Accettazione e rassegnazione [due gemelle separate alla nascita].

illustrazione di Anna La Tati Cervetto_”Amiche”_pennarello su carta_dicembre2020

di Christian Lezzi_

Capita più o meno in tutte le lingue, dall’italiano all’inglese, dal russo al francese, che parole molto simili rappresentino, in realtà, concetti diversi, se non proprio diametralmente opposti, per lo meno molto distanti tra di loro. E da qui nasce l’inganno, la confusione, dovuto all’uso improprio delle parole, rese intercambiabili dalla superficialità, ma sostanzialmente diverse nel significato più vero e profondo.

Soprattutto in italiano, lingua particolarmente ricca di sfumature, declinazioni e ambiguità (linguistiche). Un po’ come i false friends della lingua inglese, parole che sembrano significare qualcosa, ma solo perché somigliano ad altri vocaboli.

È il caso, giusto per portare un esempio, del termine “Sympathy”, reso particolarmente familiare dai Rolling Stone e dalla loro canzone Sympathy for the Devil. Ma, attenzione, Sympathy, non significa affatto simpatia – eccolo il falso amico che c’inganna con una subdola somiglianza – significa compassione. E tutto il senso del testo, chiarito il significato corretto della singola parola, muta contesto e sostanza.

Potremmo citarne a tonnellate, di esempi in merito, di parole che sembrano qualcos’altro, di termini che somigliano ad altri, che quindi spesso confondiamo e intercambiamo, fino a usarli a sproposito. Perché nell’apparentemente sottile differenza tra due parole simili, può esserci un abisso di sostanziale diversità del significato. O, per lo meno, nella loro applicazione, può comportare meccanismi psicologici e comportamentali del tutto diversi.

Prendiamo in esame, ad esempio, le parole “accettazione” e “rassegnazione”.

Apparentemente (ma solo al primo lontano e frettoloso sguardo) esse sembrano talmente simili da rappresentare il medesimo significato, talmente uguali da ricordare due gemelli omozigoti separati alla nascita.

Ma nella linguistica, l’inganno è sempre in agguato, pronto a indurci in errore, a tentarci con parole dal suono simile, ma dal significato diverso che, se usate alla leggera e senza cognizione di causa, alterano il senso del discorso e del nostro vivere quotidiano. 

Proprio come nell’esempio della canzone.

Accettare e rassegnarsi, possono anche sembrare parenti strette, ma convogliano implicazioni psicologiche che impediscono loro di essere intercambiabili. Seppur entrambe implichino l’atto di far propria una nuova e diversa prospettiva, una presa d’atto in merito a ciò che ci accade intorno, implicano schemi mentali e aspettative che, tradotti in atti concreti, mutano di molto il nostro agito.

L’errato uso di uno o dell’altro termine, implica un’alterazione delle nostre percezioni, di come vediamo e percepiamo, distinguendoli, ciò che possiamo ancora controllare e ciò che non possiamo controllare più. Capire la differenza che intercorre tra le due parole (dal punto di vista psicologico, non solo da quello semantico) rende possibile, a noi stessi, il controllo sul nostro atteggiamento, dal quale deriva il comportamento nei confronti degli input che ci arrivano dal mondo circostante, permettendoci di mutare l’elaborazione degli stessi e delle aspettative che nutriamo nei loro confronti.

In altre parole, accettare un evento, implica una risposta cognitiva ed emotiva ben diversa da quando, a quell’evento, ci rassegniamo passivamente e senza volontà alcuna. Un bivio che divide due mete drammaticamente diverse e opposte: controllare attivamente gli eventi o subirli passivamente, lasciandoci magari travolgere da essi, incapaci di reagire al momento, allo stimolo agli accadimenti che ci coinvolgono e, in questo caso, ci travolgono.

Che si scelga la prima o la seconda strada, a cambiare è l’atteggiamento, il modo di porsi nei confronti delle circostanze, laddove il primo caso comporta un ruolo attivo e voluto, mentre il secondo, per ovvio contrasto, un ruolo del tutto passivo e involontario. E quella scelta si riflette sul nostro stato emotivo che, a sua volta, determina un agìto di riflesso, che spesso, nel caso della rassegnazione, porta al piagnisteo, alla lamentela e alla fuga dalla realtà e dalle responsabilità.

E anche queste, le responsabilità, distinguono il percorso. Nel caso dell’accettazione, non solo prendiamo atto dell’accaduto, ma ce ne assumiamo le responsabilità, ovviamente se queste sono riconducibili a noi, almeno in minima parte. Nel caso della rassegnazione, le responsabilità non sono mai nostre ma sempre di soggetti terzi e di eventi al di fuori della nostra sfera d’influenza. 

Anche quando, di fatto, di responsabilità oggettive non s’ha traccia. 

Ciò accade perché la rassegnazione, a differenza della sua apparente gemella, comporta il giudizio, l’assunzione del ruolo di vittima delle circostanze. Mentre l’accettazione quel giudizio lo sospende, accettando la realtà e vivendola con piglio attivo, per cambiarla e ricondurla al suo proprio beneficio, oppure accettarla (appunto) vivendola con serenità, la rassegnazione diventa il nostro stesso inquisitore, il giudice inflessibile che decide (dal suo esclusivo punto d’osservazione) ciò che è giusto e ciò che non lo è.

Salvo poi omettere che si tratti di deduzioni del tutto soggettive dovute ai capricci di un tiranno.

Operare un distinguo ragionato, tra i due concetti, è una questione di volontà, essendo l’accettazione un processo (per buona sua parte) voluto e consapevole. Si decide di accettare qualcosa, in maniera volontaria e cosciente. Al contrario, la rassegnazione ai fatti della vita, comporta una cessazione di quella volontà, una dismissione della coscienza, a favore di un’inconsapevolezza che ci arreca distonia, malessere e disagio interiore. E che, per effetto di quel malessere, c’impone la resa incondizionata e la delega delle cosiddette colpe.

È un po’ come dire: “voglio cambiare le cose”, oppure “lascio che le cose mi cambino”. Sembrano concetti uguali, ma non è aritmetica. Cambiare l’ordine dei fattori (delle parole, in questo caso) il risultato lo cambia eccome. Così come il variato ordine cambia le nostre percezioni, la risposta a quegli stimoli, lo stato d’animo, le nostre azioni e il risultato che ne consegue.

Mentre l’accettazione impara a perdere con stile, la rassegnazione, come spesso osserviamo nel mondo dello sport (soprattutto del calcio) scarica le proprie responsabilità sull’arbitro, sull’allenatore, sul presidente e sui tifosi tutti.

No, comprendere e fare nostra la differenza tra accettazione e rassegnazione, tra attività e passività del ruolo assunto, non è solo una questione di semantica, ma di acquisita capacità e volontà d’essere felici e di saper stare al mondo.

Occorre coraggio, per accettare qualcosa (un lutto, una malattia, un fallimento). Tanto coraggio e altrettanta forza.

Al contrario, per la rassegnazione, basta la viltà, condita dalla stucchevole capacità di fuggire dalle proprie responsabilità e di piangersi addosso, magari bagnando la spalla di qualcun altro.


Christian Lezzi, classe 1972, laureato in ingegneria e in psicologia, è da sempre innamorato del pensiero pensato, del ragionamento critico e del confronto interpersonale. 
Cultore delle diversità, ricerca e analizza, instancabilmente, i più disparati punti di vista alla base del comportamento umano.

Atavico antagonista della falsa crescita personale, iconoclasta della mediocrità, eretico dissacratore degli stereotipi e dell’opinione comune superficiale.
Imprenditore, Autore e Business Coach, nei suoi scritti racconta i fatti della vita, da un punto di vista inedito e mai ortodosso.