L’unico modo per volare responsabilmente è non volare.


di redazione online_

credits: Claudia Vago [vago.fondazione@bancaetica.org]

Lo studio legale attivista ClientEarth ha citato in giudizio a maggio la compagnia aerea olandese KLM per una campagna pubblicitaria che, a suo dire, dà una falsa impressione della sostenibilità dei suoi voli e dei suoi piani per ridurre l’impatto sul clima.

La campagna “Vola responsabilmente” di KLM sostiene che la compagnia aerea raggiungerà l’obiettivo delle emissioni nette zero entro il 2050 e che intende utilizzare carburante sostenibile e aerei elettrici a partire dal 2035. Ma ClientEarth afferma che KLM sta violando la legge europea sui consumatori ingannandoli, poiché l’industria dell’aviazione non può raggiungere la decarbonizzazione senza ridurre la frequenza dei viaggi aerei.

«Il marketing di KLM induce i consumatori a credere che i suoi voli non peggioreranno l’emergenza climatica. Ma questo è un mito», ha dichiarato Hiske Arts, attivista di Fossielvrij NL, l’organizzazione no-profit olandese rappresentata da ClientEarth.

Fonte:web




Assuefazione.


di Andrea De Leo

L’uomo, inteso come essere umano, ha la capacità di adattarsi al mondo circostante. Ciò gli ha permesso, come specie, di sopravvivere e di arrivare a governare il pianeta.

Questa prerogativa –  di fronte a fenomeni straordinari, siano essi eventi naturali, catastrofi, o crisi sanitarie come quella recente –  rischia però di ritorcerglisi contro.

La sovraesposizione mediatica di questi eventi, e in questo assume una importanza fondamentale il modo in cui questi vengono presentati, potrebbe comportare una forma di assuefazione e di confusione tra la realtà e la finzione.

Mi è capitato di ascoltare, mentre vedevo in tv le scene degli afghani che camminavano nella neve con le ciabatte o addirittura scalzi, dei commenti divertiti di alcune persone che erano vicine a me.

La scena, indubbiamente, non aveva nulla di divertente, e credo che nessuna persona dotata di un minimo di capacità intellettiva, non avrebbe dubbi a definirla “terribilmente drammatica”.

Ho recentemente letto un articolo nel quale un noto psicologo si interrogava sulla ineluttabile perdita di empatia che molte persone hanno verso le tragedie di altri esseri umani.

“Assuefazione”, è la risposta che si è dato.

L’esposizione senza filtri, sia da parte dei media che dei social, di eventi drammatici che diventano ogni giorno più frequenti e la sensazione errata che questi colpiscano solo altrove, rende le persone incapaci di provare quella empatia che si dovrebbe sempre avere quando si vede qualcun altro soffrire.

Se ci fate caso, quando passano nel feed del vostro smartphone le pubblicità umanitarie che mostrano scene oggettivamente devastanti –  ad esempio bambini affamati o con ferite di guerra –  immagini sapientemente usate per stimolare il coinvolgimento emotivo al fine di ricevere donazioni – inizialmente, di fronte a questi video si assume una presa di distanza che è dovuta a sensi di colpa; ma poi con il tempo subentra una forma di indifferenza, direi una forma di generico cinismo, e si passa velocemente oltre.

Affaticamento emotivo di fronte alla sofferenza altrui?

«Le persone vanno semplicemente in una sorta di burn-out» affermava lo psicologo nell’articolo.

Una forma di superamento del limite oltre il quale una persona è andata oltre le sue possibilità di “empatizzare” con altri esseri umani.

Come ogni altra forma di eccesso, che causa una sorta di rifiuto del prodotto di cui si è abusato, l’esposizione alla sofferenza altrui può superare un limite oltre il quale ci si rifiuta di andare, di guardare o di sentire, e quindi si diventa totalmente indifferenti.

E se questa capacità di andare oltre si radicalizza nell’essere umano, ormai sovraesposto da troppe informazioni, l’empatia verrà sovrastata da una forma di apatia emotiva che renderà le persone non più coinvolte ed interessate ad essere solidali ed aiutare chi viene travolto da tragedie e disastri o , ancora peggio , verso persone o popolazioni che si trovano in condizioni di cronica sofferenza e che sono esposte a fenomeni di lunga durata, come il ripetersi di eventi naturali catastrofici o una lunga pandemia.

Se l’essere umano giunge al punto di accettare acriticamente e apaticamente tutte le tragedie che colpiscono i suoi simili, ritenendo erroneamente che queste capitino solamente agli altri, mostrandosi dunque indifferente ed  ignorando così tutte le contraddizioni della sua morale, allora la sua debolezza intellettuale non sarà più una eccezione, bensì una misera e condannabile  normalità.


Andrea De Leo



D’Amore dimore – Silvia Berton.

Memories_ Olio su tela e pigmento 150 x 120 cm

Intervista a Silvia Berton_

E’ in corso in questi giorni, fino al 30 settembre a Noto [SR] , “D’AMORE DIMORE” , la Personale di Silvia Berton.

E’ una mostra di una Artista poliedrica che arriva dalla fotografia, passa quindi alla Pittura, e inserisce, come in questa occasione, una esperienza  sensoriale e tattile con gli spettatori. 

Lo scopo è quello di ampliare ed integrare l’orizzonte di esplorazione della mostra tramite il coinvolgimento dello spettatore a livello personale.

Spero sia una occasione per ‘guardarci negli occhi’ vedere davvero l’altro…portare i miei lavori dal muro, alla terra, corpo“.

Silvia è veneta di nascita ma, dopo esperienze professionali a Milano e a Tel Aviv, si trasferisce a Noto, in Sicilia. 

Il suo stile, minimalista, è ricolmo di significati narrativi profondi e dal carattere molto forte.

Le sue immagini sono state esposte a Milano, Mantova, Brescia, Genova, Copenaghen, Nizza e Rotterdam.

La incontriamo all’ombra delle arcate di Palazzo Ducezio, location della sua Mostra, seduti sui gradini della splendida facciata.

Nella fotografia esistono, come in tutte le cose, delle persone che sanno vedere e altre che non sanno nemmeno guardare.

Imparare a vedere, è il tirocinio più lungo in tutte le arti. La fotografia per me è stata prima una opportunità professionale quando posavo, e poi un mezzo di espressione potente che mi ha permesso di imparare ad osservare, e che ho usato ed uso tutt’oraE’ il mio personale diario emotivolo sguardo se si guarda veramente, ti porta al di fuori del pregiudizio, ti distanzia dal conformismo che portano inevitabilmente all’ omologazione dell’individuo, cosa che itutti i modi vorrei evitare.

Se usata per comprendere e migliorarsi, è uno strumento anche terapeutico e di grande utilità.

Sono d’accordo, anche se spesso è usata in maniera inadeguata e sicuramente è abusata. Il fotografo ha la responsabilità del suo lavoro e degli effetti che ne derivano” 

La fotografia, dunque non è stata semplicemente un’occupazione. 

Non l’ho mai considerata solo come tale. Sia quando posavo, e poi successivamente usando la macchina fotografica, io ho sempre portato un megafono con il quale ho cercato di parlare senza usare le parole.

Quanto è importante cercare dentro sé stessi le motivazioni che poi ti ispirano per le tue opere?

“Non direi che è importante, forse la vera parola e’ urgente, necessario. Un dipinto mentre lo si fa travolge di rovinosa bellezza e incurante distruzione…ci lascia vuoti attorno , ma pienissimi nello sguardo e nell’anima.Riappacificati e pronti per la bataglia di un nuovo vuoto“.

La tua pittura è caratterizzata da un processo di riduzione della realtà, dell’anti espressività, da una apparente impersonalità e freddezza emozionale. Una sorta di riduzione minimale delle immagini che diventa una pittura estremamente raffinata, simbolica, sospesa tra sogno e realtà. Ti riconosci in questa descrizione? 

Io cerco di trovare la sintesi della forma, e questo vale sia per la fotografia che per la pittura. L’incongruenza naturale di un gesto, scarna di ricerca, virtuosismi , velleità artistiche . La discrepanza , un graffio , un taglio che apre finestre laddove prima c’erano muri compatti di colore e certezze, questa per me è bellezza“.

Possiamo aggiungere che una lucida irresponsabilità, una forma di anarchia e una latente disobbedienza intellettuale sono il “fil rouge” della tua produzione artistica?

Posso dire con convinzione che il principale nemico della creatività è il buonsenso“.

Mirabilis_Olio su tela e pigmento_150x150

Che il valore dell’arte dipenda solo o prevalentemente dal suo valore estetico è sostanzialmente una idea che ci piace pensare che sia vera. Ma, partendo da questo presupposto, come può avere successo un’artista che non tiene in considerazione primaria il valore estetico e magari si esprime attraverso corpi smembrati (è un esempio).

L’arte forse dice di un futuro…e non sempre piace. L’arte pone domande…e  non sempre piacciono“.

Il mercato dell’Arte è un mercato che viene spesso considerato sporco ed inquinato da interessi che nulla hanno a che fare con le emozioni che muovono un artista. Il rapporto tra i mercanti d’arte e l’Artista è davvero così?

E’ mercato appunto…merx “merce”….merce sentimentale …forse non è propriamente il giusto binomio…Non so se ti ho risposto…

Quindi a parità di talento è indubitabile che essere notati dal critico influente faccia la differenza, esporre nelle gallerie più importanti faccia la differenza, essere apprezzati dai collezionisti più capaci faccia la differenza e così via….

Cogliere queste opportunità, accettare il compromesso, può condizionare le libertà espressiva sottoponendo l’artista ad una sorta di “prostituzione” al successo. 

Personalmente,in cuor mio io la penso e la vivo cosìPer altri, con altre priorità, il pensiero può essere diverso e va rispettato“.

Il compromesso è una strategia che inevitabilmente è presente in ogni tipo di contrattazione, e dunque la vera domanda è, “sono disposto a scendere a ricatti”?

Ognuno ha il diritto ed il dovere di guardarsi davanti allo specchio e darsi una risposta. Fatto ciò può prendere una strada o l ‘altra in assoluta libertà, pace e coscienza“.

In qualsiasi mercato la manipolazione dei prezzi da parte degli operatori causa distorsioni, carenze ed inefficienza. Ma nelle sue caratteristiche peculiari , il mercato dell’arte primaria funziona e l’arte contemporanea genera decine di miliardi di dollari di entrate ogni anno. La domanda è : la manipolazione dei prezzi, paradossalmente, non sembra garantire una carriera stabile per le élite e per gli artisti.

La stabilità è importante perché molti artisti impiegano decenni per maturare e produrre i loro lavori
 migliori.Se non avessimo tempo di fronte a noi 
 per maturare, alla fine forse non potremmo produrre opere di livello….o semplicemente non potremmo mangiare“.

I commercianti e i collezionisti d’arte credono tutti di avere un ruolo decisivi nell’arte e per la vostra attività e, interessi finanziari a parte, sono preparati per questo ruolo perchè molti di loro sono veri esperti d’arte che vivono non solo di, ma anche e sinceramente, per l’arte. Praticamente trascorrono tutta la vita nel settore, si aggiornano, studiano la storia dell’arte e collocano l’arte contemporanea nel suo contesto storico. Questo gli va riconosciuto: sanno cogliere ciò che la maggior parte di noi “non addetti ai lavori”, non sapremmo cogliere.

“E’ innegabile e giusto che sia così. Questo è un settore nel quale le masse non sono decisive. Facciamo un paragone con un altro mezzo culturale, diciamo la tv per esempio, dove i gusti della maggior parte della popolazione determina la programmazione e la produzione futura. Se ciò accadesse anche nell’Arte, la richiesta del mercato si attesterebbe ad un livello omogeneamente basso.  La pittura, ma ogni forma d’arte e di cultura, è una cosa privata; si lavora solo per pochi. Può non piacere questo concetto, ma è un dato di fatto”.

A parità di talento e di qualità di contenuti, è corretto dire che sarà l’artista che più e più spesso si esprimerà, che si proporrà al pubblico, che si collocherà nelle “grazie” dei collezionisti che contano , ad avere un maggior e più duraturo successo?

” Il principio è lo stesso che vale per altre professioni. Se uno scrittore non scrive e non pubblica, non è uno scrittore, anche se ha talento. Inutile nasconderlo: creare arte è una libertà, ma come tutte le libertà per essere tale ha la necessità di dargli forma e sostanza, altrimenti resta una sacrosanta libertà ma individuale e basta, praticata per essere tale, e come tale, essendo alta, ben poco si interesserà ad essere riconosciuta e gli basterà essere vissuta solo da chi la crea”.

Da quello che abbiamo potuto comprendere osservando le tue opere, è che tu hai un profondo rispetto per te stessa ed un concetto di dignità molto radicato. A volte può sembrare una forma di ego, una considerazione molto alta del tuo lavoro e della tua vita.

In realtà forse ho grande rispetto di quello che amore e lacrime sanno fare e credo che vadano maneggiate con cura,sempre“.


D’AMORE DIMORE

Personale di pittura e arte performativa di Silvia Berton dal 03 al 30 settembre 2021 NOTO

Bassi Palazzo Ducezio – via Silvio Spaventa

La mostra sarà visitabile tutti i giorni della settimana dalle ore 17:00 alle ore 23.00.

Possibilità di apertura mattutina. Per informazioni o appuntamenti 346 8555 368 – prenota la tua performance

Evento realizzato nell’ambito della Rassegna “Percorsi di NOTOrietà” curata da Vincenzo Medica per Studio Barnum contemporary e Patrocinata dall’Assessorato al Turismo e alla Cultura del Comune di Noto.


Silvia Berton si avvicina al mondo della fotografia inizialmente come modella; presto però si interessa più al processo creativo che sta dietro l’obbiettivo, che non a farne da soggetto. Il suo stile, anche se di natura minimalista, rimane denso di carattere, forza e narrazione. Le sue sono immagini che chiedono di fermarsi, riflettere e lasciarsi assorbire. L’immaginario  compositivo sembra provenire quasi da un’altra dimensione e lascia un’impressione duratura. Le composizioni di Silvia creano un’atmosfera seducente e ci portano con lo sguardo in una storia che dobbiamo ancora capire. Quando osserviamo il suo lavoro ci sembra di scivolare nel sogno di qualcun altro: è reale, senza essere vero. E’ misterioso, passionale e quasi sempre ci lascia con un respiro in sospeso, senza raccontarci mai il finale della storia.




Il cielo è sempre più blu

Intervista a “Rob”, Roberto Paolo Pirani

di Marina Ruberto

Ci siamo conosciuti su Linkedin. Complice la nostra comune passione per Boris (se non lo conoscete, peggio per voi. Noi addicted stiamo aspettando la reunion).

Poi ci siamo messi a chiacchierare di cose più serie. E ho scoperto che “Rob”, Roberto Paolo Pirani, è un Fighter della sostenibilità. Un drago delle soluzioni tagliate su misura per le smart cities. Un super eroe dell’anti-spreco più ancora che del riciclo. Un portatore sano di economia circolare.

Così ho deciso di intervistarlo (previa telefonata di un’ora e tre quarti).

Primo perché dice cose buone e giuste. Poi perché le fa e, infine, perché così, magari, vi evito qualche “post matrioska”, di quelli che scrive lui: un post nel post nel post. Personalmente non sono mai arrivata all’ultima bambolina.

Cominciamo in leggerezza… che mi dici di Boris? Perché ti piace tanto?

Boris è l’Italia. Quella vera. Chi ha scritto Boris ha previsto praticamente tutto. Il monologo della Locura ci ricorda da più di 10 anni che “serve qualche cazzo di futuro…” e che gli equilibri politici possono dipendere (per dire) da un Senatore.

Il monologo della locura (Boris, la serie)

Al Regista René Ferretti viene fatto notare dal delegato di rete: “sai anche girare… ma ti manca la protezione politica”.

“E dai dai dai (pure a cazzo di cane se occorre), che si porta a casa la giornata!”. Risponde Ferretti. Anche se molte scene che gira sono povere e mono espressive, perché gli sceneggiatori non hanno voglia di lavorare e gli attori sono dei cani.

Boris è una critica mirata ai compromessi che impediscono di fare le cose come andrebbero fatte in Italia, ma facendo sorridere e, di conseguenza, pensare.

Nel 2009-2010 abitavo in una specie di residence, e un mio vicino che di mestiere sonorizzava cartoni animati è arrivato con una pen drive con le prime due serie complete. “Le DEVI vedere” mi fa. “Fidati”. (Nota: Ciao Sean, e grazie ancora!).

Credo che a molti della piccola massoneria di seguaci di Boris sia accaduto questo strano passaparola. Con ogni probabilità è la cosa migliore mai passata in televisione in Italia, insieme ai Mondiali di Spagna 1982. Ho rottamato il televisore nel 2009 e con queste affermazioni (intendiamoci) non voglio offendere nessuno, ma solo ribadire che chi ha scritto Boris è un Genio. Come Corrado Guzzanti che, non a caso, è parte della banda.

Veniamo a noi/te/. Quand’è nato il Rob paladino della sostenibilità? 

Non so di preciso da cosa dipenda, ma da che ho memoria sono sempre stato così. Si può parlare di inclinazione, credo. A 9 anni mi guardavo attorno e mi chiedevo perché Natale dovesse essere così consumista. Detesto gli sprechi. Il me bambino novenne non capiva perché gli altri non notassero una così palese mancanza di razionalità. Poi negli ultimi 30 anni “ambientalista” è stata considerata una parolaccia. Meglio che essere un esponente del Petrolitico, secondo me.

Nel mio piccolo, poche idee in compenso fisse, sono di parte. Parte minoritaria quanto si vuole, almeno in Italia. In altri Paesi UE pare proprio che non sia così.

L’unica volta in vita mia che mi sono sentito in maggioranza è stato quando abbiamo vinto i referendum 2011; è durata pochi giorni, poi abbiamo subito realizzato che al Parlamento (regolarmente eletto, per carità), della volontà popolare, non importa una beata mazza.

In ogni caso, dal momento che in Italia il Club di Roma non è stato preso sul serio per tempo, è troppo tardi per lamentarsi. Ognuno si impegni in qualcosa, o siamo fritti (cit Boris: “non è ironico”).

Mi dicevi che sei stato un attivista di Greenpeace. Raccontaci la “mission impossible” più spettacolare/eclatante a cui hai partecipato, dai!…Quella di cui vai più fiero.

Credo che nascere a Ravenna abbia contribuito alla mia formazione, anche per reazione ad uno status quo molto “business as usual”.

Ho deciso di aderire spontaneamente a qualche azione: legname insanguinato dalla Liberia, soia OGM… tutta roba che non doveva arrivare in Italia perché illegale, ma che arrivava lo stesso al Porto di Ravenna. Ho dato un piccolo contributo “attivo” tra il 2000 e il 2008. Poi c’è una età per tutte le cose…

Comunque colgo l’occasione per precisare che da quelle vicende sono stato assolto! Secondo gli Inquirenti fu (solo) “Esercizio arbitrario delle proprie ragioni”.

Durante l’azione più eclatante non sono servito (perché non facevo il climber). Il blocco della centrale di Porto Tolle, nel 2006, non fece notizia sui giornali italiani, ma all’estero sì. Per chi volesse…

In “discussione” era il “carbone pulito” della centrale (c’è un mucchio di gente che dovrebbe chiedere scusa, e magari, ritirarsi a vita privata. E invece fa come se niente fosse accaduto).

L’azione diretta non violenta è sempre stata meglio del pessimismo del pensiero. E conservo un bel ricordo di chi, al Porto di Ravenna, ci definiva “prepotenti gentili”. Di fatto ammettendo che avevamo ragione su diritti umani, commercio illegale, taglio a raso di foreste primarie, eccetera. Cosette su cui oggila EU intera, con un ritardo di decenni, è costretta ad interrogarsi per salvare il salvabile.

Come mai ti sei trasferito da Ravenna a Bassano Romano? Una scelta green anche questa o altro?

Ci sono diversi motivi. Anche per fare quello che volevo fare, a Ravenna sarei stato limitato. Dopo un anno su e giù dal Lazio quasi tutti i fine settimana, o si trasferiva la mia compagna o mi trasferivo io. Ecco, tutto qui. Sta di fatto che il mio socio, Paolo Garelli (che è siciliano di origine), l’ho conosciuto a Roma grazie ad amici comuni. È uno di quei non-casi che, col senno di poi, ti fa capire che hai fatto la scelta giusta.

Dopo aver cambiato alcuni Comuni sempre a nord di Roma, oggi risiedo al confine fra Roma e Viterbo. A Bassano Romano, appunto. Non essendo un albero, ho potuto scegliere (luoghi magnifici, sia detto per inciso). A circa un km da casa mia, hanno girato la scena della festa de La Dolce Vita di Fellini, i 15 minuti centrali del film. E anche una scena di Boris (il film), in cui si straparla del “microclima dell’Argentario…”

Parlaci di quando il lavoro “ti ha scelto”. È una frase che mi ha colpita, perché anche a me è successa più o meno la stessa cosa

Quando per anni fai un lavoro tecnico specifico, ma una parte del tuo cervello pensa altro, nel tempo libero studi altro, vedi troppe cose che non ti convincono… poi o ti dedichi alla tua inclinazione o, credo, vivi molto male. Io mi ritengo fortunato perché amo il mio lavoro. Non c’è un corso di Laurea che insegni a dimensionare i servizi applicando l’intera normativa vigente. S’impara un po’ dai Maestri (ne ho avuti) e un po’ ci si mette del proprio. In ogni caso un diploma da Geometra mi ha dato le basi della disciplina necessaria per.

Nei tuoi post su Linkedin parli spesso di “economia collaborativa”.

Ci spieghi qual è la tua visione e il significato dell’espressione?

In realtà sono concetti già codificati in ambito EU, anche se in Italia non se ne parla. Più o meno come quando, 15 anni fa, l’economia circolare era sottovalutata. Per chi ha voglia di entrare nel merito, ci sono due articoli sull’economia collaborativa nel mio feed.

Parte prima, maggio 2020:

Parte seconda, ottobre 2020:

In sintesi, mettere a sistema diverse competenze, significa lavorare nel miglior modo possibile. Se ci pensiamo, per costruire un edificio in classe A (o superiore) non servono solo le competenze per realizzarlo, ma prima serve un Geologo che impedisca di buttare soldi su un terreno inadatto ad ospitare quell’edificio.

Cosa pensi sarà necessario fare nei prossimi dieci/vent’anni per assicurare un futuro al pianeta?

Ci sono talmente tante cose da fare che personalmente consiglio di ascoltare gli Scienziati. IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change), l’agenzia Onu per il cambiamento climatico, ha vinto un Nobel per la pace nel 2007, e non per sbaglio.

O perlomeno, come illustra in modo brillante una recente trasmissione di Sky “Impact”, il 97% degli Scienziati del mondo spiega che il cambiamento climatico è di origine antropica.

Cioè: colpa nostra e a noi umani riparare i danni.

Rob, parlaci della tua rivoluzione culturale a misura di smart city. Cos’è “WormApp” e a chi è diretta?

È una piattaforma operativa sia fisica che tecnologica in cui vengono “messe a sistema” molte competenze e diverse professionalità. È stata pensata per soddisfare qualsiasi esigenza (anche di orari) nei luoghi più complessi a livello urbanistico: centri storici e adiacenze, luoghi turistici, quartieri con ridotta o ridottissima viabilità di accesso. Dove gli spazi non ci sono e non si possono inventare.

Con l’utilizzo della piattaforma si riducono i costi (calcolati un terzo in meno rispetto ai più noti e non sempre applicabili servizi domiciliari) e si favorisce il passaggio alla mobilità elettrica, pedonale e a due ruote. La città diviene a misura di bambino, non a misura di auto. Un luogo piacevole e ordinato dove incontrarsi, nonché l’occasione per erogare molti servizi di interesse pubblico o di business per il cosiddetto “ultimo miglio” (il percorso della merce da un centro logistico alla sua destinazione finale, n.d.r).

In sintesi WormApp vuole far uscire le città dalla paralisi dovuta ad un approccio caotico rimasto al 1999. Le leggi della fisica (leggasi “impenetrabilità dei corpi”) non sono aggirabili. O si razionalizzano e ottimizzano i servizi e i passaggi dei mezzi, o le città NON     saranno mai “intelligenti”. Nel video illustriamo come si gestiscono molteplici servizi grazie all’interazione tra pubblico e privato. Un nuovo approccio in cui i diritti sono bilanciati dai doveri, e viceversa. Guardatelo: è più facile.

In pratica…?

In pratica con WormApp, a 1/2 minuti a piedi da casa, si trovano moltissimi servizi che normalmente non sarebbero garantiti, se non paralizzando la circolazione. Pensiamo ad un corriere che parcheggia sul marciapiede perché non ha alternative (a rischio multa…).

Si ottimizzano gli spazi nelle città tramite postazioni identificate sia in modo digitale che fisico, dove i servizi vengono erogati nelle 24 ore.

Insomma: molto di quanto è necessario compiere per aumentare la qualità della vita nelle città. Luoghi turistici compresi.

Dietro c’è moltissimo lavoro utile e diverse tecnologie su cui non sto a dilungarmi qui.

So che l’Italia è piena di estimatori delle cabine telefoniche, dei tecnigrafi, o (per citare il grande Lucio Dalla) dei Linotipisti. Lavori e attrezzature anacronistiche che non tornano perché non possono tornare: il mondo è cambiato con la rivoluzione digitale. I dati possono essere gestiti dal pubblico per interesse pubblico, o essere ammonticchiati in piramidi con in cima Zuckerberg e pochissimi altri. Tocca scegliere.

Dov’è utilizzata, WormApp, per ora?

Oggi WormApp (direttamente o indirettamente) è applicata in 7 Regioni italiane. Ma, per ora, ne è compresa e utilizzata solo la punta dell’iceberg: i servizi di igiene ambientale.

La sfida in cui siamo impegnati dal 6 ottobre 2020 (da quando WormApp è un brevetto europeo) è applicare l’intero iceberg.

Molte cose si muovono, siamo abituati a parlare solo di risultati, non di auspici.

Vorrà dire che ci risentiremo per scoprire come è andato il primo vero anno.

La nuova società è stata costituita 3 giorni prima del lockdown nazionale: il 5 marzo 2020.

Voglio ricordare che WormApp è disponibile e applicabile anche in “emergenza”. Ad esempio, durante un lockdown, per ricevere la spesa o conferire materiali differenziati: attività che la Legge considera incomprimibili (e cioè da garantire a tutti) all’interno delle città.

Capito tutto, Rob. Ti ringrazio del tuo tempo. E Boris ringrazia per lo spottone. Ora che fai?

Vado a scartoffiare parecchio. Ma incombenze positive, per fortuna…

Ci diamo un cinque virtuale e ci salutiamo.

Roberto Pirani

www.wormapp.it

Per tutta la chiacchierata ho canticchiato fra me la canzone di Rino Gaetano.

Gente come Rob autorizza a pensare che il cielo possa diventare davvero sempre più blu.




Sassi nel Cuore

Una rubrica a cura di Marina Ruberto

Eccolo.

Lo riconosco.

Inizia il male al piede.

Si irradia, da sotto la pianta e sale, sale sino alla gamba.

Ragiono, non devo irrigidirmi, devo lasciare andare, rilassarmi, proprio con il dolore pungente.

Interessante: una metafora da riutilizzare, questa.

Devo ricordarmela.

Corro, corro ogni mattina, non mi importa se piove, se ho il vento contro, non mi interessa, ho le ali ai piedi; più è difficile e più mi impegno, mi hanno insegnato così.

La bimba è seduta con il capo chino. Si guarda le gambe, sotto il tavolo. 

Non sa cosa fare. 

Non si permette di parlare, la situazione è tesa, tesissima, ma lei non capisce.

I bambini non capiscono i grandi, soprattutto quando urlano e buttano i piatti in terra, o ti guardano con l’espressione da pazzi furiosi, gli occhi fissi, la pupilla dilatata.

La bimba è ferma, immobile, quasi non riesce a mangiare dalla tensione che percepisce, e non sa darsi ragioni.

Così rimane ferma, immobile, impaurita. 

A breve arriverà lo scoppio, la rabbia.

A breve tutto sarà sottosopra. Meglio, perché poi … sarà finita. 

53 anni, una cena tra amici, ed eccola: la stessa bambina a testa bassa che si guarda le gambe e non proferisce parola.

Accanto ha Luca: bellissimo, altissimo e pericoloso. 

Borbotta tra sé, Luca, borbotta qualcosa, mentre gli altri parlano allegramente, e lei, la bimba, ha paura.  Ha paura perché in ogni momento può succedere ciò che lei sa bene. 

Lo scoppio. 

L’ira. 

Lo sguardo assente.

La bimba è a testa bassa.

La bimba è terrorizzata.

Dalla pianta del piede il dolore sale, e arriva al ginocchio.

Chissenefrega.

Passerà…

Non irrigidisco, anzi mollo, è proprio ora di mollare.

Penso…

Lacrime scendono sul volto della bambina, chiusa nella sua camera, nessuno deve vederla. Lei piange sempre da sola, si concede questo lusso, e nessuno la consola. 

“È meglio così, sono debole, non sono forte, piango, ho bisogno di aiuto, ed in fondo è colpa mia. 

Magari ho fatto qualcosa di male, magari non sono brava… magari… boh…meglio così… non mi vede nessuno… passerà…”

Ho le ali ai piedi, ed i sassi nel cuore.

53 anni, ed ancora irrimediabilmente irrisolta, debole, piagnona, proprio come quella bimba.

Nessuno a consolarmi.

Piango da sola, in camera.

Magari è solo colpa mia, magari dovrei essere più forte…

Cazzo.

Chi se ne frega di tutto…

A testa bassa, vicino a Luca che borbotta, “Bellissimo – dicono tutti – è l’uomo per te…” dicono loro. Io lo odio. 

Mi fa soffrire.

Borbotta e mi guarda con astio.

È assolutamente imprevedibile.

Per fortuna il coprifuoco, guardo tutti, saluto:

“Mi spiace ragazzi, è tardi”…. li mollo, attorno ad un tavolo rotondo, a parlare di me, che non si sa cosa abbia, che sono stata troppo muta.

Si fottessero.

Ho solo bisogno di coccole, e, se non le avrò, mi tufferò nel mio letto, mi metterò la mia fantastica crema, e guarderò un film bellissimo. 

Pensando di sfuggita a quella bimba, che, in fondo, aveva solo bisogno di un abbraccio. 

Un cazzo di fottutissimo abbraccio.

Sassi nel cuore. Un racconto di Freccia.

Graffi. Una rubrica a cura di Marina Ruberto




Al Confine.

Un racconto di Ludo D.

Rubrica a cura di Marina Ruberto

Esiste una sottilissima linea tra avere rispetto per sé stessi e vivere unicamente per sé stessi. Tra il voler migliorarsi e l’essere avidi. Tra l’indirizzare e il manipolare. Tra il proteggersi e il nascondersi. Tra l’esigenza di soffrire e il masochismo.

Tra l’amore e la dipendenza.

Esiste una linea ancor più sottile tra un bivio ed una scelta.

Sono tutti sottilissimi confini che non andrebbero mai oltrepassati ed io li avevo a volte per scelta a volte per casualità valicati tutti.

Sono Luna e ho 36 anni. Di cui 7 vissuti a Londra, da dove ho portato a casa qua e là qualche errore nella costruzione e, a volte, nella forma italiana. Ogni viaggio ha la sua valigia che, puntualmente, quando ritorni è un po’ più piena.

Non sono una persona speciale, ma ho quel super potere che hanno tutte quelle persone che amano attraversare le frontiere. Ci passano attraverso come quando i fantasmi passano attraverso le porte. Lo fanno e nessuno si accorge che ci sono passati. Senti un soffio e poi non lo senti più. 

Avevo un passaporto con pochissimi timbri, non ero una viaggiatrice incallita forse perché ogni paese era diventato casa per un po’ o forse perché quelle poche testimonianze di passaggio erano la prova certa che mi ero mescolata con la “popolazione locale”.

I viaggi per me non erano mai stati dei veri spostamenti di quelli transoceanici, ma piuttosto uno stare.  Non c’è bisogno di allontanarsi troppo per visitare posti nuovi. 

Amore e dipendenza. Casa.

Mi capitava spesso di perdermi nei miei pensieri, e di divagare con la mente alla ricerca di un passato sepolto, in ricordi, profumi e sensazioni, accantonati in un angolo di un cassetto che avevo riposto ed abbandonato tra polvere e cartacce, con la speranza di non dover mai più riaprirlo e riviverlo. 
Altre volte si faceva più forte e viva la necessità di toccare, riscoprire e rivivere quel che era stato, nonostante il timore che la sofferenza fosse più forte che mai.
Mi resi conto che il momento di intraprendere il viaggio era arrivato e che sebbene mi fossi illusa di poter continuare a ritardarlo ancora e ancora, non era più possibile farlo.

Mi rincorreva come un’ombra, attento ad ogni mio passo e ad ogni mio cambio di strada o direzione.
Mi obbligava ad inciampare come quando da bambino cerchi di scappare e ti si slacciano le scarpe e perdi tempo a rifare il nodo.
Ebbene: da dove dovevo ripartire, qual era l’inizio di tutto?
Lo trovai e lo persi continuamente, per poi riscoprirlo in punto del tutto differente da quello che avevo trovato in precedenza.

Tentai di chiudere gli occhi e di visualizzare quel che restava. 

Li riaprii come se non lo facessi da tempo, perché mi ero dimenticata quale fosse la sensazione di un risveglio improvviso in piena notte.

Sveglia, sudata e affaticata mi lasciai portare dove molti non vogliono andare.

Una stanza che puzzava di prigione. Le gambe semiaperte e appoggiate sul pavimento gelido, gli occhi fissi nel vuoto.

Ero seduta lì e ci rimasi per un bel po’.

Mi diedero un foglio ed un pennarello, quelli neri con la punta doppia. Disegnai un imbuto.

L’imbuto da cui mi sentivo risucchiata e da cui non riuscivo ad uscire nemmeno liquefatta o trasformata in polvere. Sarei rimasta esattamente dov’ero.

Avevo una fottutissima paura.

Il corpo, oramai reso irriconoscibile dalla malattia, non era più il mio.

Tutto scorreva troppo velocemente intorno a me e il mio tempo stava per finire.

Ossa e sottilissimi strati di pelle avevano ora lasciato posto a spessi e dolorosi ammassi di grasso.

Ebbene, la vita mi diede ciò che avevo chiesto: un lungo viaggio che a volte sembrava dare una risposta alle mie tante domande, altre sembrava portarmi in tutt’altra direzione. Negandomi ciò che pochi attimi prima mi aveva concesso: la speranza.

Piccole cicatrici da cui ancora sgorgava vivo e pulsante il sangue che aveva un tanfo così forte di vita e di morte. 

Sapevo benissimo che la strada non sarebbe stata lineare, che ogni mio sforzo non sarebbe stato ricompensato in automatico. Lo avevo messo in preventivo.

Sono nata a Napoli il 13 di giugno 1984 e ho sempre saputo di avere la tendenza a sviluppare dipendenze. La cosa più straordinaria è che ne sono sempre andata fiera, perché mi piace l’idea di appartenere a qualcosa anche di malsano.

L’amore, l’abnegazione…la necessità di soddisfare i bisogni altrui, mi trascinavano nella continua ricerca di tante piccole manie da cui non riuscivo a slegarmi.

Sono cresciuta in una bellissima casa con il parquet lucido, mobili pregiati e tanti ninnoli che mia madre collezionava con l’innato gusto che il nonno le aveva tramandato.

Tutto era perfetto, tutto al posto giusto.

I quadri ai muri erano centrati e perfettamente distanziati, come anche l’amore era centrato e perfettamente distanziato.

Lo era così tanto che non riuscivo ad avvicinarmici. Come a quel bellissimo mobile bull che troneggiava fiero ed immobile nel nostro salotto, circondato dai suoi fedelissimi divani angolari finemente tappezzati di seta.

Ero una bambina felice per quanto una bambina affamata può esserlo.

Decisi, quindi, che prendermi cura dei miei genitori era la strada giusta per sopperire alla fame.

La notte mi appostavo fuori alla camera dei miei genitori per controllare che non nessuno lasciasse il suo posto e ripetevo quasi come un’autistica la stessa frase: “Siete svegli?”

Era una cantilena che doveva infastidirli così tanto da farli smettere di litigare per tornare a dormire.

L’indomani avrei trovato tutto come doveva essere: le camicie di papà (che mettevo come vestiti) mi avrebbero trasmesso quel senso di ammirazione e pace che solo un profumo da uomo può dare.  La mamma, ancora mezza addormentata, si sarebbe presa il solito bacio del buongiorno da papà.

Sarebbe andata in cucina a bere il caffè e papà si sarebbe preparato per andare al lavoro con il suo completo blu fatto su misura. 

Crescevo nonostante i miei sforzi, ma il mobile bull rimaneva sempre immobile.         E quindi decisi, nonostante fossi ancora una bambina, che la scelta più intelligente sarebbe stata quella di spostarmi io e trovare un modo per aggirare tutta quella staticità.

Ecco che trovai il mio migliore amico: il cibo.

Ore ed ore a cucinare a memorizzare tutte le ricette che avrei poi preparato per i miei genitori, senza mai assaggiare. 

L’immaginazione è quasi sempre meglio della realtà!

Cucinavo, contavo e ricontavo grammi e calorie di cose che forse non avrei neanche osato guardare.

Di lì a poco il resto della mia vita fu accompagnato dalla fame, dal dolore e dall’ autodistruzione.

Il Natale, così come tutte le festività, era una prova difficilissima. Quindici persone intorno al tavolo, leccornie di ogni tipo e io che cercavo di capire se e come potessi concedermi qualche sorta di gratificazione e (soprattutto) come poi avrei dovuto fare per eliminare ogni sensazione di piacere.

Passavo le ore nel bagno chiusa a chiave, accovacciata vicino alla tazza.

Il resto del tempo lo passavo a vivisezionare tutto quello che accadeva intorno.

Le nocche delle dita lacerate dalla pressione dei denti sulla pelle, la gola con quel sapore amaro di vomito che era diventato il mio unico modo di espiare qualche colpa e di celebrare qualche vittoria.

La mia bellissima casa così lucida e rifinita, i lunghi e folti capelli di mia madre, l’eleganza di pensiero di mio padre erano un’eredità che avevo acquisito senza nessun merito.

Mi è stato insegnato che i doni bisogna meritarseli.

L’esigenza di soffrire: Luna.

Avevo anticipato che non sono mai stata una grande viaggiatrice e che non sono una collezionista di timbri né tantomeno di foto. 

Non mi è mai piaciuta l’idea che si debba fotografare qualcosa per ricordarlo.

Sarà che sono sempre stata così attenta che difficilmente qualcosa mi sfuggiva, anche se sarebbe stato decisamente meglio il contrario.

Non sono neanche mai stata una collezionista di persone. 

Mi piace pensare che chi per sbaglio inciampa nella mia vita abbia, in fondo, bisogno di me.

Essere specchio è un compito difficile. Riflettere un’immagine nella sua interezza, bellezza o mostruosità, è qualcosa che mi ha fatto sempre un po’ paura, ma a cui non sono mai riuscita a rinunciare.

Avevo solo 10 anni quando iniziai a guardare il mondo in bianco e nero. Un po’ come gli animali che non vedono i colori o le sfumature e possono esprimersi solo in due modi: con tristezza o esaltazione. 

Per le bestie non ci sono le sfumature.                                                                                                                                                        

Le vedi inebriate da una sensazione di invincibilità, esaltazione allo stato puro o con occhi tristi e pieni di rassegnazione dilagante, mendicanti di carezze e attenzioni.

Ero come loro. Lacerata dalla mia ambivalenza. Ho sempre sentito la felicità come qualcosa di assoluto così come la tristezza.

Questa ero io: bestia. 

Selvaggia e coraggiosa, mi sembrava di aver già vissuto troppe vite.

Avevo l’espressione di chi non si sarebbe mai accontentato della prima stesura di una storia, della prima versione dei fatti, di una sola faccia della medaglia.

Viaggiavo in mille posti e restavo in quella terra di nessuno che è confine.

Fosse stato solo quello avrei anche potuto recitare una parte, ma la bestia era un’altra e mi riconcorreva da tempo.

Conosceva le mie abitudini, i miei posti del cuore. Mi osservava attentamente e aspettava il momento in cui (come spesso facevo), avrei attraversato uno dei tanti “paesi” che mi ero proposta di visitare.

Sarebbe stato solo questione di tempo. Mi avrebbe azzannto alla gola, dritta alla carotide ma senza stringer troppo perché il suo intento era quello di avermi per sempre, non di metter fine alla mia vita. 

Crescendo capii che io e la “bestia” avremmo viaggiato insieme, zaino in spalla, trekking dopo trekking, distese di verde, prati all’inglese, barche sole in mezzo al mare e soprattutto labirinti di foreste.

Sono sua e lo sarò per sempre. 

In fondo non mi dispiace affatto.  Grazie alle sue continue interruzioni, agli incidenti di percorso, alle occasioni mai sprecate, sono cresciuta come volevo: attaccata alla vita, alla sua bellezza e crudeltà.

Eccomi qua. Luna, 36 anni, niente di speciale.

Proteggersi e nascondersi

Era il 2002 quando decisi che avevo bisogno di aiuto.

Ho sofferto di disturbi alimentari per 12 anni. Ricordo chiaramente quella sensazione di non potere, non dovere, non deludere, non assaporare, non meritare. Era tutto un “non”, ma ricordo con ancora più chiarezza il sentire tutto un po’ di più, il vedere un po’ di più, l’amare un po’ di più.

Mi nascondevo con la scusa di proteggermi che, alla lunga, fu la mia condanna.

Ricordo esattamente quando decisi che il gioco aveva bisogno di qualche spettatore.

Fu una sera in cui, dopo aver espiato le mie colpe in bagno, decisi di lasciare la porta aperta. 

Dovevano trovarmi, qualcuno doveva aprire quella cazzo di porta. 

Avevo smesso di giocare a nascondino e volevo finalmente proteggermi. 

Iniziai a correre in pigiama verso il salotto, accesi tutte le luci e mi rannicchiai sul divano vicino al bellissimo mobile bull che mi sorrideva come a dirmi “lo sai che da qui non mi sposto”.

Nessuno capì cosa avessi, ma abbracciata al collo di mio padre dissi solo: “Non ce la faccio più, ho bisogno di aiuto, qualcuno mi aiuti. “

C’erano giorni in cui mi grattavo così forte la testa che sanguinavo per giorni e, per rimarginare le ferite, ci buttavo su una polvere cicatrizzante bianca che sembrava borotalco ma bruciava come i miei pensieri.

Decidemmo che dovevo farmi visitare da una super psicologa con anni e anni di esperienza.

Ricordo con esattezza l’entrata del palazzo: un edificio della nobiltà napoletana con un cortile spazioso che affacciava su un bellissimo giardino. Papà mi aspettò giù.

Una donna magra, austera, vestita di grigio mi aprì la porta del suo elegante appartamento.

Mi sedetti su una poltrona e lei di fronte a me. Fu l’ultima volta che ci sedemmo così una di fronte all’altra.

Scriveva su un taccuino, mi faceva poche domande a cui io rispondevo con pochissime parole. Annotava tutto, anche i miei silenzi.

Non ho mai pensato che qualcuno potesse salvarmi e, sinceramente, non avrei mai permesso a nessuno di farlo. Era una partita che stavo giocando da sola e con me stessa.

Accanto a me restavano solo brandelli.

Brandelli di ricordi, di vita non vissuta, brandelli di cibo e vestiti. Mi bastavano.

Quanto avrei potuto resistere, quanto potevo tirare quella sottilissima corda, per quanto avrei potuto contenere tutto quel dolore?

Quanta rabbia poteva implodere dentro di me?  

Per quanti anni il mio corpo-macchina sarebbe stato in grado di reggere quello che gli stavo facendo? 

E, soprattutto, fino a dove potevo spingermi?

La risposta furono 12 lunghissimi anni di dottori, psicologi, nutrizionisti, viaggi all’estero, centri di riabilitazione; ma anche di alcuni angeli custodi che resteranno per sempre la più bella e pura forma d’amore che potrò mai sperimentare.

Fui ricoverata due volte, fui anche avvisata (molto più di due volte) che oramai il corpo non reggeva più.

Mia mamma, ogni tanto, entrava in camera da letto e mi passava una mano sulla bocca per vedere se respirassi ancora o no.

Le ossa del sedere erano così sporgenti da obbligarmi a usare un ciambellone per evitare le piaghe da decubito.

Le caviglie spesso si piegavano impedendomi di camminare ma io rifiutavo fino all’ultimo grammo di cibo che abitava ingiustamente il mio corpo e continuavo passo dopo passo la mia marcia punitiva.

Avevo in testa un gran casino.

Volevo farla finita. Un paio di volte ci provai con scarsi risultati: la varechina non funzionò e nemmeno i diuretici ed i lassativi.

Entravo sempre nella stessa farmacia e chiedevo del Lasix. “E’ per lei, signorina?” “No è per mio nonno diabetico”. Stessa farmacia, stessa scusa. Sempre più occhiaie e sempre più spettro.

Avevo anche l’abitudine di masticare e sputare il cibo nella pattumiera.

La notte mi svegliavo e rovistavo per recuperare il cibo che avevo sputato poco prima. Avevo una gran fame.

Sentivo sempre una voce dalla regia: sussurrare:” Lascia perdere il cestino dei rifiuti per stasera, non rovistarci dentro. L’ho svuotato.

Domani lo troverai di nuovo pieno. Almeno per stasera non metterci le mani dentro. È vuoto”. Ma io, testarda, non ci ho mai rinunciato.

Ed ancora aggiungeva: “Ti lascio perché ci rincontreremo stasera o domani. Forse è meglio vederci domani che stasera non ti vedo in forma” Una condanna, o una promessa? Non era così importante.

Le parole erano vomitate, riciclate. L’amore era ritagliato.

Soffrivo come un cane e volevo punirmi di sentire tutto quel dolore. 

Le ore passavano lente, talmente lente che l’unica cosa che mi restava da fare era contare le righe del parato della mia camera da letto. 

Escogitavo piani di fuga da me stessa e, non trovandone nessuno, mi seppellivo nel silenzio.

Per due anni smisi di parlare.

Mi stavo scavando una fossa così profonda che nessuno mi avrebbe mai più trovato.

Il limite non era più limite e il confine tra il dolore e l’autolesionismo lo avevo valicato da un pezzo.

Mi avvolgevo nuda nelle lenzuola pulite che profumavano di speranza. Seduta sul ciglio del balcone in quelle bianchissime lenzuola. Rimanevo lì, con il vento in faccia, per più di un’ora, guardando una strada gremita di gente.

Vivevano, ridevano, piangevano. Le strade di quartiere sono meravigliose da “vivere”, io però volevo solo sporgermi un po’ di più e mettere fine a tutti quei pensieri che si intrecciavano senza una via di soluzione

Una mattina qualcosa cambiò. Dissi solamente: “voglio andare a tagliare i capelli, mi accompagni papà?”

Avevo deciso di tornare a vivere.

Un profumo di orchidea che fuorusciva dalla scatola dei biscotti fu uno dei presunti segni che forse non era ancora tutto perduto.

Chiudo questo capitolo ricordando le orchidee e la gente che parla ad alta voce. Quella he dà fastidio agli altri, come me. Perché le lenzuola con cui tentavo di nascondermi ora le metto a prendere aria e profumano sempre di nuovo.

Le relazioni

Tra un viaggio e l’altro incontrai anche gli uomini. Alcuni mi hanno spezzato, altri avevo deciso di salvarli e altri li volevo scomporre e ricostruire.

“Accese una sigaretta e la lasciò bruciare in una tazza da caffè che usava come posacenere fino a quando non si spense.

Aveva l’aria disinteressata e lo sguardo fisso, le gambe incrociate su di un tavolo e le dita ingiallite dalla nicotina.

Lo guardai e capii immediatamente che non era uno sconosciuto.

Lo riconobbi.

Accennai un sorriso sperando che anche lui mi riconoscesse ma non fu così, non lo fece mai.

Ed è così che rimase per sempre uno sconosciuto.”

Un fiore sa di essere un fiore, così come una persona senza una gamba sa di averla persa. Io non ho mai capito cosa fossi e cosa mi mancasse.

Ho sempre pensato di essere un problema che va risolto in un modo o in un altro.

Il mio rapporto con gli uomini è sempre stato complicato non tanto perché mi sia mai aspettata molto, ma perché non mi sono mai aspettata nulla. Qualcosa di riciclato e ritagliato da un abito vecchio era più che sufficiente.

Resistere alle mancanze, alle manipolazioni fisiche e psicologiche, resistere alla privazione, resistere alle assenze è sempre stato il perimetro in cui mi sono mossa con naturalezza fin da bambina.

Il perimetro che ci hanno insegnato a costruire a scuola in matematica, è uno spazio circoscritto e ben delineato all’interno del quale c’è possibilità di calcolo precisa.  Le variabili X, Y e Z sono tantissime ma non infinite.

L’equazione matematica ci permette di calcolarne anche la sua più piccola parte ma non possiamo fuoriuscirne. Nella vita invece ogni perimetro può e deve essere ridisegnato.

Ho ridisegnato infiniti perimetri che mi ero costruita da sola, con la speranza di ritagliarmi un posticino dove poter essere me stessa con qualcuno, chiunque fosse.

Imparai a concedermi spazi aridi e senza linee definite dai quali è facile sia scappare che restarci incastrati.

Ci fu il primo che mi buttò a forza fuori dall’auto, quello che aveva problemi di droga e con cui pensavo di poter condividere la mia necessità di farmi del male, quello per cui ho sfidato la mia famiglia e che era così fragile da aver bisogno di me per tutto, quello che era il miglior “partito d’Italia”, ma mi usava come discarica emotiva e quello di quasi vent’anni più grande di me che aveva fascino ma nessuna sostanza e che mi ha fatto in mille pezzi.

Massimo aveva 36 anni, io 16. Mi venne a prendere a casa di una mia compagna di classe e mi portò a casa sua, dove diventai un’adulta. Scoprii successivamente che era un uomo violento rinchiuso nella sua bellissima villa con giardino.

Una volta mi chiuse il braccio nel portello della macchina e mise in moto. Il braccio rimase fuori per qualche metro.

Amedeo era un ragazzo di buona famiglia. Mia madre era contentissima, i suoi genitori mi adoravano così come la sorella, che diventò un’amica vera. Era depresso e mi costringeva a comprargli la droga nei quartieri spagnoli altrimenti non mi parlava per giorni e mi massacrava con insulti e crisi isteriche.

Nick era ricco da far schifo ma pieno di problemi. Uno che, se non avesse avuto il cognome che portava, non avrebbe combinato mai nulla.  Si “travestiva “da guerriero e per sopperire al senso d’inadeguatezza, aveva deciso di vivere secondo un codice di lealtà e compassione, a lui del tutto sconosciuto.

Ho anche convissuto a Londra per 6 anni. Una relazione lunga e dolorosa (interraziale, credo si dica così) dove avevo il compito di prendermi carico di tutto: dalle bollette ai mille tradimenti ad una famiglia che, per il colore della mia pelle bianca, non mi ha mai accettato. Esiste il razzismo anche al contrario. Ricordo di essere andata in quella casa di famiglia con regali e sorrisi, ma le porte delle camere da letto restavano sempre chiuse ed io sempre sola in cucina a giocare con i bambini.

Stefano faceva l’elettricista o il petroliere; questo dipendeva dalla situazione.         Un uomo di 18 anni più grande di me che mi ha spezzettato e vomitato nella solita pattumiera.

C’era complicità, notti a parlare di vita e di esperienze che ci hanno cambiato. Una moglie trofeo da esibire e un mondo costruito ad hoc per reggere una parvenza di solidità e perfezione che nulla aveva a che fare con la realtà.

La sera si usciva. Mi dovevo vestire come una prostituta, ci guardavamo negli occhi mentre lui possedeva un’altra ed anche più di una. Era, a detta sua, una cosa speciale che ci univa e ci avrebbe unito per sempre.

Thelma e Louise, Bonnie and Clyde pronti ad una nuova avventura fino alla fine della notte. Perché se per me quella era vita, per lui era una notte e poi un’altra ancora.

Bellissimi ristoranti e io che mi ostinavo a fargli dei regali per farlo sentire amato nonostante non ne avesse assoluto bisogno. Ero una fonte di energia. Bella e torbida allo stesso tempo, ma sincera.

Ho creduto che anche lui, come gli altri, avesse bisogno di me per riscoprire se stesso ed imparare a guardarsi allo specchio come meritevole d’amore e di accettazione.

Nonostante tutti i miei sforzi, anche lui rimase uno sconosciuto. Non mi sorrise mai e non imparò a farlo.  Non ne aveva mai avuto intenzione.

Resistere, resistere e ancora resistere. Dovevo resistere e provare a me stessa che resistevo.

Sono nell’angolo del ring, il paradenti è andato, ma ti prego: sferra l’ultimo colpo. Non ci sarà mai il KO.

Il Piacere

“Sempre lei Luna. Luna che si nasconde, luna che si mostra solo per metà. Luna che non chiede quando svelarsi e quando celarsi. A volte i paesaggi migliori sono quelli che nessuno riesce a vedere così come le lune quelle piene e quelle sbeccate.”

Sono dipendente dalle dipendenze e questo è un fatto, così come è un fatto che questo mi piaccia.

Ho sempre avuto l’esigenza di andare fino in fondo, sempre più in fondo alle cose, alle perversioni, alle ossessioni e a me stessa.

I grovigli dell’anima che a tanti spaventano, per me sono l’unica benzina possibile.

Ho usato ed abusato il mio corpo in tutte le forme e modi possibili, passando da un cumulo di ossa ad un ammasso di strati di grasso posticci e imparando, in seguito, a ostentarlo per dare piacere.

Entrare in una stanza e sentirsi come un pezzo di carne da masticare, ha sopperito all’esigenza di controllo che prima esercitavo con il cibo.

Ho conosciuto il sesso all’età di 14 anni, piccola e già affamata.

All’età di 17 mi svendevo in qualche locale al primo cretino di turno che mi sembrava essere sufficientemente vuoto da poter contenere tutta la densità che già mi portavo dentro.

Una sera, d’estate, mi ritrovai risucchiata da un divano e da una bocca sudata che puzzava di un misto di birra ed erba. Non riuscii a liberarmene e non volevo. Salimmo in terrazza e ci rimanemmo per un’ora.

Tornai a casa e mi sedetti fuori, sulla sedia a dondolo di vimini del balcone, con le cuffie nelle orecchie. Sfilai i tacchi e scoppiai a piangere. Lo facevo praticamente tutte le sere. Mi volevo riempire. Volevo sentire tutto su di me: le mani, la bocca e soprattutto la rabbia.

Non ho mai creduto di essere l’unica a sentirsi vuota e furiosa. Né ho mai creduto che gli “altri” (i “normali”) avessero trovato la loro “dimensione interiore”.

Fu un’estate particolare, quella. Ero finalmente come tutte le mie coetanee: svestita quanto basta, leggera quanto basta e facevo sesso con chiunque quanto basta.  Ero una di loro, ma segretamente mi allontanavo sempre più da me stessa. Iniziai a tirare la corda ma, purtroppo, all’altro capo c’ero sempre io che conoscevo il gioco e sapevo strattonare quando dovevo e allentare un po’ quando c’era troppa tensione. Un tiro alla fune in tensione perfetta. 

La partita doveva andare avanti all’infinito.

Dopo quell’estate, mi ammalai e non ci fu più il sesso, solo un vero e proprio blackout. 

La lampadina si fulminò definitivamente e decisi di cambiarla solo dopo molti anni.

Usiamo tutti il nostro corpo per dare un messaggio all’altro o per sentire un po’ meglio noi stessi, per viverci un po’ di più e per superare qualche limite e paura.

Ho capito crescendo che il sesso può essere un modo di comunicare molto diretto e crudele ma soprattutto fonte di piacere, uno scambio di energia, di passato e presente. L’ho provato e sperimentato in ogni sua forma. A volte è stato occasionale, altre volte svilente. Altre ancora mi ha fatto conoscere il mio partner e le sue ossessioni, paure e manie. Ed anche le mie. Non ho mai avuto tabù. D’altronde, quando scendi all’inferno, il paradiso non è più così attraente. I santi non mi sono mai piaciuti così come le santificazioni.

Si può essere sé stessi nella propria interezza lasciando andare il proprio corpo al piacere, qualunque esso sia e come meglio si crede.

L’amore per sé stessi è parte integrante di questo percorso di accettazione che passa, è passato e passerà dal galleggiare, annaspare e dimenarsi in acque profonde.

E mentre prima entravo nella stanza facendomi scegliere come un agnellino pronto ad essere sacrificato, ora (sempre con qualche difficoltà) provo ad entrare nella stessa stanza lasciando una scia di buon profumo e una striscia di rossetto.

Il mio vissuto e tutta quella densità che prima mi faceva sentire pesante, ora me la porto dietro come un vestito di quelli trasparenti, misteriosi.

Le fughe

 Ed ecco la solita voce dalla regia incalzare

“Cara,

Mi auguro che tu ricordi le nostre passeggiate insieme. Quando mi chiedevi di stringerti la mano e, con quelle piccole dita, afferravi la carne che scivolava via come unta d’olio. 

 Sai, io non ti ho mai voluto bene ma neanche ti ho odiato, non ti ho mai amata ma neppure mi sarei permessa di lasciarti. Cosa ne sarebbe stato delle nostre passeggiate, dei bagnetti senza sapone profumato, delle case delle Barbie che non ti sono mai piaciute?

Ti scrivo ora per dirti che mi manchi un po’. Non ti ho mai persa di vista e non potrei mai dimenticarti.

L’hai capito che non si chiede permesso per un caffè? Hai capito che non si ringrazia sempre e comunque? Hai capito che, se cercano di stuprarti la vita, non devi ringraziare?”

Chi conosce Napoli sa che si mangia benissimo. Ad ogni angolo, in ogni piccolo vicoletto trovi una pizza a portafoglio, un crocchè o una buonissima pasticceria.

Le sfogliatelle calde, le pizze che strabordavano di pomodoro e mozzarella filante erano per me un luogo di culto.

La sera scappavo dalla porta blindata di casa.  Pesavo solo 34 kg ed era facile nascondermi nei vestiti. Tuta di 3 taglie più grande cappello con visiera ed ero pronta per scappare.

Facevo bottino di tutto il cibo possibile, mi sedevo su uno scalino vicino al museo in mezzo agli extracomunitari e iniziavo a trangugiare tutto quello che avevo comprato. Intorno a me un cimitero di cartacce sporche, avanzi e vomito.

Mi schiaffeggiavo come per prendere coscienza di me stessa, abbassavo la visiera del mio berretto, sguardo fisso al pavimento e ritornavo verso casa.

Negli anni ho sempre avuto la stessa fame. Fame di vita e soprattutto di verità. E’ così che l’anoressia, gli amori malati e il masochismo sono diventati amici inseparabili. Insostituibili.

Tuttavia, ho imparato, con il tempo, che mi è concesso godere di qualcosa di buono, che abbia sapore, odore e consistenza

La famiglia

Sono figlia unica. In casa siamo sempre stati solo noi tre anche se, a dir la verità, è sempre stata molto più affollata.

Mia madre è cresciuta in una famiglia numerosa (due fratelli ed una sorella), tanto unita da farti sentire a volte isolata, altre volte risucchiata.

Vivevamo tutti nello stesso palazzo. Il nonno materno aveva comprato, con tanti sacrifici, 4 appartamenti per ciascun figlio.

Credo che mia madre, ad un certo punto, abbia dimenticato di aver creato un proprio microcosmo che, quindi, si reggeva in piedi solo sulle nuvole.

Spesso, nel periodo in cui soffrivo di anoressia, le ricordavo “siamo noi la tua famiglia: io e papà!”. Una donna buona ma piena d’insicurezze, che non ha mai imparato a sganciarsi da tutta una serie di dinamiche distruttive che, anche se non lo ha mai ammesso, le hanno provocato molta sofferenza.

Le ho sempre voluto bene anche se ho nutrito tanta rabbia. Come me anche lei aveva avuto difficoltà a guadagnarsi uno spazio nella sua affollata casa e per questo se lo era preso tutto nella nostra.  L’ho protetta ed odiata allo stesso tempo, sentivo la sua sofferenza, il senso d’inadeguatezza verso se stessa come se fosse un po’ anche il mio.

Perfetta per chiunque fosse “normale”, ma non per me. 

Ho capito negli anni che due persone affamate non possono prestarsi del cibo, ma devo imparare a starsi accanto senza rubarne l’una all’altra. La nostra comunicazione è sempre stata interrotta da questa avidità di attenzione, tempo e spazio che mi relegò, per forza di cose, in un angolo che scelsi con cura.

Mamma si occupava di mia nonna che non è mai cresciuta.  Papà si occupava di mamma, che richiedeva “l’assoluto tutto”. E io mi occupavo di loro. Un vaso rovesciato da cui l’acqua cadeva sempre ed inevitabilmente sul tavolo: una disgrazia.

La nonna è sempre stata abituata ad avere qualcuno che si occupasse di lei anche quando era giovane e mamma, la primogenita, l’ha sempre dovuta accudire e custodire come se fosse una bambina.

Avevamo un citofono interno tra le due case.  Noi abitavamo al quarto piano e i nonni al sesto. Ogni giorno, al ritorno da scuola, andavo in camera mia e trovavo puntualmente mia nonna che dormiva nel mio letto e quindi mi rifugiavo in qualche altra stanza.

Anche d’estate era la stessa cosa: vivevamo tutti insieme e fino all’età di 15 anni, la mia camera da letto fu il soggiorno.

È assurdo pensare che in 180 mq di casa, non sapessi dove stare e che, nonostante avessi una stanza mia, non potessi chiudermici dentro. Tutti avevano un posto a disposizione tranne me.

Dicono che io e papà siamo molto simili, testardi e decisi. Anche lui non ha avuto compito facile in tutta questa faccenda. I ruoli sono sempre stati capovolti e lui si è trovato ad essere mamma, papà, amico e nemico allo stesso tempo. Doveva prendersi cura di me, di mio nonno, di mia mamma e un po’ di tutti.

Questo me lo ripete da quando avevo 10 anni “sarai in grado di prenderti cura anche di tua madre”. Ho sempre sentito questo senso di responsabilità verso di lui e verso tutti e, allo stesso tempo, l’esigenza di rompere degli schemi assolutamente malati. “Interrotti”.

La domenica, quando iniziai a star meglio, ci davamo appuntamento. Mi truccavo e andavamo a cena. Si sceglieva il ristorante e, con la musica di sottofondo e la sua mano che proteggeva la mia mentre cambiava le marce, si arrivava a destinazione. Era un appuntamento che gli piaceva sicuramente più delle nostre disperate trasferte dai medici che avrebbero dovuto salvare la sua unica figlia. Papà mi accompagnava dappertutto, lo avevo scelto per condividere un po’ del mio dolore.

Quando iniziai a soffrire di anoressia anche il nonno si ammalò di cancro. Un tumore doloroso che sembrava essere guarito ma che, come tutti i bastardi, tornò pochi anni dopo.

Passavo le giornate nel letto perché non riuscivo a camminare. Svenivo di continuo. Ricordo sorridendo, come in un film comico i posti più assurdi dove sono collassata: un negozio di cravatte fatte a mano, fuori dalla scuola e mentre giocavo a Trivial a casa di amici.  

Mamma, essendo la figlia maggiore, si prese carico di curare e far compagnia al nonno che peggiorava a vista d’occhio. Passava le giornate seduta ai piedi del letto, misurandogli la febbre e cambiandogli le pezze fredde sul piede diabetico. Cercava di dividersi tra me e lui.

Saliva con l’ascensore al sesto piano e ci restava anche una giornata intera. Ogni tanto scendeva a casa per controllare che non stessi facendo qualche cazzata e poi risaliva. Mi lasciava sempre il telefono vicino al letto. Io restavo lì in pigiama a contare le righe del parato domandandomi perché fossero così tante.

Tutti, comunque, ci siamo presi cura del nonno.

Papà lo accompagnava dai medici, e accompagnava me dai vari dottori, psicologi e nutrizionisti.

Il nonno morì dopo 10 anni di malattia, ma non andai al funerale.

Non perché non lo amassi, anzi. Negli ultimi tempi parlava pochissimo, non abbracciava mai nessuno, ma credo che quando si soffre veramente ci si capisce anche senza abbracciarsi. La realtà è che non riuscivo a vedere altra morte: era sufficiente la bara che mi stavo costruendo.

Nel 2011 decisi che volevo essere ricoverata. Mi stavo giocando un’altra carta. Non ci credevo molto ma come diceva il nonno ero troppo intelligente per non provarci. Fui ricoverata a Todi per otto mesi.

Partimmo con la macchina e con una canzone della Nannini …” sei nell’anima e qui ti lascio per sempre, seduto immobile”. Scoppiai a piangere e mi infilai con la testa tra i due sediolini frontali allungando le mani verso i miei genitori.  Non avevo paura, ero solo esausta.

Nella clinica c’erano delle sbarre alle finestre, messe per la nostra incolumità.  Per i primi 4 mesi non parlai con i miei genitori. Queste erano le regole e ovviamente le rispettai. Mai vomitato, mai preso un lassativo, mai fatto niente di autodistruttivo.

Ho visto tante di quelle cose in tutti questi posti, che ci vorrebbe una vita per raccontarle tutte. Non sono i fatti, né i luoghi che ricorderò.  Ma la disperazione e le persone che abbraccio sempre segretamente.

Finii il mio percorso e ritornai a casa. Nulla era cambiato. Il mobile bull era sempre lì: “lo sai che da qui non mi sposto”.

Gli Angeli Custodi

Quando soffri di disturbi del comportamento alimentare, vieni spesso ghettizzato. Mi sono sentita dire “ma non ti piace mangiare?”,” Pensa ai bambini in Africa o a quelli che hanno un tumore”. Mia madre tutt’oggi mi dice: “ti sei fatta venire l’anoressia, ci siamo impoveriti per colpa tua”.

Non esiste un protocollo di cura per la DCA. Neanche uno sperimentale.

L’anoressica, così come la bulimica, va a tentativi, brancola nel buio. Provi gli psicofarmaci per curare la depressione e l’ansia, ti affidi allo psicologo che ti aiuta a capire dove ti fa male e ti arrabbi con i tuoi cari che non possono e non vogliono vedere.

Anche io sono andata a tentoni ed è vero sono stata una giovane donna molto costosa.

Facevo terapia psicologica quattro volte a settimana.  La maggior parte delle volte ne uscivo distrutta, altre volte ero talmente debole che non riuscivo a parlare.

Insieme alla terapia avevamo trovato un dottore che aveva dedicato la vita alle “ragazze interrotte” come me. Il Mio Dottore.

Più che un medico è stato un nonno. Magro, elegante nei modi e, nel vestire, così raffinato da riempire la stanza e il mio cuore vuoto di serenità.

Sono stata in cura da lui per 10 anni. Ricordo con esattezza il suo studio, riceveva in una clinica privata di Napoli dove ci vedevamo due volte a settimana.

Perdevo peso con una velocità inaudita e quindi monitoravamo l’andamento ad inizio e fine settimana.

La mia preparazione per la visita era sempre la stessa.

Dovevo andare in bagno la mattina per defecare, utilizzare sempre lo stesso abbigliamento e indossare anche lo stesso intimo. Tutto questo in previsione della temibile pesata.

Arrivavo in studio, il dottore mi abbracciava e mi chiedeva come fosse andata la settimana e poi via tutti i vestiti.

Un piede e poi l’altro, senza respirare, salivo sulla bilancia senza guardare. Non ho mai voluto vedere il peso, il mio metro di giudizio era toccarmi le ossa che sporgevano e misurarmi i polsi con le dita.

Il dottore era dottore e custode anche al di fuori del suo studio. Avevo il suo numero di casa e potevo chiamarlo sempre e a qualsiasi ora.

Un Natale dopo la cena, mi chiusi in bagno per ore e vomitai così tanto da escoriarmi la gola e iniziai a spruzzare sangue. Rimasi abbracciata alla tazza per ore, piangendo, chiusa a chiave.

I miei genitori provarono in tutti i modi a farmi uscire. Mia mamma piangeva seduta fuori dalla porta che mio padre prendeva a pugni per la rabbia e l’impotenza.

Lo chiamarono al telefono ed io aprii la porta. Me lo passarono e, subito dopo, mi infilai sotto le coperte nel letto dei miei genitori, come se avessi ancora cinque anni.

Voglio chiudere questo capitolo ringraziando la mia famiglia con cui litigo sempre ma che amo profondamente e il Mio Dottore che non so se mai leggerà. Bisogna saper ringraziare, non sempre come faccio io, ma a volte sì.

Questa è una di quelle.

L’ammorbidente

Ho 36 anni, non mi chiamo veramente Luna, mi chiamo Ludovica.

Non sono neanche completamente guarita, ma non soffro più di disturbi alimentari né di autolesionismo.

Sto imparando a volermi bene anche se mi è difficile, ci sono tante cose da sistemare, rileggere, riappuntare su tutti quei foglietti che immaginariamente scrivo. Li lascerò volar via quando avrò compreso il senso.

Dicono che chi si mette in discussione abbia una marcia in più. Non so se ho messo la prima o la seconda, se sto salendo o sto scendendo ma so che ho quella voglia di vita nella sua interezza che prima non avevo e questo è un gran traguardo.

Ho imparato che malgrado io sia imperfetta e nonostante, per anni, ci sia stato solo vuoto dentro di me, ci sono tanti prati all’inglese, infinite distese verdi su cui piantare fiori e mettere concime.

Ho imparato ad arrampicarmi sugli alberi e a non aver paura di cadere o di graffiarmi con un ramo.

Ho imparato a zappare perché tutto quello che ti fa sudare dà i suoi frutti. E soprattutto ho imparato a fare la lavatrice.

Ho imparato ad appaiare i calzini, anche quelli che restano divisi nella lavatrice. Ad usare l’ammorbidente per tutte quelle cose che vanno trattate con cura, a piegare i vestiti seguendone le naturali forme. Così come, nella vita, aspetto prima di cestinare quello che sembra non potersi ricongiungere, curo ciò che ha bisogno di essere preservato e rispetto quello che all’apparenza non trova una sua naturale evoluzione.

Vorrei concludere raccontando chi sono oggi e come vivo. È inutile negare che mi sento ancora interrotta e, a volte, completamente fuori luogo. Che bestia mi ci sento ancora e che il mio “viaggio” non finirà mai. Cerco ancora la verità, ma è sempre più vero che quella voce dalla regia ora promette qualcosa di nuovo:

“Eccomi qui mia cara,

Sono passate solo 24 ore e già ti sento diversa, non so se sia un’impressione e forse sono malpensante, ma non credo che tu mi abbia ascoltata. Il cestino era vuoto. Ti ho visto rovistarci dentro l’altra sera. Mi domandavo cosa cavolo stessi cercando, poi ho visto cos’hai trovato: un segnalibro. 

L’hai sempre detto che volevi prendere appunti anche se non li rileggerai mai. Hai ragione: le cose non vanno appuntante per ricordarsele o rileggerle, ma per lasciarle andare quando si levano i segnalibri e le pagine volano via alla rinfusa.

Ora ti lascio. È stato un breve incontro, ma ti prometto che ci sarò anche domani. Mi hai sempre chiesto di farlo e ti ho sempre detto di no. Ora te lo prometto: ci vediamo tra 24 ore.”

Gli appunti li prendo ancora e, a volte, li devo rileggere. Alcuni li conservo nel portafoglio anche se sono tutti stropicciati e andrebbero buttati via, ma quel profumo di orchidea che fuoriusciva dalla scatola di biscotti non è più un semplice segno o una promessa: è una realtà.

Io ci sono.

Al confine. Un racconto di Ludo D.

Graffi. Una rubrica a cura di Marina Ruberto




I primi amori di “Ernie”

Il Cartello di Bollate

(di Marina Ruberto)

Luglio 2020. Pomeriggio.  Mi trovo nei pressi di Bollate (Mi); per la precisione tra Novate Milanese e Cormano. Non che la zona sia granché, ma vogliamo visitare l’ex Parco della Balossa (dialettale che, da queste parti, ha più o meno il significato di birichina, bricconcella), ora accorpato al Parco Nord.

Ad uso preminentemente agricolo, in realtà, è una piccola distesa di campi piuttosto piatta e bruttarella. E poi c’è il sole a picco, fa caldo. La cosa più affascinante è che non c’è nessuno tranne le cicale che fanno casino senza obbligo di mascherina.

A un certo punto, però, compare lui: “quel” cartello, secondo il quale Ernest Hemingway avrebbe trascorso lietamente un po’ di tempo proprio qui, in questi campi.

Non me lo lascio sfuggire, e con una sorta di stupore tra il divertito e il reverenziale, lo immortalo sul fido smartphone.

La domanda sorge spontanea: oltre che appartarsi con le giovani donne, che ci faceva il grandissimo scrittore americano in ‘sto posto dimenticato da Dio, nel 1918?

Ernest Hemingway

Il 21 luglio del 2020, Ernest Hemingway avrebbe compiuto 121 anni.

Su di lui, qualche anno fa, è uscita una nuova biografia dal titolo “Hemingway’s Brain” di Andrew Farah. L’autore, psichiatra dell’Università High Point del North Carolina, ipotizza che lo scrittore fosse affetto da encefalopatia cronica traumatica: una patologia che può colpire chi ha riportato danni cerebrali dovuti a traumi al capo.  Ed Hemingway, di traumi durante la guerra e in diversi incidenti d’auto, ne subì parecchi. 

Ecco perché, alla fine dei suoi giorni, si lamentava spesso di non riuscire più a scrivere a causa di un cronico, divorante mal di testa. Nel 1961 si fece ricoverare e gli fu praticato persino l’elettroshock che, forse, gli provocò una grave forma di afasia. Uno scrittore che non riesce né a scrivere, né a parlare (e quindi a dettare) ha dei grossi problemi. Anche da qui, probabilmente, la decisione di togliersi la vita. Cosa che fece il 2 luglio del 1961, quando si sparò in bocca con un fucile.

Degna fine di un personaggio da film.

Per tutta la sua vita Hemingway, Premio Nobel per la Letteratura nel 1954, vagabondò in cerca (non è mai “solo” così. Ma in qualche modo devo chiudere la frase) di emozioni forti.

Giramondo, cacciatore, reporter, soldato, bevitore accanito e arcinoto donnaiolo.

Partecipò alla guerra civile spagnola, fu volontario in Italia durante la Prima Guerra Mondiale, viaggiò, si sposò quattro volte ed ebbe tre figli. Non si fece mancare niente, insomma; nemmeno il diabete, la cirrosi, l’insonnia e la depressione, che iniziò a manifestarsi circa 4 anni prima della sua morte.

Fu anche (merito da poco, lo riconosco) uno dei miei primissimi amori letterari adulti, iniziato con Il vecchio e il mare, divorato sul divano rosso della casa dei miei. 

Senza avere la pretesa di ripercorrere la complessa e avventurosa vita dello scrittore, mi è venuta la curiosità di ricostruirne un breve periodo, che forse potrebbe far luce sul contenuto misterioso del cartello. Perché dai!… Sarebbe praticamente uno scoop.

Così mi fiondo su tutto quel che trovo: vecchie biografie di vecchi Oscar Mondadori (dettagliatissime, va detto) e nuovi, fortunati frammenti in web.

E scopro che, cronista al Kansas City Star, quando gli Stati Uniti entrarono in guerra, il giovane “Ernie” (diciannovenne) si presentò volontario per combattere in Europa.

(Pare fosse un trend tra cronisti e scrittori americani del tempo).

Per un difetto alla vista, venne escluso dai reparti combattenti, arruolato nei servizi d’ambulanza e destinato al fronte italiano.

EH 2723P Milan, 1918
Ernest Hemingway, American Red Cross volunteer. Portrait by Ermeni Studios, Milan, Italy. Please credit “Ernest Hemingway Photograph Collection, John F. Kennedy Presidential Library and Museum, Boston”.

La prima tappa fu Milano, dove si fermò alcuni giorni, per prestare opera di soccorso e pattugliamento. Poi, spedito nella zona del basso Piave, venne ferito alla gamba e curato prima sul posto, poi all’ospedale della Croce Rossa americana, a Milano. Dove rimane per circa tre mesi.

Ma questa è la seconda parte della storia.

La prima è antecedente al Piave.

Il 7 giugno 1918 a Castellazzo di Bollate, vicino a Milano, ebbe luogo un incidente di cui si trovano alcune tracce sul web: una terribile esplosione avvenuta nella fabbrica di munizioni Sutter & Thévenot, una delle più grandi fabbriche d’armi del paese. Tra i 1300 operai, quasi tutte donne, ci furono 59 vittime e oltre 300 feriti. Le cause dell’esplosione non furono mai chiarite e anzi, fino al centenario dell’incidente, sull’episodio cadde una cortina di silenzio. Oggi la tragedia viene finalmente annoverata tra gli anniversari d’interesse nazionale dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri.

Tra i soccorritori della Croce Rossa Internazionale accorsa sul luogo dell’esplosione, c’era Hemingway, tenentino americano al suo primo incarico.

Di quell’episodio lo scrittore narrò in seguito in Piccola storia naturale: i morti, uno dei suoi Quarantanove racconti.

Ce l’ho! E leggo una storia cruda e straziante, dove Ernest confessa di aver visto per la prima volta vittime donne. Morte, bruciate, smembrate. Dev’essere stato un gran brutto ricordo, se decise di scriverne così; una terribile esperienza di cui, però, probabilmente salvò qualcosa.

Castellazzo di Bollate è nei pressi dell’ex parco della Balossa, appunto.

Dove si trova il nostro cartello.

Se vogliamo dargli retta (e dopo tutto perché no?) Ernie trovò il modo di sfuggire dall’inferno, con una giovane donna del posto. Chissà se un’operaia della fabbrica rimasta illesa, una ragazza del paese o un’infermiera.

In tutti i casi è bello pensare che, in mezzo al dolore, alla morte e allo strazio, questo ragazzo che non aveva mai visto niente di simile prima, abbia avuto una via di fuga. E che la sua generosa opera di soccorso abbia trovato una ricompensa.

Fugace quanto si vuole. Ma Altro dall’orrore.

Ha cominciato presto, ad avere una vita letteraria, Ernie.

Forse per questo non poté che scriverne.

Dopo questa prima missione, come dicevamo poc’anzi, Hemingway venne ferito dalle schegge di un proiettile di mortaio nella zona del basso Piave e ricoverato in un ospedale di Milano, dove oggi c’è una targa a lui dedicata, in via Armorari.

E insomma, anche in ospedale, nonostante sia stato più volte operato rischiando di perdere la gamba, trovò il modo di passare piacevolmente il tempo. E sulla terrazza, dove c’erano sedie di vimini e venivano serviti alcolici, conobbe Agnes Von Kurowski, un’infermiera americana di origini tedesche.

Pare fosse molto bella, Agnes (“Aggie”): assai corteggiata e di qualche anno più grande dello scrittore. Ma anche Ernie non scherzava; giovane, attraente ufficiale dalla lingua sciolta. E tra i due scoppiò l’ammoore.

Lui le fece addirittura una proposta di matrimonio. Lei, sulle prime l’accettò, ma più tardi, fece marcia indietro e ritirò la promessa con una lettera che Ernest ricevette quand’era già tornato in America.

Che sia stato un amore platonico o profano, non è dato sapere.

Ernie, comunque, trasfigurò Agnes in Catherine Barkley, il personaggio femminile di Addio alle armi, pubblicato in America nel 1929 e in Italia solo nel 1945.

Il contenuto, infatti, che narra anche della disfatta di Caporetto, non piacque un granché alle Forse Armate della dittatura fascista.

Ed Ernest, che sul Toronto Star aveva fatto uno spassoso ritrattino di Mussolini, (descrivendolo mentre “leggeva” un dizionario capovolto), non sembrò dispiacersene.

Impegnato com’era, in ben altre avventure. Umane, professionali e letterarie.

Peccato solo che abbia pagato a caro prezzo la sua intensa sete di vita.

Fino al punto da decidere di spegnerla con le sue stesse mani.

Materiali

https://rivista.vitaepensiero.it/news-vp-plus-hemingway-a-milano-nel-1918-dalla-guerra-allamicizia-con-alberto-mondadori-5037.html

https://www.immaginiememoria.it/storie/quellesplosione-centanni-fa/

https://www.ilgiorno.it/rho/cronaca/bollate-esplosione-fabbrica-armi-1.3931261

https://www.doppiozero.com/materiali/hemingway-milano

https://www.raicultura.it/storia/accadde-oggi/Il-giovane-Hemingway-ferito-in-trincea-c3412fcb-1fb6-47e9-94ba-948a094e1502.html

(Video Rai storia sull’8 luglio 1918)                                               




Graffi – La Rubrica.

(di Marina Ruberto)

“Visto da vicino nessuno è normale”.

Questo sosteneva Franco Basaglia, padre della legge 180. Colui che nel 1978, quarantatré anni fa, chiuse per sempre i manicomi.

Un “giusto” che lottò vent’anni per porre fine agli orrori perpetrati in luoghi che non avevano nulla da invidiare ai lager nazisti.

Praticamente niente di quello che aveva auspicato è stato messo in pratica e, sia i malati che le loro famiglie, sono stati lasciati soli ad affrontare l’inferno.

Con poco supporto e soluzioni transitorie.

Lo vediamo anche per strada, troppo spesso.

Siamo coscienti del fatto che, visti da vicino, nemmeno noi siamo “normali” e che se siamo qui a scrivere di arte, bellezza e cultura, forse è perché ci è semplicemente andata bene.

Abbiamo pensato quindi di ospitare, in questa rubrica, i racconti di quanti vogliono offrire testimonianza di una difficile, complessa “normalità”.

Condividendo la “loro” soluzione, il loro personale modo di accogliere un carico di dolore e di solitudine che li ha resi sicuramente più speciali degli altri.

Senza alcuna pretesa, nessun giudizio, solo condivisione.

Con la speranza che “Graffi” possa offrire spunti di riflessione, o magari accendere una luce su territori in ombra, inesplorati o, addirittura, troppo spesso ignorati.




Di pietra e metallo.

Le colline del Montefeltro

(di Marina Ruberto)

Il Montefeltro è un fazzoletto d’Italia diviso tra Marche, Emilia Romagna e Toscana.  Con quella piccola perla di Urbino per capitale, è costituito in tutto da circa un migliaio di chilometri quadrati di borghi, borghetti, colline di velluto, rocche Malatestiane e Montefeltrine (che continuano a guardarsi in cagnesco), vallate e boschi, boschi, boschi. In una macchia di colori che, vista dall’alto, sembra una tavolozza da cui Piero della Francesca ha rubato a mani basse.

Perché in una terra così poco estesa si siano succeduti tanti visionari, sognatori, letterati e artisti, non è dato sapere. È uno di quei misteri italiani che il mondo ci invidia e che è stupendo visitare in tutte le stagioni. Per esempio nell’estate del 2020.

Senza andare troppo lontano (nel Rinascimento vinceremmo facile solo citando la corte urbinate di Federico da Montefeltro e del colto fratello Ottaviano), si può scoprire che del Montefeltro si sono innamorati un sacco di artisti, letterati e sognatori nostri contemporanei.

Cominciando da Tonino Guerra, poeta, scrittore, pittore e straordinario sceneggiatore romagnolo che, negli ultimi 25 anni della sua vita, si rifugiò in quel di Pennabilli.  Famose sono le sue installazioni e mostre permanenti, che prendono il nome de I Luoghi dell’anima. Con il mio compagno visitiamo, invece, il Parco dei Luoghi minimi, sul Monte Aquilone; dove animali fantastici si mimetizzano nella vegetazione del bosco, tanto grandi quanto aerei. Rinoceronte, tartaruga, elefante e giraffa (a grandezza naturale) sono stati realizzati intrecciando fil di ferro dal ‘Gruppo del Ferro’ di Pennabilli.

Anche il piemontese Umberto Eco, nel 1978, prese casa in Montefeltro, a Monte Cerignone. Una casa abbandonata da trent’anni che, per qualche motivo, lo rapì. Quando la moglie gli chiese perché voleva proprio quella e proprio lì, le rispose: “Voglio nelle notti di tempesta percorrere questi corridoi oscuri con una torcia in mano, sentendo nel cuore uno sterminato sentimento di potenza”. Magia, poesia. Eco cercò anche un fantasma (“perché una casa così senza fantasma non ha senso”). Chissà se lo trovò.

Persino il Dalai Lama, in persona e in ispirito, si dev’essere preso una cotta per questi luoghi perché, dopo aver visitato Pennabilli nel 1994, ci tornò nel 2005 per inaugurare una campana tibetana (la campana di Lhasa) sul colle che domina la splendida vallata sottostante.

La campana di Lhasa

Ma la storia di passioni intrecciate che mi interessa raccontare un po’ più per esteso, è quella del borgo storico del castello di Pietrarubbia (Petra Rubra) a cui si accede dal paese e di cui è la parte più antica. Arroccato su uno sperone di pietra alle pendici meridionali del Monte Carpegna, il borgo risale forse all’anno 1000. Numerose fonti citano un documento, datato 962 d.C., con il quale l’Imperatore Ottone avrebbe concesso in feudo a Ulderico di Carpegna il borgo; ma la tradizione popolare ne anticipa le origini addirittura al V° secolo d.C.

Ci arriviamo non senza sbagliare strada. E ci troviamo di fronte a un piccolo gioiello (la cui torre diroccata è semi-nascosta dalla vegetazione) e al suo alacre nume tutelare: il signor Anacleto Gambarara; dal 2017 unico residente del posto, frequentato dai turisti solo nella bella stagione. 

Torre diroccata

Visionario, musicista e sognatore, Anacleto è un convinto assertore del ritorno del Montefeltro al suo passato di grandezza culturale, naturalistica, gastronomica e architettonica. Per questo, muovendo mari, monti e volontà, quest’anno è riuscito a organizzare il primo Festival del Montefeltro a Pietrarubbia. Musica, Teatro, eventi e performance hanno animato il minuscolo paese in luglio e agosto.

Ma il suo precursore più illustre si palesò nel 1976, quando la passata grande storia di Petra Rubra sembrava destinata all’oblio e le sue pietre rosse di metalli, ad essere divorate dalla natura vorace del posto.

Tutto questo se Arnaldo Pomodoro (proveniente da Morciano di Romagna) non se ne fosse innamorato e non avesse deciso di comprare e ristrutturare una casa. Spendendo successivamente il suo nome per sensibilizzare il Comune e le autorità, ed avviare un’opera più generale di recupero dell’antica località.

Nella chiesa di San Silvestro, oggi recuperata grazie a lui, ci sono l’altare marmoreo e il grande sole bronzeo (con al centro una croce) realizzati dall’artista. Sarà il contesto, il silenzio, le mura romaniche della chiesetta, ma è una vista mozzafiato.

n Silvestro

Tuttavia, l’idea davvero esplosiva (che voleva riallacciarsi all’antichissima tradizione siderurgica e metallurgica del paese) fu quella dell’estate 1990, quando Pomodoro, con la collaborazione della Regione Marche e il Fondo Sociale Europeo, aprì il Centro di Trattamento Artistico dei Metalli: il T.A.M. Non è una delle attività più note dell’artista. E, francamente, me ne domando il motivo.

L’obiettivo primario del Centro era quello di fornire un’approfondita formazione e specializzazione tecnica e culturale a giovani operatori delle arti dei metalli (oro, piombo, stagno, acciaio, ferro, ottone, rame, bronzo…), unendo due ambiti che, di solito, restano distinti: quello tecnico-artistico e quello storico-teorico.
Nel 2007, il Centro è stato dichiarato Polo formativo Regionale di Eccellenza delle Marche.

Dal T.A.M, di fatto una scuola, sono usciti orafi, decoratori, progettisti, stilisti dello spettacolo e molti scultori.

Per anni la direzione artistica del Centro è stata curata personalmente dallo stesso Pomodoro (che l’ha presieduto fino alla chiusura) e dall’equipe del suo studio milanese. Successivamente dagli scultori Eliseo Mattiacci e Nunzio Di Stefano. Le lezioni sono sempre state tenute da specialisti qualificati e artisti di caratura internazionale.

Il T.A.M è stata purtroppo chiuso nel 2019, ma il signor Anacleto ci comunica che le opere dei migliori allievi si possono visitare in una mostra permanente.  Saputo ciò, attendiamo l’arrivo di suo figlio: detentore delle chiavi del Palazzo gentilizio in cui sono raccolte. 

Quando il ragazzo spunta da chissà dove, veniamo affidati alle sue cure e al suo sapere (buona parte di quello che scrivo, lo scopriamo da lui).  Ed ecco che ci si apre un altro mondo di sorprendente bellezza che il giovane ingegnere prestato all’arte, ci spalanca con una sorta di carbonaro entusiasmo. Quasi stupito che qualcuno condivida le sue passioni.

Rimaniamo di stucco. Oltre ad alcuni pezzi del Maestro Pomodoro, ci troviamo di fronte a sculture, gioielli, lavori di design che non sembrano certo opere di studenti, ma di Artisti fatti e finiti.

Il giovane ci racconta anche qualcosa degli autori. Alcuni dei quali hanno acquisito una certa notorietà. Ma purtroppo non ne tratteniamo i nomi, e più tardi, non troviamo nulla nemmeno in rete.

Quando usciamo dal Palazzo, un po’ rimbambiti sia dalla sovrabbondanza d’informazioni che dalla bellezza inattesa delle opere, torniamo sotto la benevola ala del signor Anacleto.

Quella sera c’è musica a Petra Rubra. “Un gruppo brasiliano da paura” ci avverte un simpatico elettricista dello staff già al lavoro.

C’è La locanda delle storie in cui poter mangiare (e addirittura dormire) e poi lo spettacolo. Ma abbiamo ancora metalli preziosi negli occhi. Pietra rossa e panorami/tavolozza.

Qualsiasi altra cosa, oltre al silenzio, oggi sarebbe troppo.   




I Nodi di Giusi

(di Marina Ruberto)

Ho conosciuto Giusi Loisi ormai parecchi anni fa, in un’agenzia con cui collaboravo come free lance.

Era una giovane account arrivata da non molto dalla sua terra natale: la Puglia.

La portava con sé nell’espressione aperta, nei colori della parlata, nel sorriso sincero e negli occhi un po’ selvatici, dal taglio asiatico. “Da husky”, le dicevo.

Barese normanna: bionda, occhi azzurri.

Una bella ragazza allegra e divertente, che un venerdì, a fine giornata, tirò fuori un’intera valigia di abiti che le aveva disegnato la madre, per deliziare i colleghi con un ironico defilé, tra mille risate e commenti da casting.

Io l’avevo appena conosciuta e, da brava milanese tra il cinico e il diffidente, pensai che era troppo di tutto. Che una simile spontaneità e fiducia, non potevano essere autentiche.

Pensai: “ci fa”.

Poi, però, rapidamente, dovetti ricredermi. Diventammo amiche e lei mi aprì la porta della sua seconda vita: quella d’artista.

E allora compresi i legami. Anzi: i nodi.

Qualche anno fa, Giusi si è trasferita a Torino e, da allora, vive lì con il marito Francesco e il figlioletto Andrea.

Ma Milano le è rimasta nel cuore. Più amici qui che là. Tanti ricordi. Torna di tanto in tanto (ma, pandemia permettendo, tornerà proprio) per fare mostre e incontrare la “sua” città nel modo che preferisce: elettrizzante, stimolante, …e introspettivo. 

A distanza di tre/quattro anni dall’ultima volta che ci siamo viste “live”, ci ritroviamo davanti allo schermo di un computer. Felici di vederci, anche se avremmo preferito la modalità precedente.

Dimmi Giusi, il primo nodo non si scorda mai… Come ti è venuto in mente di cimentarti in quella che, forse, all’inizio parve una follia anche a te?

Ricordo perfettamente quella sera in cui mi prese il desiderio di quel gesto un po’ folle. Sentivo di aver  bisogno di “legare” una parte di me, con un’altra che pareva sfuggire.  Così feci la prima cosa che mi venne in mente: bucai la tela che avevo dipinto poche ore prima con un punteruolo e, nei fori, feci passare una corda grossa, intrecciandola fino a creare un nodo.  Credo sia stato il tentativo di legare il mio mondo terreno a quello spirituale.

Andiamo a caccia di significati, dai. Raccontaci la poetica delle annodanze con parole tue. So che non ami troppo i blabla. Magari ci facciamo aiutare da alcune definizioni che Manuela Gandini ha scritto di loro. Così sembriamo anche persone serie.

Annodanze. Il termine è un mix fra la drammaticità del nodo e la leggerezza delle danze. I nodi, il più delle volte non sono scomposti, ma ordinati come fiocchi di neve, sferici come ricci di mare o minacciosi come virus. Hanno fattezze organiche e sono tridimensionali. Come un’ossessione o un groviglio emozionale che riaffiora quadro dopo quadro, le Annodanze sono pensieri sottaciuti, materiali del subconscio, che prendono forma e si impongono al mondo con impeccabile pulizia formale.”

Manuela Gandini

Mi ritrovo in quello che ha scritto Manuela. Ha colto in pieno i miei “grovigli” e il tentativo di ordinarli in qualcosa di materiale. Che ha un inizio, una fine e un aspetto piacevole, compiuto. Molte delle persone che si avvicinano alla mia arte si riconoscono negli intrecci e nelle inquietudini delle Annodanze. Le stesse, in altre persone, scatenano sensazioni positive di allegria ed apertura.  A ognuno il suo nodo, insomma.  

Quando ti ho conosciuta abitavi nel “buco locale” di via Orti, ricordi? Era delizioso, ma quello che lo rendeva unico, era la presenza dell’enorme “donna riccio” che occupava quasi tutto lo spazio disponibile.

Raccontaci la tua ispirazione, prima e oltre le Annodanze.

In quel periodo stavo lavorando con materiali organici “morti” (foglie, aghi di pino, gusci di ricci di mare) a cui  intendevo dare una “seconda chance”.

La donna riccio, in particolare, è il risultato di un’esperienza, una ricerca introspettiva che si è tradotta nella rappresentazione della mia dualità. Un io “diviso” tra  spine dell’anima e forme del corpo.

Torniamo alle Annodanze, la parte della produzione artistica su cui hai lavorato di più. Hai fatto performance in giro per Milano (a cui ho anche assistito) dove costruivi un nodo in diretta. Negli occhi degli ospiti c’è sempre stata molta partecipazione e curiosità. Cosa c’è di diverso nel lavoro fatto in solitudine e quello eseguito davanti a un pubblico? Ti arricchisce la presenza altrui? Ti carica?

Il lavoro in pubblico è più istintivo ed emozionante, rispetto a quello in solitudine. La presenza delle persone, le voci, il brusio mi aiutano ad  estraniarmi e a entrare in una sorta di trance.

E’ quasi come se il lavoro, il mio nodo, si facesse da solo…seguendo dei percorsi “guidati”. So che può sembrare strano ma “gli altri”, non mi distraggono affatto. Anzi: mi rilassano. Quando sono sola, devo trovare dei mezzi alternativi per concentrarmi. Quasi sempre la musica.

E’ stato qualcuno a suggerirti questa modalità?

Ho fatto la prima performance durante il concerto di un’amica ed è venuta benissimo perché era la sua musica a portarmi. Sinceramente non ricordo chi delle due abbia pensato per prima a quest’unione di espressioni. A volte, le cose migliori nascono così spontaneamente da non avere un solo ideatore.

Dicci qualcosa dei materiali che utilizzi. Come si è evoluta, nel tempo, la tua ricerca?

Non uso pennelli ma corde, cordoni, fili, lane per creare le forme che sono degli stati dell’anima.

Il punteruolo che buca la tela e la corda che l’attraversa mi portano ogni volta in una dimensione che non riesco a spiegare, è un viaggio sempre diverso.

Le annodanze sono sempre diverse, nelle forme e nei colori, come i mondi e i legami che rappresentano.

Veniamo all’oggi e alla tua ultima mostra al Grand Hotel Courmayeur Mont Blanc. Mi raccontavi che ci sono addirittura ben 52 tuoi quadri.

Come hai conciliato la tua vita di madre, di moglie e di account, con la necessità di “sfornare” una produzione così importante? Certo, la pandemia non ti avrà facilitata… 

Invece forse è stata proprio l’impossibilità di uscire, a rendermi le cose più facili. La casa è diventata anche il mio atelier. Ho lavorato di giorno, ma soprattutto di notte, per diversi mesi. Immersa in una frenesia creativa che mi ha stimolata moltissimo. Non avendo il tempo di pensare o sperimentare, creavo e basta. Forse per questo sono venuti fuori tanti nuovi lavori i cui risultati hanno stupito persino me.

Nel frattempo non ho smesso di dedicarmi alla mia famiglia e alla mia cucina, che tu conosci molto bene e senza la quale, credo che mi mancherebbe qualcosa.

Qualche chilo sicuramente…

Quindi, per finire, potremo vedere le Annodanze ancora fino al 30 settembre a Courmayeur, giusto?

Certo! I quadri sono sparsi per tutto l’hotel. E’ come fare una specie di tour all’interno di una splendida location, ai piedi del Monte Bianco.

Val la pena di fare un viaggetto.

Verrai con Paolo, vero?…

L’intervista può finire qui. Noi due abbiamo un sacco di cose da raccontarci, ma salutiamo i lettori dando loro appuntamento sul tuo sito  www.giusiloisi.it e sul profilo Instagram  www.instagram.com/giusi_loisi/ là dove i nodi si annodano con frequenza.