Oggi 16 aprile 2022 è il giorno della Luna Piena di aprile, tradizionalmente chiamata LUNA ROSA. Il nome però non deve trarre in inganno: il nostro satellite, infatti, non appare affatto di quel colore, ma questa sera sorgerà con il suo solito colore dorato per poi prendere, più in alto, il suo aspetto argenteo. Il fenomeno astronomico è battezzato così perché legato alla fioritura di questa stagione di un muschio rosa, una pianta sempreverde i cui fiori rosa-magenta, in alcune regioni degli USA, formano vere e proprie praterie. Questo, come tutti i nomi della Luna Piena che usiamo ancora oggi, derivano dalla tradizione dei nativi americani.
RELAZIONE CON LA PASQUA
La Pasqua è una festa “mobile”, poiché, secondo quanto stabilito dal Concilio di Nicea, si celebra la prima domenica dopo la prima luna piena di primavera. Questo di oggi (alle 20:57 ora italiana) è il primo plenilunio dopo l’equinozio del 20 marzo scorso e quindi domani, domenica 17 aprile, sarà PASQUA.
UN DILEMMA!
Oggi, sabato, nel momento esatto del plenilunio, in molti Paesi del mondo in cui vige un fuso orario con ore ‘avanzate’ .. sarà già passata la mezzanotte e quindi sarà già domenica!; La Pasqua, dunque, in quei Paesi, (stando alla definizione!), dovrebbe essere celebrata la …domenica successiva!! 🤔
NOTA Nella Chiesa occidentale NON viene utilizzata la data ‘reale’ (quella astronomicamente esatta) dell’Equinozio di Primavera (quest’anno, ad esempio, è stato il 20 marzo), bensì una DATA FISSA, sempre il 21 Marzo (detto ‘Equinozio FISSO’) . Inoltre la Chiesa NON considera la ‘vera’ luna piena astronomica ma la LUNA ECCLESIASTICA (fittizia), basata su apposite TABELLE compilate e stabilite dalla Chiesa stessa. Questo criterio adottato dai cattolici permette di calcolare in anticipo la data della Pasqua e svincolarla dalle reali osservazioni dei moti astronomici che, per loro natura, sono irregolari e meno prevedibili. Grazie a questa ‘semplificazione’ si è calcolato la periodicità della sequenza delle date di Pasqua almeno per i prossimi 5 milioni e settecentomila anni !
Cieli sereni e.. Buona Pasqua PG
Nauru: La Repubblica più piccola del Mondo
NAURU è il nome di un’isoletta dell’Oceano Pacifico situata a metà strada tra l’Australia e le Hawaii, grande come un quartiere di una città (21 kmq) e abitata da circa diecimila persone.
E’ LA REPUBBLICA PIÙ PICCOLA DEL MONDO. Ottenne l’indipendenza dalla Gran Bretagna nel 1968 e divenne improvvisamente ricchissima grazie all’esportazione dei fosfati, abbondantissimi nel sottosuolo e dei quali il mondo ha bisogno come fertilizzanti. Nel corso di circa 30 anni, i minerali che hanno reso ricco il paese si sono però esauriti facendo piombare la nazione in una gravissima crisi economica. Così l’isola che fu definita dagli scopritori inglesi (1798) the Pleasant Island (l’Isola Piacevole) oggi è, per l’80%, un’ arida miniera a cielo aperto e con il 40% delle risorse marine compromesse dallo scarico dei detriti. Non ci sono quasi più gli alberi, l’acqua scarseggia, il cambiamento climatico e il conseguente innalzamento del livello dell’oceano la sta minacciando (l’altitudine massima dell’isola è di 60 metri s.l.m.). Il 90% della popolazione è disoccupato e il reddito pro capite è tra i cinque più bassi del mondo.
CURIOSITÀ Secondo uno studio condotto dall’OMS, l’importazione di cibo occidentale durante la crescita economica ha intaccato l’originaria cultura, anche gastronomica, essenzialmente basata sulla pesca e l’ agricoltura. La dieta non salutare e lo stile di vita sedentario sempre più diffuso tra i nauruani a partire dagli anni 1980, hanno portato la popolazione autoctona ad avere le peggiori condizioni di salute nella regione del Pacifico. Gli abitanti di Nauru detengono dei tristi primati: soffrono di obesità (70%), tabagismo (50%), diabete (40%) e alcolismo e hanno un’aspettativa di vita di 50 anni.
La bandiera di Nauru, in alto a sinistra nell’immagine, si compone di un campo blu (che simboleggia l’Oceano Pacifico), separato in due parti uguali da una striscia gialla orizzontale (l’Equatore). Sotto la striscia gialla, sul lato del pennone, è presente una stella bianca a 12 punte (tante quante erano le tribù originarie dell’isola) che rappresenta la posizione geografica di Nauru, appena un grado a Sud dell’Equatore. 🇳🇷
Mi spiace non parliamo di guerra in Ucraina e sembrerà un banalità parlare di quanto accaduto sul palco del Dolby Theatre nell’appena trascorsa notte degli Oscar, quando c’è tanta violenza, tanto sangue che scorrono a noi così vicino, con conseguenze e ferite che difficilmente si rimargineranno, ma mi perdonerete se non mi lancio in valutazioni di eventi che completamente mi sovrastano…
Torniamo quindi ad un evento di risibile portata mondiale, anche se per un po’ se ne parlerà, anche se entrerà negli annali dell’Academy e delle sue “Notti dell’Oscar”.
Parrebbe una sfida a singolar tenzone e certamente in tempi andati così sarebbe finita la cosa. Un schiaffo con il guanto (per il massimo disprezzo) e un rimando ai padrini per la scelta delle armi e una richiesta al “primo sangue” quando non all’ “ultimo”.
Forse e dico forse, Chris Rock in tempi di duello ci avrebbe riflettuto due volte nell’usare la sua lingua come spada. Già perché è risaputo, la lingua ferisce, affonda e può anche uccidere, ma a quanto pare la violenza del pugno di Will Smith, ha soverchiato l’altra, è assurta in quanto fisica, al valore di “inaccettabile”, ma è proprio così?
Intanto perché “pugno”, come ovunque piace scrivere? Se Smith avesse assestato un pugno a Rock, questi, nonostante il suo cognome, sarebbe certamente finito “a tappeto”, incapace di riprendersi tanto in fretta. E’ stato un SCHIAFFO quello che Smith ha dato a Rock e lo schiaffo ha un senso molto diverso, quando dato ha chi ha offeso o procurato offesa, perché non dimentichiamo che offesa e ferita c’è stata e non è che in nome della satira o della burla tutto può essere concesso.
Viviamo in un tempo di anime belle, dove ormai qualunque gesto può essere considerato “violenza” e solo più di recente consideriamo la violenza verbale, il ferimento gratuito e ingiustificato di sensibilità o di debolezze altrui, magari più a livello “social” che non in altri contesti come quello del monologo comico-satirico in questione.
C’è un’altra considerazione da fare: non era Smith il bersaglio della violenza dell’ironica, improvvida battuta di Rock, al ché si potrebbe dire “dai Will, incassa, prendi e porta a casa”, ma ad essere colpita è stata la moglie Jada. Colpita in un aspetto che già la fa soffrire e la mette in seria difficoltà.
Facciamo pure i pacifisti, ma chi non avrebbe reagito a difesa di chi si ama? Certo magari non fisicamente, magari con un bel fuck you Chris! Ma ognuno ha il proprio temperamento e Smith, trattenendo il suo, ha solo dato un bello schiaffone a chi irridente pensava anche di essere stato “comico”, mentre è stato solamente meschino.
Ma oggi è Will Smith, che dovrebbe chiedere scusa a Chris Rock, è lui il “violento” che rischia persino la denuncia e l’arresto.
Ma chiederà scusa Chris a Jada? Rischia forse lui la denuncia? Va bene così?
Beh, se va bene così, allora un bello schiaffone in faccia, se lo meritava proprio e se lo deve anche tenere.
Mario Barbieri, classe 1959, sposato, tre figli ormai adulti. Appassionato di Design e Fotografia.
Inizia la sua carriera lavorativa come illustratore, passando per la progettazione di attrazioni per Parchi Divertimento, negli ultimi anni si occupa di arredamento, lavorando in particolare con una delle principali Aziende Italiane nel settore Cucina, Living e Bagno.
Partiamo dalla fine (per così dire): The Batman dura 176 minuti – dueoreecinquantasei – una durata decisamente impegnativa, soprattutto abituati come siamo alle serie tv. Per cui, scegliete uno spettacolo comodo, fate un respirone e prendetevi un buon caffè.
Dico questo perché dopo averlo visto, e digerito, ho capito che ne è valsa la pena: nonostante sia finito all’una di notte, nonostante la sveglia del giorno dopo, per me merita la nostra attenzione.
Quindi, The Batman. L’uscita era attesissima e aspettando che arrivasse in sala si è parlato parecchio di questo come “il miglior Batman di sempre”. Tra tutti i supereroi, Batman ricopre un posto particolare: non ha superpoteri evidenti, se non il patrimonio di famiglia, ha una psicologia estremamente complessa e si muove in un contesto distopico sì, ma molto credibile e sempre attuale, quello del crimine e della corruzione.
Il Batman di Matt Reeves (già regista di Cloverfield e degli ultimi due capitoli della franchise de Il pianeta delle scimmie) è in un certo senso coerente con la visione illuminata di Nolan: è anche questo un film cupo, senza mezzi termini, crudo, che mette al centro una società distrutta da sé stessa e un grande approfondimento psicologico del suo protagonista e degli altri personaggi. Ma questo film è ancora più intimo, sussurrato, è lo stesso Bruce Wayne a guidarci con la sua voce fuori campo tra gli eventi e soprattutto tra i suoi pensieri durante scene bellissime e immersive, quasi come nella lettura del suo diario di bordo.
Veniamo ai personaggi. Una menzione speciale alla colonna sonora, che per me è super protagonista della narrazione. Tra tutti, due i brani che spiccano e ritornano mescolandosi fra loro quasi come in un valzer: Something in the Way dei Nirvana, che chiudendo il prologo mi aveva già conquistata, e Ave Maria di Schubert, per dare ancora più solennità all’immagine e tenere il livello di tensione sempre alto.
Robert Pattinson regge tutto il film con un’eleganza tutt’altro che scontata. Non è un playboy, non ostenta ricchezza – anzi, si nasconde nel palazzo Wayne – ed è schivo nei confronti delle occasioni mondane. Per la prima volta un Batman grunge. Ripenso agli smoking di George Clooney mentre guardo questo Bruce Wayne prendere in prestito i gemelli di Alfred per andare a un funerale nel suo abito stropicciato e nascosto da quel taglio di capelli anni 2000. Il look di questo Batman è simbiotico con una narrazione psicologica cupa e dignitosa, mai pedante: non indugia mai su pensieri ed emozioni, non apre squarci di coscienza, non ci lascia grandi lezioni di vita. Le cicatrici di questo Batman sono allo scoperto, alcune inedite, ma non spiattellate, facili.
Selina Kyle/Catwoman è la sua controparte femminile, interpretata da una bellissima e bravissima Zoë Kravitz. Non una valletta, non un’amante, non un’antagonista, ma una alleata decisamente all’altezza del “Campione maschile”, in perfetto equilibrio tra la sensibilità dell’animo e la forza e indipendenza di una donna che sa badare a sé stessa, senza rinunciare alle passioni e ai fantasmi del passato, mossa e motivata dal desiderio di giustizia per gli altri. Non dovrebbe stupirci nel 2022, ma di fatto questa Catwoman rappresenta una buona evoluzione nella rappresentazione femminile, anche in un blockbuster come questo.
Chiudo la triade sul cast con l’intensissima interpretazione di Paul Dano nei panni dell’Enigmista. Molto meno macchiettistico rispetto a come lo ricordavamo nella rappresentazione di Jim Carrey (sempre bravissimo), questo Enigmista è un serial killer degno dei più famosi horror movie, reso ancora più contemporaneo dalla componente terroristica, dall’uso delle tecnologie e dei media. Un gran bel villain.
Qualche cenno alla regia e alla costruzione del film. Non sono una tecnica e non pretendo di sbilanciarmi su questioni che non padroneggio, ma Matt Reeves ci regala effettivamente immagini molto belle, esteticamente curatissime e potenti, intense, in contrasto con il pudore dei dialoghi che, come detto sopra, non oltrepassano mai il limite in epiche esternazioni.
Ho colto un discreto numero di citazioni non esplicite alla cinematografia di Batman e non solo: un po’ il look and feel di Blade Runner, inquadrature anni ’90 alla Mission Impossible, inseguimenti alla Fast and Furious e cose così. Degli omaggi, più che altro, che a noi cinefili ci fanno bene al cuore.
Qualche difetto di sceneggiatura qua e là: perché il tiratore aspetta così tanto a mirare? Perché Selina non soccorre Batman ma indugia sul bacio? Imperfezioni. Il finale, invece, è proprio un fallimento – non potevo parlarne solo bene! – ecco, nel finale ci sono tutti quei 40/50 minuti di troppo che si approfittano della nostra concentrazione e appesantiscono la visione. Non ho una spiegazione per questo, forse come spesso capita non sono state fatte le scelte necessarie e si sono tenute aperte tutte le porte possibili, ma comunque non fila. Il pubblico inizia a essere stanco e i passaggi non sono abbastanza collegati fra loro, fatto sta che si esce dalla sala un po’ più frastornati del dovuto.
A parte questo, nel complesso, a me The Batman è piaciuto. E’ una storia che in fondo ci parla anche di noi. Questi tre personaggi si trovano a fare i conti con gli errori della generazione dei loro padri e nonni. Una generazione in cui il patriarcato e il capitalismo, al massimo della loro espressione, l’hanno fatta da padroni, ma che adesso sta rivelando tutte le sue falle. L’ultramachismo dei bei tempi andati (soldi, potere, fama) non ha generato ricchezza, rilascia invece le esalazioni tossiche del degrado sociale, della solitudine e della sfiducia. Il sistema ha delapidato la comunità e tocca agli eredi innocenti e disillusi assumersene la responsabilità: ma da questo nasce un nuovo sistema di valori che unisce tutti gli orfani nel comune obiettivo della responsabilità collettiva e della ricostruzione.
PS: sono già previsti due sequel e due serie spin-off.
Il mare e i miei viaggi. Un gin tonic e un hamburger. Jeans e maglietta bianca.
Da dieci anni mi occupo di promozione cinematografica e culturale, marketing e comunicazione. Ho co-fondato un concorso di illustrazione, sono legata alle tematiche femministe e tutti gli anni inizio (e abbandono) uno sport nuovo.
Qui scrivo degli ultimi film che ho visto e delle cose che mi piacciono.
2 gradi in più.
di Redazione Online
Se credessimo in coloro i quali sostengono che esiste una soluzione semplice per intervenire sul cambiamento climatico e sulle drammatiche conseguenze che questo comporta, saremmo delle persone credulone e romantiche, tanto per citare una vecchia canzone.
Il livello di attenzione che si è creato negli ultimi anni su questa questione che definire vitale è un eufemismo, comporta in estrema sintesi l’adozione di comportamenti tali che possiamo ,in sintesi, definire in due macro azioni: o si sposa il concetto dal punto di vista ideologico, mettendo a tacere la coscienza o, ancora peggio, si nasconde la testa sotto la sabbia.
In realtà il cambiamento climatico è un argomento dannatamente complesso, ed è un problema, una sfida enorme, che non ha precedenti nella storia dell’umanità, perché la soluzione passa attraverso una serie di comportamenti e decisioni che interessano sia l’uomo della strada, che le politiche governative planetarie.
Il mondo in cui ci stiamo abituando a vivere è basato sull’uso di combustibili fossili. Le emissioni di gas serra sono al centro dei nostri sistemi produttivi e il risultato che ne deriva è responsabile del cambiamento climatico.
E’ tutto collegato.
“Salviamo il pianeta” è uno slogan talmente sfruttato che ormai non viene più percepito. Quasi come una pubblicità che passa in tv e che distrattamente sentiamo senza nemmeno più ascoltarla.
La buona notizia è che il Pianeta Terra, grazie al cielo, continuerà a girare intorno al sole anche per i prossimi centomila anni, a prescindere dalla temperatura che lo scalderà o lo raffredderà, e di questo ne siamo tutti consapevoli.
Ma come possiamo fare in modo che gli abitanti del nostro pianeta e gli ecosistemi che ne fanno parte siano in grado di adattarsi ai cambiamenti che stiamo producendo e quindi sopravvivere in futuro?
Per risolvere un problema, qualunque esso sia, la prima cosa da fare è riuscire a centrare la questione in modo corretto e porsi le domande giuste che aiutino a sviluppare ragionamenti che, in un secondo momento, sappiano poi indirizzarci verso la corretta soluzione.
L’approccio, per quanto ci riguarda, ed è fermamente il nostro punto di vista, deve per forza essere di tipo scientifico.
Cosa significa ciò?
Significa fidarsi della scienza per fornire all’opinione pubblica e ai decision-making unit numeri concreti su cui ragionare. E subito dopo, bisogna creare le condizioni per far comprendere in maniera più chiara possibile questi dati spiegando, nella maniera più semplice possibile, i rischi che ne derivano se non si agisce per risolvere tali problemi.
Se “2 gradi in più” nella mente degli addetti ai lavori rappresenta un rischio serio, ma nella mente dei cittadini ciò vuol dire un maglione più leggero in autunno, allora vuol dire che abbiamo ancora tanta strada da percorrere.
Illustrare in maniera chiara senza troppi giri di parole qual è lo scenario al quale stiamo andando incontro, è un compito arduo soprattutto perché agli occhi di chi si deve impegnare per risolvere il problema, le decisioni sono da prendere immediatamente ma per un obiettivo i cui risultati non sono visibili in tempi brevi.
Il recente film “Don’t look up” ha saputo spiegare in maniera efficace cosa significa dover prendere decisioni difficili ad alto livello ma che non hanno un ritorno immediato in termini di popolarità. [n.d.r. Per chi non lo ha ancora visto, invitiamo “caldamente” a guardarlo].
Tornando a noi, per risolvere un problema sistemico e trasformarlo in una opportunità, la soluzione è quella di raccontare di un mondo futuro più sostenibile, più umano, e più rispettoso dell’ambiente e degli esseri che lo abitano.
Siccome, come dicevamo, non esiste una soluzione unica ma un insieme di azioni che, una volta indirizzate verso un obiettivo chiaro e facilmente comprensibile possono diventare una spinta costante e inarrestabile verso una filosofia diversa, una percezione della propria e altrui vita più giusta e corretta, allora si tratta di uscire dalla “non azione”, tirare fuori la testa dalla sabbia, e mettere in atto una serie di comportamenti e fatti che siano concreti e tangibili.
Lo sforzo è immane ma l’obiettivo primario almeno è chiaro: ridurre drasticamente le emissioni di gas a effetto serra, con determinazione e convinzione.
Non sarà un obiettivo a breve termine, e se non lo vogliamo fare per noi, almeno facciamolo per i nostri figli e le generazioni future.
La Redazione di FUORI invita a sostenere e divulgare Time for the Planet, società non profit creata nel 2019 da 6 imprenditori che hanno l’obiettivo di raccogliere 1 miliardo di euro per creare 100 imprese che agiranno contro il riscaldamento globale e i mutamenti climatici a livello mondiale.
Tutti possono diventare azionisti a partire da 1 €uro. Le aziende create hanno l’obbligo di rendere pubbliche tutte le loro innovazioni tramite l’open source e chiunque ha la possibilità di proporre un progetto a condizione che la sua finalità sia in linea con l’obiettivo di ridurre i gas serra su larga scala. I progetti vengono selezionati ogni trimestre da un Comitato scientifico che ne valuta la valenza e fattibilità e potenzialità di sviluppo.
Alla data di oggi ci sono più di 40.000 azionisti nel mondo e quasi 8 milioni di €uro raccolti.
Time for the Planet ha già creato, grazie a questi fondi raccolti, ben tre aziende attive nel contrastare i danni provocati dal cambiamento climatico.
Probabilmente la maggior parte dei fan dei vari STAR WARS e STAR TREK (e degli Spin-off , prequel e sequel ) non conoscono la serie che può essere considerata la prima, unica ed irraggiungibile in un epoca in cui la TV nelle case era ancora in bianco e nero, tranne rare privilegiate eccezioni.
Certo, bisogna avere oltre i 50 anni, oppure essere davvero dei cultori del genere,per ricordare ed amare UFO -SHADO ideata e prodotta in Gran Bretagna nel 1969 da Gerry Anderson.
La serie, a suo modo rivoluzionaria per temi e impostazione, fu una sorta di concept che servì in seguito alla successiva produzione di SPAZIO 1999 che ottenne altrettanto successo tra i fan di fantascienza.
Ventisei puntate totali, evoluzione cinematografica delle marionette di Stingray e Thunderbirds (1964) il format si avvaleva di una fantastica colonna sonora del musicista inglese Barry Gray ed era ambientata nel futuro ,allora prossimo (1980) , con ambientazioni visionarie e per quel tempo avveniristiche.
La trama era semplice e lineare: siamo nel 1980, la Terra è minacciata da una razza aliena che rapisce e uccide gli esseri umani e li usa come ricambi per sostituire parti del loro corpo. Un’organizzazione militare altamente segreta viene istituita nella speranza di difendere la Terra da questa minaccia aliena. Questa organizzazione si chiama SHADO (Supreme Headquarters Alien Defense Organization) e opera da un luogo segreto sotto uno studio cinematografico. Oltre a gestire una flotta di sottomarini, l’organizzazione disponeva di una base lunare (Moonbase), nonché un satellite di allerta precoce che rilevava gli UFO in arrivo. Gli UFO potevano essere distrutti nello spazio dagli Interceptor , lanciati direttamente da Moonbase o da uno dei sottomarini.
Nessun super eroe nell’organizzazione, guidata dal Comandante Straker (interpretato sempre dall’attore Ed Bishop, sia nella fiction, come nei film realizzati dalla serie per il cinema) ma persone normalissime, quasi degli impiegati , con tutte le caratteristiche delle persone comuni, con annesse le loro fragilità, paure e vite normali.
La caratteristica particolare era data dal fatto che la natura e le origini degli Alieni invasori non era mai svelata, fatta eccezione per alcuni indizi lasciati qua e là nelle varie puntate. Non si trattava comunque di Rettiliani o umanoidi grigi, ma persone del tutto simili a noi, fatta eccezione per il fatto che vivevano immersi in una soluzione liquida all’interno delle loro tute, il che dava loro un colore verdognolo.
In linea con i tempi per quanto riguarda la rivoluzione sessuale che in quel periodo modificava i tradizionali codici di comportamento, il look del personale della Base Luna aveva forti ed esplicite componenti erotiche, un perfetto mix misto tra lo stile Swinging London e quello che si pensava fosse l’abbigliamento del futuro.
A rappresentare questo aspetto affatto secondario nella serie, il character del Luogotenente Gay Ellis, interpretato dall’attrice e modella inglese Gabrielle Drake, esempio fulgido di bellezza britannica del periodo: personaggio, disincantato e disinibito, caschetto di capelli viola e abito argento con minigonna d’ordinanza, comune a tutte le soldatesse della base lunare della S.H.A.D.O.
Malgrado ci fossero stati precedenti illustrissimi in campo letterario e cinematografico, mai un simile prodotto con un simile soggetto era approdato ad una televisione generalista e quando questo accade, fu una grossa novità. Gli alieni di “UFO” erano, infatti, malvagi, determinatissimi, grandi conoscitori dei nostri punti deboli, militarmente e politicamente parlando, e solo con altrettanta determinazione e ferocia sarebbe stato possibile contrastarli.
Arrivati sulla terra dal loro pianeta morente per mezzo di piccole astronavi, velocissime, a forma di disco rotante, una sorta di trottole sibilanti che emergevano dall’oceano, dove avevano costruito delle basi sottomarine.
Chi conosce questa serie, perché l’ha vista a suo tempo in Tv o perché l’ha saggiamente recuperata in Dvd (ci sono in commercio due meravigliosi cofanetti con le versioni integrale di tutti e 26 gli episodi, restaurati dai tagli fatti a suo tempo dalla nostra RAI nazionale), non può non apprezzarne le molteplici intuizioni e previsioni in ottica tecnologica.
Le numerose innovazioni ipotizzate, di fatto, hanno anticipato la realtà che viviamo oggi. Il cercapersone, il cellulare, l’aria condizionata in auto, i Personal Computer, ma soprattutto Internet (il progetto ARPANET, nacque proprio nel 1969) che ha come data di nascita ufficiale il 1983!
Purtroppo, non sono riuscita ad andare oltre i 36 minuti, nella visione di Don’t look up, il film dell’anno.
Leonardo Di Caprio e Meryl Streep soliti mostri di bravura non sono bastati a trattenermi. Neanche Jennifer Lawrence, che pure mi piace molto e che nel film funziona un po’ come certi personaggi pirandelliani: l’unico sano in un mondo di matti. O come la bambina vestita di bianco nella Grande Jatte di Seurat, che ci guarda fra dame senza volto che pescano nel fiume col vestito della festa, scimmiette al guinzaglio e cani in libertà.
Il surreale. Quando cioè si dà veste realistica a qualcosa che non lo è, reale, con l’intento chiaro di ingrandire, enfatizzare, evidenziare un fenomeno per portarlo all’attenzione. Si prende qualcosa di irreale e lo si porta nella realtà, per fartelo guardare meglio e farti capire che tanto irreale non è. Perché si suppone che prima non lo vedevi.
Confuso com’era.
(La fine di una classe sociale e di un intero passato, in Seurat).
E che cos’è che dobbiamo vedere? Il modo malato in cui la nostra (ho dei dubbi su ‘nostra’: c’è molta american way of life), la ‘nostra’ società reagisce all’emergenza. Siamo stupidi. Non capiamo che le vicende sentimentali dei personaggi dei reality, gli scandali dei politici, le elezioni di midterm sono poca roba.
In confronto alla vita stessa sul pianeta terra.
Perché è di questo che si parla: di un evento sicuramente distruttivo dell’intera umanità di cui nessuno vuol sentire parlare.
E allora, ovvio, lo spettatore è preso dall’ansia di vedere trionfare il bene sul male: la preoccupazione per la vita del pianeta su quella per la rottura sentimentale fra due pseudo divi dei social. E mentre è preso da quest’ansia e capisce che è nelle mani di una dottoranda – perché il regista ha già fatto fuori, come credibilità, sia l’esercito che l’accademia – è però anche confortato dal sapere che no, lui o lei, lo spettatore o spettatrice (lo spettatore è uno che è informato, lo sa che il maschile non è inclusivo!) sicuramente reagirebbe in un altro modo! Se nello studio ovale ci fosse lo spettatore/spettatrice col cavolo che li avrebbe fatti aspettare ore su un divanetto, i due scienziati! Pagando pure venti dollari due snack e mezza acqua!
E con questo la trappola, per quanto mi riguarda, è già scattata: “cara spettatrice” – stavolta il regista parla con me – “eccoti un posto in prima fila per guardare lo spettacolo di quanto siamo stupidi! Dove ‘siamo’ è una simpatica e inclusiva bugia, lo sai, vero? Perché tu spettatrice non sei stupida, lo sappiamo! Non pensiamo certo che tu avresti difficoltà a spiegare al Presidente degli Stati Uniti come e perché una cometa ci distruggerà e lo sappiamo che tu non preferiresti avere una stellina tatuata sul braccio all’avere scoperto una cometa con un super telescopio, essendo al contempo una strafiga come Jennifer Lawrence! Tu, spettatrice, sei intelligente! “
Ed ecco perché ho preferito cambiare canale (anzi: uscire da Netflix; ‘cambiare canale’ rivela un boomer che non sono).
C’è – è innegabile – una certa gioia collettiva nello scoprirsi idioti, nel proclamarlo a gran voce, nel compiangere la fine morale dell’umanità che ne anticipa – di sei mesi – e anche forse legittima la fine fisica. Non ha torto Meryl-Commander in chief-Streep quando ricorda sarcasticamente quante riunioni di emergenza ha fatto, quante volte il mondo stava per finire e non è finito, quanti disastri ci sembrano ultimi e poi non lo sono. Quante volte dovevamo cambiare e non siamo cambiati.
Signora mia, non ci sono più nemmeno i disastri di una volta!
Quelli che mettevano paura davvero.
Questa gioia collettiva del dirsi pessimi non so se sia figlia del credersi salvi (siamo pessimi, ma io no, alla fine, ‘io’: sono buono/a) o se sia voglia di dare le colpe – e c’è un vasto campionario nel film di sicuri colpevoli, pressoché tutti – accantonando per un momento il fatto che come non c’è un pianeta B per i buoni così non c’è per gli innocenti.
O se sia infine l’orgoglio di averlo capito, quanto pessimi siamo. Non era difficile, invero. E anzi dovremmo sentirci mortificati dal fatto che sia necessario rendere caricaturali certi comportamenti perché ce ne accorgiamo. Quei 36 minuti mi sono sembrati come i telefoni coi tasti grandi, declamati a gran voce dalla ex bimba Cappuccetto rosso: telefoni per nonnini sordi e presbiti.
Dunque, mi pare di capire: già sapevamo che il Colpevole, dopo essere stato il Maggiordomo, era l’Esercito, era il Presidente, era la Stampa, era la Televisione. E noi gli Eroi (annovero con piacere l’ingresso dei dottorandi e degli ex professori-che-pubblicano fra gli Eroi, i quali erano già tipicamente ex-qualcosa: ex alcolisti, ex poliziotti, ex colpevoli). Ora dobbiamo aggiornare la lista: Influencer dobbiamo aggiungere, e anche Capi di Gabinetto. In attesa che diventino ex e dunque anch’essi Eroi. Non si può essere Eroi mentre si è qualcosa. Mi è chiaro anche questo. O prima, o dopo.
Scoccia ribadire l’ovvio, ma, laddove la scelta giornaliera non è fra l’estinzione dell’umanità e il litigio fra divi social, e noi non siamo l’Esercito degli Stati Uniti, la Carta Stampata e nemmeno gli Influencer di casa nostra, tocca andare sempre a distinguere, a districare, a scegliere, volta per volta, se e cosa dire sui social, se togliere o mettere il nostro stupido like, se essere furbi o intelligenti, generosi o scialacquatori, arroganti o determinati. Fare scelte un po’ sottili. Solitarie. Off-Netflix. Quando in ballo ci sono poste piccole, al limite dell’invisibile.
E anche, siamo chiamati, a distinguere le emergenze, e numerarle. C’è l’emergenzona e l’emergenzina. E l’emergenza di mezzo. Grigia. Pandemia è un po’ meno di Estinzione dell’Umanità e della Vita sulla Terra, un po’ più di Scandalo Porno-Politico. Surriscaldamento Globale è un po’ più di Pandemia. Variante Omicron un po’ meno di Variante Delta.
Il progetto ipotizza una monumentale “casa di montagna” che letteralmente si aggrappa ad una scogliera rocciosa. L’idea è concepita partendo dal totale rispetto della situazione naturalistica presente, mantenendo intatta la situazione degli alberi preesistenti nel sito individuato.
Per fare ciò, il progettista utilizza una serie di “scatole” impilate verticalmente o orizzontalmente. Queste file riescono ad intrecciarsi intorno agli alberi e lasciare in mezzo bellissimi e panoramici cortili. Una delle configurazioni più audaci di questo sistema è la pila verticale che forma una “C” che si affaccia dalla scogliera. L’organizzazione e la distribuzione degli spazi sul terreno e lo sviluppo verticale risultante è un insieme di volumi che si intrecciano e che generano dei vuoti e dei pieni in elevazione ed a sbalzo.
Il design della casa è organizzato per soddisfare le esigenze di famiglie “intergenerazionali”.
La parte inferiore è chiamata “la casa del figlio” e il livello superiore “la casa del padre”.
Un “figlio” potrebbe portare il partner e i figli a vivere al livello inferiore e avere abbastanza privacy per la sua famiglia, ma anche essere, allo stesso tempo, abbastanza vicino ai suoi genitori. Un altro livello è concepito come uno spazio comune in cui il progettista include attività ricreative per la famiglia allargata.
Il progetto segna una continuità creativa dell’architetto per le costruzioni che sfidano la gravità con una drammatica struttura che induce una sensazione di precarietà e paura.
La modellazione di questo progetto viene eseguita nel software 3-D MAX 2019 e , dopo aver completato la modellazione del materiale in V-RAY 4.1 è stato sottoposto ad una operazione di post produzione in Adobe Photoshop per ottenere un risultato perfetto e un rendering iper realistico.
Per ulteriori dettagli, vi rimandiamo al sito dell’architetto
Miladeshtiyaghi è nato nel 1994 a Teheran, in Iran. Dopo il diploma di maturità scientifica, si iscrive alla Facoltà di Architettura e consegue il Master in architettura sostenibile presso IUST (università delle scienze e della tecnologia iraniana). Dopo aver fatto esperienza in diversi studi di architettura crea il proprio studio nel 2016. Attualmente è operativo a livello internazionale.
Miladeshtiyaghi ha come riferimento culturale lo stile architettonico minimalista, verde e sostenibile.
Copia del Marzocco di Donatello. Firenze, Piazza della Signoria.
“Non so nemmeno io da quanto sono qui.
Certo da tanto tempo, ma francamente non potrei dirlo con certezza.
So che una volta eravamo in tanti, e ce n’erano di veri, di leoni intendo, in un serraglio.
Erano un omaggio al re di stirpe scozzese, governatore di Firenze.
Non so cosa sia la rabbia, l’ho vista forse in faccia a gente che duellava in piazza, oppure si ribellava al potere.
Non so cosa sia la gioia.
Probabilmente l’ho vista nelle espressioni di centinaia di persone che si riempiono il cuore della bellezza di questa piazza, unica al mondo. Le sue forme, la sua architettura, le sue statue. Lo stesso David, accanto a me.
Magari la gioia è quell’espressione che percepisco nei loro occhi.
Ho visto milioni di persone passeggiare, con interesse, con meraviglia, con indifferenza.
Ma non ho mai visto una cosa simile a ciò che mi è stato piantato di fronte: un albero secco, con dei tubi incastrati tra i rami avvizziti.
Non ho ben capito cosa sia la disperazione, l’ho vista poche volte, ma questo albero così rinsecchito, senza foglie, morto, mi colpisce.
L’albero a Piazza della Signoria, Firenze
Nel profondo.
Non mi spiego il perché.
L’albero mi ha fatto provare una nuova sensazione, una differente sfumatura di dolore: quella che ho visto in faccia alle centinaia di persone che hanno manifestato in piazza, recentemente.
Magari sono rimasti senza lavoro, senza fiducia… o senza speranza.
Questo l’ho capito, di gente in piazza (a parte quella che manifestava) ce n’è davvero di meno. Non so cosa sia successo, ma quest’abete, che troneggia di fronte a me con la sua maestosa afflizione, è come se racchiudesse il dolore che aleggia tutt’attorno.
Sono solo un leone, ma ho pensato che è davvero facile creare cose belle che si lascino ammirare; molto più difficile colpire allo stomaco, alle viscere, con un qualcosa che bello non è affatto.
Vuoi vedere che questo abete avvizzito è più coraggioso del David?”
L’albero di Penone è un’installazione voluta dal Comune di Firenze per rappresentare la metafora del Paradiso Dantesco, cioè “L’albero che vive de la cima/e frutta sempre e mai non perde foglia” (vv. 29/30, Canto XVIII, Paradiso, Divina Commedia).
“L’Abete in Piazza della Signoria – dice Penone – indica lo sviluppo del pensiero che è simile alla spirale di crescita del vegetale”.
Potrei continuare citando mille auliche elucubrazioni; sta di fatto che l’installazione è davvero (consentitemi), brutta e antiestetica, e per questo estremamente coraggiosa.
L’albero di Penone in Piazza della Signoria a Firenze
L’arte contemporanea di Penone non può fare altrimenti, in una piazza esteticamente perfetta, che porre un elemento “disturbante”.
E quest’albero, con i suoi tubi, lo è davvero.
Implacabile, non lascia nulla alla fantasia, al sentimento. È secco, diretto, ed affonda nel più profondo del nostro Io, scuotendolo e risvegliandolo dal torpore indotto dall’armonia rinascimentale di Firenze.
Questa profonda “rottura” del disegno architettonico non è mai stata più visceralmente contemporanea. La bellezza anestetizza, la bellezza è giusta (secondo numerose filosofie estetiche), ma ora non possiamo permetterci svaghi, né celebrazioni del bello.
I leader del 2021 dovranno affrontare il futuro con precisione chirurgica e visione etica, senza concedersi confortanti rassicurazioni.
“L’arte non è uno specchio su cui riflettere il mondo, ma un martello con cui scolpirlo”. (Bertold Brecht)
“L’Impero, una volta unito si dividerà’, una volta diviso si riunirà, così’ è sempre stato”
E’ con questa frase che si apre uno dei più importanti libri nella storia e cultura cinese, un libro che ha avuto un impatto così forte che si dice perfino il Presidente Mao ne avesse una copia con sé.
Il libro in questione e’ il Romanzo dei Tre Regni, ed insieme al Viaggio verso Ovest, i Briganti della Palude ed Il Sogno della Camera Rossa, e’ uno dei Quattro Grandi Classici della Letteratura cinese.
Il Romanzo e’ stato scritto da Luo Guangzhong e tratta della storia cinese dal 180 d.c. (praticamente durante il regno dell’Imperatore Commodo) al 280 d.c. (durante il regno dell’Imperatore usurpatore Procolo).
La storia parte dalla caduta della Dinastia Han e l’inizio della Dinastia Jin. Questo periodo, almeno all’inizio, e’ caratterizzato da diversi signori della guerra locali che si combattono tra loro cercando di riunificare il Regno ed essere nominati Imperatore o al massimo sopravvivere in un periodo di tumulto; Da questo caos, appunto, tre Regni Wei, Wu e Shu, con i loro Sovrani e generali si ergeranno e combatteranno per il dominio finale.
Il Romanzo, come opera letteraria puo’ essere paragonato un po’ all’Iliade ad ai racconti Arturiani, in quanto descrive un periodo storico ma ci inserisce tematiche fantastiche, come la magia; ma non e’ solo l’insieme del reale e del fantastico che porta a fare questa comparazione, è soprattutto l’uso di tropi letterari e l’utilizzo di personaggi come manifestazione di virtu’ e difetti.
Troviamo cosi’, a distanza di tempo e spazio con Omero e Chrétien de Troyes, personaggi che sono simbolo di virtu’ e vizi come lo sono Achille, Ettore, Lancillotto o Mago Merlino; nello specifico:
Liu Bei, il protagonista della storia, discendente indiretto dell’Imperatore Han, e colui che ha avuto la chiamata per ristabilire l’ordine. E’ descritto come un uomo giusto ed onorevole, tipo Re Artu’.
Cao Cao (leggasi Tzao Tzao), Signore del Regno di Wei, e’ il “nemico”, colui che attraverso macchinazioni politiche in stile Macchiavelliano riuscira’ a prendere il controllo della Corte. E’ descritto come manipolativo, scaltro ed altamente pericoloso.
Zhuge Liang, il mentore, l’uomo vivente piu’ intelligente, colui che riesce a creare piani dentro piani e si dica avere doti magiche tipo prevedere il futuro leggendo le stelle, come Mago Merlino per Re Artu’, lui sara’ la guida politica per Liu Bei.
Zhao Yun, che come Parsifal o Galahad, e’ il simbolo delle piu’ alte virtu’ cavalleresche, il classico cavaliere senza macchia e senza paura e che, si dice, nessuno e’ riuscito a battere in duello.
Zhang Fei, il classico personaggio iracondo tipo Achille, ed alcolizzato, e dotato di forza sovrumana.
Ma questi sono solo alcuni dei personaggi in questa epica, la storia copre un arco temporale notevole e molti, troppi, personaggi sono coinvolti.
C’e’ un pero’, anche piuttosto grosso. Come l’Iliade, anche il Romanzo e’ stato scritto anni dopo che gli avvenimenti sono effettivamente accaduti, cio’ comporta che molto di quello che e’ scritto non sia esattamente la verita’. Esistono infatti due scritti: “Gli Annali dei Tre Regni” e la sua espansione “Annotazioni agli Annali” che effettivamente raccontano cio’ che e’ accaduto in quegli anni.
L’epica di Luo Guangzhong, dev’essere vista secondo un ottica particolare, il suo intento non era proprio quello di scrivere la storia per se, ma usare la storia ed i personaggi come strumento per promuovere la cultura confuciana, e forse a quello di creare un epica. Questo ha portato a notevoli differenze di eventi storici e caratterizzazione dei personaggi stessi: molti dei personaggi sono stati totalmente tagliati fuori e molti altri “ridimensionati” in cio’ che effettivamente hanno fatto; altri hanno dovuto subire caratterizzazioni con connotazioni anche negative, partendo da Cao Cao in persona e si pensa anche di Yuan Shao; mentre altri sono stati esaltati molto di piu’ della controparte storica, in primis Liu Bei.
Ma nonostante le differenze, il Romanzo ha comunque portato tutti questi personaggi dalla storia al mito; ed il tutto nella cultura cinese. Il Romanzo infatti, ha avuto un impatto enorme nella societa’ e cultura cinese, tanto che gli effetti si vedono tutt’ora: alcuni modi di dire ed espressioni derivano da persone ed accadimenti descritti nell’epica; una parte delle opere teatrali si rifa’ al Romanzo, cosi’ come le maschere; sono state prodotte due serie televisive, diversi film e gli eroi sono comunemente personaggi di videogiochi.
“L’Impero, una volta unito si dividerà’, una volta diviso si riunirà, così è sempre stato”.
Note sull’autore dell’articolo:
Mattia Marchetti Aloisio 马天龙 vive in Cina a Ningbo, Zhejiang da oltre 20 anni ed è specializzato in Brand Identity | Archetype Branding | Customer Care | Social Media Manager.