamente, forse riteniamo di non poterci permettere.
Nel mondo virtuale queste sensazioni risultano addirittura amplificate e spesso dissuadono dallo sperimentare una qualsivoglia forma di comunicazione, anche embrionale, probabilmente perchè il concetto stesso di virtualità continua a rappresentare un mondo a parte rispetto alla tangibilità epidermica tipica delle relazioni interpersonali de visu.
Concedere ad un altro la possibilità di esprimersi in modo spontaneo e reale fa forse paura perché ci porta a pensare che, prima o poi, potrebbe toccare a noi doverci mettere a nudo? Probabile.
Ma fin quando si vivrà di paure e di conflitti irrisolti, reale e virtuale continueranno a muoversi su binari eternamente paralleli.
Vincere l’incomunicabilità in ogni sua forma: vale la pena provarci per dare un senso alla vita, per vivere da persone libere e dimenticare i tristi strascichi anti-sociali lasciati dietro di noi dalla pandemia.
L’autenticità deve poter essere liberata, non perseguita!
Ho 47 anni. Coniugata, due figli. Sono un ex avvocato civilista, da sempre appassionata di scrittura. Sono autodidatta, non avendo mai seguito alcun corso specifico sulla materia. Il mio interesse é assolutamente innato, complici – forse – il piacere per le letture, la curiosità e la particolare proprietà di linguaggio che,sin dall’infanzia, hanno caratterizzato il mio percorso di vita. Ho da poco pubblicato il mio primo romanzo breve dal titolo:Il social-consiglio in outfit da Bianconiglio. Per me è assolutamente terapeutico alimentare la passione per tutto ciò che riguarda il mondo della scrittura. Trovo affascinante l’arte della parola (scritta e parlata) e la considero una chiave di comunicazione fondamentale di cui non bisognerebbe mai perdere di vista il significato, profondo e speciale. Credo fortemente nell’impatto emotivo dello scrivere che mi consente di mettermi in ascolto di me stessa e relazionarmi con gli altri in una modalità che ha davvero un non so che di magico.