Malinverno – Domenico Dara

Un libro ben scelto ti salva da qualsiasi cosa. 

Persino da te stesso”

Illustrazione di Anna La Tati Cervetto

Rubrica a cura di Sara Balzotti_


Casa editrice: Feltrinelli
Anno di pubblicazione: 2020
Genere: narrativa 

Malinverno omaggia la lettura e la grande letteratura internazionale ma crea anche un diverso equilibrio fra la vita e la morte.

Astolfo Maliverno ha due centimetri di carne in meno in una gamba ed è il bibliotecario della prestigiosa biblioteca del suo paese, Timpamara.

Timpamara è caratterizzata dalla presenza di una cartiera che utilizza soltanto libri per la produzione della carta; spesso nel paese soffia un vento forte e dalle montagne dei volumi accatastati, in attesa di essere distrutti, si staccano tante pagine che volano alte nel cielo e ricadono sugli abitanti di Timpamara, i quali iniziano così ad apprezzare la lettura e i suoi protagonisti più famosi.

Per questa ragione i timpamaresi hanno tutti nomi altisonanti, appartenenti ai personaggi e ai grandi della letteratura internazionale.

Non tutti i libri però vengono ridotti a macero e quelli che vengono salvati alimentano la ricca biblioteca di questo delizioso paese, vanto dei suoi abitanti e meta di tanti forestieri appassionati di lettura.

La vita di Astolfo Maliverno viene stravolta quando il sindaco di Timpamara gli propone di integrare il proprio lavoro di bibliotecario con quello di custode del cimitero del paese.

Astolfo all’inizio è un pò scettico, ma poi accetta e inizia la sua avventura.

Sono tante le vicissitudini e le situazioni particolari che si verranno a creare ma Astolfo riuscirà sempre a gestirle con la sua capacità di trasformare in amore tutto quello che tocca.

I vari personaggi che alimentano la vita del camposanto, così come le loro storie, sono deliziosi e il risvolto dato da Astolfo conquista il cuore grazie alla sua sensibilità.

In “Maliverno” si prende confidenza con il particolare luogo qual è il Camposanto; il cimitero può diventare a volte un luogo di vita, seppur nella morte?

Durante il suo ordinario lavoro di manutentore, Astolfo verrà in contatto con una lapide molto particolare e misteriosa, che gli rapirà il cuore. Grazie a questa, il protagonista vivrà una forma particolare di amore… chi è la ragazza che gli gravita intorno? Quali saranno gli sviluppi legati al rapporto si verrà a creare fra Astolfo e la misteriosa avventrice?

Leggerezza, affetto, dolore, amore, rabbia sono i sentimenti che si susseguono in Maliverno. Alla fine anche la solitudine può farci sentire un pò meno soli e il dolore legato alla perdita delle persone care può essere destinato ad una forma di rielaborazione, al punto che a volte potrà risultare meno difficile riprendere la nostra quotidianità. 



Ciao a tutti! Sono Sara Balzotti. Adoro leggere e credo che oggi, più che mai, sia fondamentale divulgare cultura e sensibilizzare le nuove generazioni sull’importanza della lettura. Ognuno di noi deve essere in grado di creare una propria autonomia di pensiero, coltivata da una ricerca continua di informazioni, da una libertà intellettuale e dallo scambio di opinioni con le persone che ci stanno intorno. Lo scopo di questa nuova rubrica qui su FUORIMAG è quello di condividere con voi i miei consigli di lettura! Troverete soltanto i commenti ai libri che ho apprezzato e che mi hanno emozionato, ognuno per qualche ragione in particolare. Non troverete commenti negativi ai libri perché ho profondamente rispetto degli scrittori, che ammiro per la loro capacità narrativa, e i giudizi sulle loro opere sono strettamente personali pertanto in questa pagine troverete soltanto positività ed emozioni! Grazie per esserci e per il prezioso lavoro di condivisione della cultura che stai portando avanti con le tue letture! Benvenuto!

A questo link qui sotto puoi trovare altre mie recensioni.

https://www.francesia.it/freetime/consigli-di-lettura/




Sogno la rivoluzione dei piccoli gesti – [parte 2 (e forse ultima)].


di Giuliana Caroli_

Nel precedente articolo sono partita da un piccolo libro della fine degli anni ’90 per raccontare come alcuni piccoli piaceri della vita possono regalarci momenti di pura felicità. Per similitudine ho cercato di dimostrare che non sempre è necessario andare alla ricerca di gesti importanti ed eclatanti – che quasi sempre si rivelano anche estremamente gravosi – per innescare un cambiamento desiderato per il piccolo universo in cui ci troviamo a vivere, ma persino per il nostro pianeta. 

Una filosofia, quella dei piccoli gesti, che se fossimo in tanti a seguire potrebbe davvero essere rivoluzionaria. 

Con le nostre scelte di acquisto possiamo condizionare il mercato semplicemente decidendo di comprare il prodotto più sostenibile, perché il packaging è ridotto al minimo o non c’è plastica oppure utilizza materie prime ecologiche o è ricaricabile o, ancora, è di stagione e a km zero.

Noi consumatori dobbiamo acquisire consapevolezza del nostro potere e trasformarci in “consumattori” se vogliamo essere ascoltati e spingere all’azione verso una maggiore sostenibilità.

Ma la rivoluzione dei piccoli gesti ha ambizioni ancora più grandi.

Sogno uno sconvolgimento anche nell’ambito delle relazioni, della socialità, dei rapporti umani. Un terremoto capace di sconquassare le nostre coscienze e costringerci ad aprire gli occhi sulle brutture e sulle deformità del nostro modo di relazionarci con gli altri esseri viventi, umani ma non solo.

E qui mi sovviene un altro libro, più o meno dello stesso periodo: “Brodo caldo per l’anima”.

In una sorta di viaggio gustativo che ci trasporta dalla prima sorsata di birra ghiacciata che regala un attimo di refrigerio unico e irripetibile al calore di un brodo che riscalda l’anima e ci porta ad assaporare ardenti attimi di felicità.

Perché voglio disperatamente credere che l’uomo sia assetato di amore e comprensione e che sia ancora possibile nutrire fiducia nel prossimo e aprirsi al mondo con serenità, senza paura e timore. 

Perché voglio sperare che altruismo e gentilezza dimorino nell’animo umano come qualità innate, e per quanto assopite, siano capaci di risvegliarsi e di prendere il sopravvento sull’egoismo e il cinismo che paiono aver ricoperto la nostra umanità.

Come? Con piccoli gesti garbati e cortesi, con minuscoli atti premurosi e amorevoli, come un sorriso sincero o un grazie genuino.

Il sorriso è un’arma potente in grado di disinnescare la nostra diffidenza. È contagioso e agisce come un riflesso condizionato inarrestabile. È un antidolorifico naturale perché, rilasciando endorfine, abbassa il livello di stress e induce una sensazione di calma e tranquillità. È un potente mezzo di comunicazione che parla un linguaggio universale, a cui tutte le culture e le società del mondo attribuiscono lo stesso significato di positività. È espressione di sicurezza e serenità e fa trasparire un senso di fiducia e autostima. È benessere puro per la nostra mente e aumenta la capacità di concentrazione. È capace di modificare il nostro umore, ingannando il nostro corpo e la nostra mente e spingendole a migliorare rapidamente lo stato d’animo. E soprattutto non ci costa nulla, ma può essere un regalo prezioso per gli altri.

Per Charlie Chaplin “un giorno senza sorriso è un giorno perso”. Che inutile spreco di tempo sarebbe una vita senza sorrisi!

Allora, la prossima volta che saliremo su un tram o una metropolitana, che entreremo in un bar per bere un caffè, o in un negozio per fare acquisti, o in un ufficio per sbrigare una pratica, oppure che incontreremo un collega nel corridoio dell’azienda, ricordiamoci di sorridere.

Pensate come sarebbe migliore il mondo se la moneta di scambio di ogni nostra relazione fosse un sorriso.

Un piccolo gesto può avviare una rivoluzione?

Sì, se saremo in tanti a farlo.


Giuliana Caroli, classe 1965, lavoro in una grande cooperativa di servizi come Responsabile Comunicazione, ma mi porto come bagaglio una lunga esperienza in ambito consulenziale e formativo.

Scrivo di ciò che conosco e di ciò che mi appassiona. Coltivo la curiosità e alimento le relazioni positive. Detesto l’indifferenza e l’irresponsabilità.

A cosa aspiro? A fare la differenza: per qualcuno, per il pianeta.




L’equilibrio dell’amore.

Foto di Mario Barbieri_”Il bacio non dato”_ E’ vietata la riproduzione senza l’autorizzazione scritta dell’autore.

di Valeria Frascatore_

No, stavolta e per una volta, non tirerò in ballo la pandemia parlando di disvalori affettivi.

Sulla linea della temperatura di un immaginario termometro delle emozioni, l’AMORE cammina sempre in bilico, come un giocoliere che oscilla tra il ”Non so se ce la faccio a farcela” e un “Ho capito che oggi non è giornata!”.

E la presa d’atto della definitiva perdita di equilibrio da parte del saltimbanco, viene puntualmente slatentizzata attraverso la consueta elencazione di catastrofi di proporzioni bibliche:la calata delle invasioni barbariche, lo scoppio di epidemie e il trionfo della logica dei piccoli, grandi compromessi di Stato.

L’annuncio parla chiaro: “Venghino signori, venghino…qui giace l’AMORE, precipitato, per cause fortuite e calamità non ben precisate, dalla fune sospesa lassù in alto:anche stavolta ha vinto il DISAMORE, con buona pace degli idealisti dell’ultim’ora!”

Scuse, un mare di scuse, addotte per non buttarsi nella mischia e sperimentare a carte scoperte le relazioni, lasciandosi travolgere da quel briciolo di turbamento emotivo di cui tanto si avverte la mancanza.

E se,invece, turbati e scossi, in ordine sparso, facessimo la rivoluzione attraverso uno Sturm und Drang del cuore, in grado di lasciarci dentro una traccia profonda di tutto ciò che testiamo nel corso dell’esperienza terrena? Forse riusciremmo sul serio a sperimentare l’eccezionalità di un sentimento…certo…ma dovremmo, al contempo, essere in grado di comprendere la portata dei risvolti mortificanti insiti  in un’accusa di DISAMORE.

Già il suono di questa parola tocca profondamente l’intimo sentire, è una specie di paravento che affligge il relazionarsi dei tempi moderni, un palcoscenico montato ad arte per guadagnare una via di fuga dai propri fantasmi ed inscenare una recita a soggetto perché, diciamocela tutta,  l’atto di far finta di desiderare ciò da cui, in realtà, rifuggiamo quasi con orrore, è seducente come pochi altri. Per noi e per chi ci ascolta, il più delle volte, inebetito dalle delusioni rimediate nella vita e pendente dalle labbra di chi spaccia l’Amore per Disamore, l’Interesse per Disinteresse, l’Empatia per Apatia.

Così, seduti ai margini dello strapiombo da cui contempliamo le nostre vite, con le gambe a penzoloni nel vuoto a rendere delle relazioni interpersonali, tendiamo le mani tremanti verso chiunque ci appaia in grado di sottrarci alle insidie di un abisso, spesso denso di limitatezza sul piano spirituale e morale.

E’ un meccanismo,il nostro, oliato da quella insostenibile leggerezza che regola il desiderio di essere accolti e che trova precisa rispondenza nell’insostenibile, leggera indifferenza, di chi, il più delle volte, è capace soltanto di regalare DISAMORE.

Ma il comune senso del pudore, sempre che esista, alberga proprio in quella manifestazione di sommo ritegno e rispetto per l’altro attraverso la quale si opera nel suo interesse e non contro a prescindere. La vera vittoria resta la precisa scelta di non ritrarre una mano tesa sulla vita di un altro individuo.

Chi ha esperienza diretta con l’insostenibile leggerezza di una forma di DISAMORE subìto, di solito si libera e arriva sempre lì, dove si può osare solo AMORE.

Non si tratta di un luogo fisico:è un anfratto dell’anima in cui le persone si riconoscono nell’alternanza di luci e ombre del proprio Essere.

L’Amore osa ove non sono necessari preamboli, non c’è spazio per il calcolo e nessun preconcetto è ammesso.

Tutto è straordinariamente nitido, i lineamenti si distendono in un sorriso accogliente e cadono le barriere.

L’Amore osa quando l’intuizione istintiva si fa certezza incrollabile e quando una cosa lungamente attesa si realizza,magari contrariamente ad ogni aspettativa.

Ce lo domandiamo spesso se, per raggiungere questa condizione di estatica contemplazione di un’altra esistenza, esistano delle coordinate precise da seguire:una mappa, una scorciatoia, una dritta furba.

E invece no: tocca arrangiarsi. Che poi, in sostanza, significa mantenere una linea di genuinità.

Resta il fatto che l’occasione in cui si riesce a osare amore è un posto bellissimo, la cui particolarità incanta gli occhi e il cuore e invita a trastullarsi per sempre nella deliziosa incapacità di distinguere il sogno dalla realtà.

Ed è proprio con questo spirito intriso di ingenua incredulità, di movenze incerte, di sequenze interrotte da sguardi lucidi come di pianto ma di coscienza estremamente consapevole e padrona di sé che dovremmo osare tutto l’Amore di cui siamo capaci e dargli peso.

E’ l’unica strada che rende sostenibile la leggerezza del DISAMORE ricevuto.


Valeria Frascatore_

Ho 47 anni. Coniugata, due figli. Sono un ex avvocato civilista, da sempre appassionata di scrittura. Sono autodidatta, non avendo mai seguito alcun corso specifico sulla materia. Il mio interesse é assolutamente innato, complici – forse – il piacere per le letture, la curiosità e la particolare proprietà di linguaggio che,sin dall’infanzia, hanno caratterizzato il mio percorso di vita. Ho da poco pubblicato il mio primo romanzo breve dal titolo:Il social-consiglio in outfit da Bianconiglio. Per me è assolutamente terapeutico alimentare la passione per tutto ciò che riguarda il mondo della scrittura. Trovo affascinante l’arte della parola (scritta e parlata) e la considero una chiave di comunicazione fondamentale di cui non bisognerebbe mai perdere di vista il significato, profondo e speciale. Credo fortemente nell’impatto emotivo dello scrivere che mi consente di mettermi in ascolto di me stessa e relazionarmi con gli altri in una modalità che ha davvero un non so che di magico.




Brebbus.

Foto di Raffaele Montepaone_ Life_ Tutti i diritti riservati_
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di Maria Patrizia Soru_

Adagiato al centro della piana di Uras, al limite nord-orientale del Campidano (in provincia di Oristano), coperto da lussureggianti lecci e macchia mediterranea, Monte Arci svela la sua origine e  storia senza tempo, è un vulcano dormiente.  Trebina LongaTrebina Lada e Corongiu de Sizoa sono le tre vette che richiamano all’immagine di un treppiede, sono ciò che rimane dei tre condotti vulcanici che hanno dato origine al monte ed al suo inestimabile tesoro, l’Ossidiana.

Considerata “l’oro nero della Sardegna”, l’Ossidiana è una “pietra vitrea” rara, di origine vulcanica, la sua formazione è dovuta al rapido raffreddamento della lava a seguito di un’eruzione. Il suo colore è  nero ed in sardo è chiamata “sa pedra crobina” letteralmente “la roccia nera come il corvo”, anche se il suo colore non è sempre uniforme ma cangiante. Se colpita dai raggi del sole è possibile vederne la vitrea trasparenza e talvolta animarsi di diversi colori, dal nero al grigio, dal caldo rosso al marrone o al verde, fino candido bianco.

E’ un viaggio lungo milioni di anni quello dell’Ossidiana, un viaggio che dal centro della terra la porta fino a noi, tra le nostre mani.

Seguendo le sue vie in senso letterale, è possibile ripercorrere la storia del popolo sardo e delle sue tradizioni. Ad onor del vero altre regioni nel Mediterraneo conservano questo tesoro, Lipari, Pantelleria e Palmarola, anche se è certo che i più ricchi siti di estrazione sono quelli del Monte Arci in Sardegna. Sono e forse lo sono sempre stati in quanto i  primi indizi sullo sfruttamento sistematico della risorsa ad opera dei così detti ‘scheggiatori’ specialisti che la preferirono alla Selce, risalgono al Neolitico recente (II metà del V millennio a.C.), epoca in cui si sviluppò la grande officina di Conca ‘e Cannas e l’Ossidiana divenne il cardine degli intrecci commerciali nel bacino del Mediterraneo.

“Pietra di fuoco” anche questo nome le appartiene, richiamo alla calda e rossa lava che una volta spenta e modellata dall’uomo cerca ancora il “ rosso calore”, quello del sangue. Quel sangue che probabilmente intrise le mani di colui che per primo scoprì che la “pietra nera”  era facile da scheggiare e modellare in oggetti acuminati indispensabili per la vita ma indissolubilmente legati alla morte. Dagli utensili d’uso quotidiano, quali lame e raschiatoi probabilmente per la lavorazione delle pellialle armi da getto: le punte di freccia. Strumento indispensabile per la vita è una punta di freccia in ossidiana issata in cima ad un sottile bastone tra le mani di un cacciatore in cerca di una preda per sfamarsi, per sfamare. La stessa punta di freccia assume un altro significato tra le mani di un guerriero in cerca del “nemico”, pronto a difendere o difendersi seminando morte e dolore all’interno del genere umano.

Una pietra così affascinante ed importante per la sopravvivenza, ha assunto presto un valore ed un significato speciale a tutela della persona e come ornamento, un uso intimo e personale, l’amuleto.

Gli oggetti destinati ad uso personale, sono strettamente legati all’ambito tradizionale che negli anni li ha replicati sostanzialmente immutati, tanto da risultare difficoltoso distinguere visivamente gli esemplari antichi da quelli recenti.
“L’amuleto” vero e proprio non è prezioso nei materiali e non è mai di grandi dimensioni. Il materiale usato per le montature è sempre l’argento in lamina, talvolta dentellata, o lavorato a filigrana. Le catenelle che uniscono i diversi elementi che li compongono sono costituite da perline di varia forma e differenti materiali, legate tra loro con maglie anch’esse d’argento; la tecnica di lavorazione è solitamente piuttosto elementare. Assai rilevante è però il significato magico-religioso che gli amuleti hanno assunto nella loro lunghissima storia. In Sardegna non si è sviluppata una “magia colta” come quella persiana, giudaica o egiziana, profondamente legata allo studio dei problemi dello spirito e del movimento degli astri a cui si connetteva non solo il conteggio del tempo ma ogni evento naturale.

Gli amuleti ebbero vasta diffusione. Sono questi gli oggetti concreti che la magia semplice, popolare, impiega come strumenti di difesa, con efficacia specifica o generale, contro qualsiasi sofferenza che derivi da cause sconosciute, pertanto ritenute soprannaturali. “Per la loro forma o per la struttura della loro materia, arricchiti talvolta da formule magiche, incorporano la potenza che attiene al soggetto divino di cui sono riconosciuti simbolo e la esercitano in favore di chi li tiene vicini portandoli sulla persona, appesi a capo del letto o della culla, posti sotto il cuscino o fissati alle vesti.” Dovrebbero assicurare benessere, abbondanza e fortuna, tenere lontani i pericoli e preservare dalle malattie e dai malefici.
Gli amuleti formati da più oggetti magici, collegati da una catena o saldati direttamente tra loro, ottengono un effetto maggiore: ogni singolo elemento infatti è dotato di una propria forza che si somma a quella degli altri per concorrere, nel modo più efficace, a tutelare chi li possiede contro i diversi malefici. L’uso dei talismani è documentato sin dall’Età del ferro; dal periodo tardomedioevale e rinascimentale sussistono  anche numerose rappresentazioni iconiche e letterarie in ambiente cristiano.

In Sardegna, più che in altre regioni, sono stati rinvenuti antichi amuleti del pantheon egizio e di quello punico che da esso dipende. Tuttavia, col mutare dei tempi e dei costumi, se pure numerose credenze magiche hanno continuato a sopravvivere, gli amuleti hanno subito numerose variazioni, causate dal sovrapporsi di altre culture sino ad essere gradualmente sostituiti da tipologie diffrenti. Una nuova era, per l’universo magico della Sardegna, ha avuto inizio nel corso del XIII secolo quando arabi ed ebrei, provenienti dal Maghreb e dalla Spagna meridionale, stabilirono relazioni commerciali dirette con l’Isola.

La presenza in Sardegna di persone che, come gli antichi egiziani, affiancavano alla religione alcune pratiche esoteriche, può spiegare la sostanziale comunione tra simbolismo religioso cristiano e sovrapposizioni di culture più antiche, una confluenza che ha plasmato le credenze e le pratiche magico-religiose popolari dell’isola. “Le caratteristiche pratiche ad esse legate sono rimaste in uso sino all’inizio del Novecento, nonostante gli anatemi lanciati dal Sinodo di Cagliari sin dal 1652 e costantemente replicati da quelli successivi, nei quali si condanna esplicitamente la magia e l’uso di portare con sé amuleti. Ma pressoché ovunque la volontà popolare manifesta una forte resistenza nel  coltivare una ritualità estranea alla religione ufficiale.”
La credenza nel “malocchio”, ovvero nei poteri malefici espressi per mezzo dello sguardo, è documentata per la prima volta in testi magici egizi della fine dell’Antico Regno, duemila anni prima della nascita di Cristo, ma le sue origini risalgono certamente a tempi ancora più lontani, ad un epoca mitica nella quale l’uomo primitivo vedeva nel sole e nella luna l’occhio destro e sinistro della divinità celeste primordiale.
L’osservazione degli effetti talvolta malefici, prodotti dallo “sguardo” dei due “pianeti-occhi” sui campi e sulle acque, generò la convinzione che l’origine di qualsiasi sofferenza fosse causata dall’influenza del cosi detto “occhio cattivo”. Poi, quando la capacità di emanare questa forza venne attribuita ad alcuni individui ritenuti, forse a causa del loro aspetto, possessori anche del tutto inconsci di tale prerogativa, la superstizione del “malocchio” raggiunse una diffusione enorme. A seguito della credenza secondo la quale la persona, prendendo contatto attraverso il simbolo con il suo modello, diviene “una porzione di quell’essere “magico” e acquisisce l’immunità e la tutela dalle sue influenze malefiche”, così da permettere agli amuleti degli “occhi” di godere  di grande diffusione e popolarità.

Il mistero della fecondità della donna e della terra è il primo fenomeno che l’uomo si è prefisso di controllare e favorire attraverso la forza magica. Si può presumere che ad assicurare la fertilità siano state preposte, già in epoca paleolitica, le celebri statuette definite, “Dea Madre” che sono state ritrovate in molte regioni dell’Europa e dell’Asia e, in gran numero, anche in Sardegna.

Amuleti con conchiglie marine, ritenute sin dalle origini dell’uomo una potente tutela contro il malocchio, sono stati ritrovati in Sardegna nelle tombe puniche. Le stesse virtù delle conchiglie sono state attribuite nella religione giudaico-araba agli opercoli di alcuni gasteropodi come il Turbo rugosus che per la sua forma, richiamante quella dell’occhio, è divenuto l’amuleto deputato più di ogni altro a proteggere gli occhi da ogni male. Per questa funzione, nella religione popolare cristiana, si ritrova accoppiato ad un’immagine sacra ed è denominato “occhio di Santa Lucia”.

Il corallo che un tempo era ritenuto una pietra, deriva la sua valenza “amuletica” dal colore rosso, questa volta da identificare come simbolo del sangue che, per i popoli antichi rappresentava l’energia vitale in conseguenza del fatto che, alla perdita del sangue nell’uomo e nell’animale, si accompagnava la fine del vigore e la morte. Perciò il colore rosso fu ritenuto portatore delle stesse forze misteriose del sangue e quindi capace di dispensare forza e vitalità. 
Vi è inoltre la teoria che abbina alcune pietre alle costellazioni zodiacali e ai pianeti del sistema solare, la cui influenza ricade sulla vita terrestre, tale teoria era riconosciuta sin dai Caldei, anche se  di connessione tra Zodiaco e gemme si parla anche nella Bibbia e, nel III secolo, San Girolamo osservò una precisa corrispondenza tra dodici pietre preziose e i pianeti.
“Anche l’ambra, il giaietto ed altre pietre fossili, che derivano la valenza magica dall’essenza della struttura della loro materia danno vita a molti amuleti sardi. Ad esse si accompagnano altre pietre, quali il diaspro, l’onice e l’agata che si collegano alle gemme gnostiche”. Nel corso del tempo a tutte queste si sono sostituite, sempre con funzione terapeutica, “pietre” di pasta vitrea bianca o colorata con ossidi metallici in rosso, in blu azzurro e in verde. A queste sono stati dati simbolicamente la forma sferica e il colore associati ai pianeti  considerati come perfetti e divini e guidati da angeli, dei quali le pietre racchiudono gli influssi particolari nell’ambito del complesso sistema sia magico che astrologico e religioso, che determina il simbolismo dei colori. La sfera di vetro rosso, insieme con quella azzurra o con quella verde è il simbolo degli occhi di Horo che così sono descritti nei papiri delle Piramidi.  In questi si legge appunto che gli occhi erano uno rosso e l’altro azzurro o verde. 
Nella tradizione magica giudaico-araba, ed anche in Sardegna, venne attribuito lo stesso valore agli occhi di Santa Lucia. 

Valenze diverse hanno invece la pietra bianca “Perda ’e latti”  (la pietra di latte) e la pietra nera, chiamata a seconda delle aree geografiche della Sardegna, SabegiaPinnadellu o Kokko .  La prima provvede a non far mancare il latte nel seno materno, mentre l’altra, in giaietto o ossidiana, lenisce ogni dolore ed è ritenuto protegga contro tutti gli animali velenosi.

L’ossidiana esprime quindi, ancora oggi il suo potere e la sua valenza magica attraverso un ornamento/amuleto semplice e di forma sferica che simboleggia l’occhio. Un occhio buono a protezione di un altro occhio cattivo che genera is Mazzinas ( le fatture e le maledizioni in lingua sarda) o S’ogu malu (l’occhio cattivo) che si posa sul soggetto. Si narra che se il supporto d’argento sul quale è incastonato arriva a spezzarsi, la persona è stata in pericolo di vita per via di una maledizione e l’amuleto ha offerto se stesso a protezione imprigionando al suo interno  il maleficio. Qualora questo dovesse accadere il talismano andrebbe sostituito poiché saturo ed incapace di proteggere ancora.

La tradizione secolare prevedeva che questo amuleto venisse regalato dalle mamme, dalle madrine o dalle nonne alle spose, alle donne in attesa ed alle ragazze che diventavano adulte, ma anche ai neonati in forma di spilla da nascondere nella culla. Prima di essere donato doveva essere benedetto attraverso le preghiere in lingua sarda dette “Brebbus” con funzione di protezione.

Sacro e profano accompagnano tra i secoli la storia dell’ossidiana in Sardegna rendendo sempre vivo ed attuale l’interesse per una pietra che altrimenti sarebbe stata dimenticata.

Non sono in grado di valutare quanto ancora il “potere magico” di questa pietra influenzi la scelta di farne o farsene dono. Ho vacillato a lungo come sospesa in equilibrio su un filo tra razionale ed irrazionale, per capirne il fascino ed il potere. So per certo che l’ossidiana ha accompagnato la mia vita sin da bambina nei frammenti di pietra che raccoglievo nelle scampagnate con i miei genitori attirata dal nero lucente. Così come è altrettanto vero che in fondo, anche se so di non credere in nessuna superstizione, con serenità posso ammettere che quella pietra mi a colpito al cuore. 

Da bambina sono sempre stata abituata alla presenza dei nuraghi, delle domus de janas o delle tombe dei giganti. La storia faceva parte del paesaggio, ne era complementare, ed il tempo che passava aveva un significato sconosciuto. A otto anni è presto per innamorarsi così come è presto per capire chi si vuole diventare. Poi capita che a varcare la porta della mia classe in terza elementare sia un omino curvo su se stesso che tra le mani tiene una piccola teca di legno e vetro, contenente il frutto delle sue passeggiate al di là degli argini che contengono il Tirso. Adagia sulla cattedra inconsapevole, ciò che diventerà una parte della mia vita, il mio quanto mai “remoto” futuro. Quando ho guardato attraverso il vetro ho visto, distese fiere  su un purpureo velluto, punte di freccia d’ossidiana capaci dopo millenni di trafiggere ancora, non le carni, ma l’anima ed il cuore. Di quella piccola lezione di preistoria sarda, credo di aver assimilato ogni singola pausa, respiro, parola, mente gli occhi fissavano le frecce e la mia mente produceva immagini tinte di sangue e mille emozioni. Quelle poche ore, non mi hanno mai abbandonata, anche quando la mia vita sembrava aver preso un’altra direzione e quella punta di freccia in ossidiana tornava puntuale alla mente e mi faceva battere il cuore. Ora forse posso ammettere che il  mio presente è legato ad un inconsapevole “ arcaico cupido-cacciatore”, abile nel modellare e fissare la punta di freccia in ossidiana sul suo sottile bastone, abile nell’averla saputa lanciare oltre il tempo e lo spazio immaginabili, dritta verso la mia anima ed indelebile nella mente.

Non so cosa potrà pensare chi leggerà questo testo sospeso tra storia e superstizione ma, su di me l’ossidiana del Monte Arci, ha compiuto un incantesimo che va oltre il razionale e forse di non semplice comprensione.

Per approfondimento vedi il libro : Gioielli, Storia, linguaggio, religiosità dell’ornamento in Sardegna,  2004 (pag. 83-87); ILISSO EDIZIONI, Collana di ETNOGRAFIA E CULTURA MATERIALE / Coordinamento: Paolo Piquereddu.

http://www.sardegnacultura.it/documenti/7_49_20060414131456.pdf

https://www.sardegnaturismo.it/it/esplora/museo-dellossidiana

https://www.youtg.net/canali/turismo/sardegna-fuori-rotta/121-sardegna-fuori-rotta/15053-il-monte-arci-i-suoi-segreti-e-l-ossidiana-un-viaggio-con-sardegna-fuori-rotta

https://www.donnadifiori.info/donna-fresia/cucci-amuleto-delle-donne-sarde/

http://www.tottusinpari.it/2018/12/27/la-via-dellossidiana-loro-nero-in-sardegna/

https://www.sardegnaturismo.it/it/esplora/parco-del-monte-arci


Maria Patrizia Soru è una Guida Turistica Archeologica.
Appassionata di Storia e letteratura della Sardegna, è alla continua ricerca di immagini e parole capaci di raccontarne il passato, il presente ed il futuro della sua Terra.




L’Amor Capestro.

illustrazione Mario Barbieri
(è vietata la riproduzione senza autorizzazione scritta).

di Mario Barbieri,

Qualche giorno fa, mi sono ritrovare a chiacchierare con una persona pressoché sconosciuta, mentre entrambi aspettavamo il nostro “turno distanziato” nei pressi di un ufficio pubblico.

Come talvolta capita tra sconosciuti, forse proprio perché tali, forse per “empatie” che ci sfuggono o solo perché chi si racconta ha voglia di farlo, oltre all’elenco di una serie di acciacchi e malanni che mai non possono mancare, vengo a conoscere parte dell’umana vicenda che ha coinvolto e segnato questo comunque simpatico signore ultra cinquantenne.

In modo sintetico qui li riassumo perché questi episodi, questi “fatti di vita”, sono il punto di partenza per la mia riflessione spero non banale.

Quest’uomo, sposato o “accompagnato” come usa dire, non ricordo ma è dettaglio secondario, quando la figlia ha nove mesi, vede le sua moglie/compagna, andarsene con un altro uomo e lasciarlo solo con la figlia, senza più “voltarsi indietro” e, se ho capito bene , senza più avere alcun tipo di rapporto con lui e neppure con la figlia.

L’uomo cresce la figlia e quando questa è adolescente, lui si trova a frequentare un’altra donna o forse negli anni più di una, ma i suoi stretti legami con la figlia, gli impediscono di avere una relazione stabile o di convivenza e di fatto oggi si trova solo e con la figlia oramai ventiseienne che è uscita di casa.

Possiamo partire da qui cercando di evitare giudizi e/o sentenze sui comportamenti di una o dell’altra persona e nel contempo prendendo per buono il racconto dell’uomo, che è ovviamente solo la sua versione dei fatti. Capirete spero in seguito, che la ratio non è “scoprire la verità” o arrivare a stabilire chi si è comportato peggio e chi meglio rispetto le nostre idee o la morale. Quella morale che si può considerare comune e che si vorrebbe potesse segnare la netta demarcazione tra il Bene e il Male.

Sospendiamo il giudizio morale su una madre che abbandona un figlia di soli nove mesi per andarsene senza tornare indietro. Quello che mi preme indagare e evidenziare è il motivo (per come mi è stato raccontato) che ha portato a questa drastica e per certi versi terribile, decisione.
La donna, aveva una relazione con altro uomo e questi, alla nascita della figlia o comunque qualche mese dopo, avrebbe posto un diktat: “Scegli… o me o tua figlia, perché io lei non la voglio con noi!”.

Terribile diktat, terribile scelta, ma dal racconto fattomi pare ci sia stato l’uno e l’altra e quella donna sceglie l’amante. Potremmo dire l’amore? Non so…

Facciamo un salto in avanti. L’uomo prosegue nel suo racconto e mi narra di come ha allevato la figlia e come il loro si diventato un legame molto forte, totalizzante, al punto che la figlia, divenuta adolescente, non accetta che il padre frequenti alcuna donna o quantomeno, che un’altra donna entri in modo stabile nella loro vita. L’uomo, il padre, sceglie in questo caso la figlia, il suo legame con lei e tronca il rapporto con una possibile compagna. Ma, a ventiquattro anni, la figlia, come fanno o dovrebbero fare tutti i figli, lascia la casa del padre per andare a vivere da sola. Una sua legittima scelta e chi rimane (nuovamente) solo è il padre. Rimangono in buoni rapporti, si sentono e vedono spesso, ma questa è un’altra questione e meno male almeno questa consolazione al mio compagno d’attesa, è rimasta.

Siamo al dunque… potremmo arrivare alla morale – che niente ha a che fare con il moralismo – di queste umane vicende. Una morale amara ma reale, una morale temo tutt’altro che rara da ritrovare, quella dell’ “Amor Capestro”. Quel tipo di amore intriso e anzi costruito su tanto e tale egoismo che fa del supposto “amore” un capestro appunto, una corda al collo o talvolta una prigione, un’arma carica puntata alla tempia. E’ quel (supposto) amore che ti chiede di scegliere tra lui – l’amor capestro – ed un altro amore.

L’amore dell’amante – in questo racconto – che chiede ad una madre di scegliere tra lui e la figlia!
L’amore di una figlia – in questo racconto – che chiede al padre di scegliere tra lei e un possibile amore “rivale”, anche se non esattamente dello stesso genere.
L’ Amor Capestro è quello che ti mette difronte ad una scelta obbligata, una scelta dolorosa, una scelta che comunque ti infliggerà sofferenza. Finirà per stringersi al punto ti mancherà il respiro!

Perché non stiamo parlando di quella scelta che per quanto difficile, può per amore, cambiarti in meglio la vita – scegli me, o la bottiglia! Scegli me o la tua droga! E tante volte non la si spunta perché sono legami o meglio catene ben più complesse – ma di rinunziare ad una parte di ciò che ami, perché qualcuno, vuole questo tutto per sé, non permette esista altro. Un egoismo che inghiotte, come un buco nero. Un amore che non riesce ad amare ciò che tu ami, un amore “taccagno” nel migliore dei casi.

Io amo te, ma tua figlia che non è mia, mi dispiace no. Non ci riesco e forse neppure voglio provarci.
Io ti voglio bene papà, ma questa donna che non è mia madre, mi dispiace no. Non ci riesco e forse neppure voglio provarci.

Bisognerebbe avere la forza di fuggire dall’Amor Capestro… e qui veniamo all’ultima parte della mia riflessione, per chi ha avuto la pazienza di legger sin qui.
La debolezza, la paura, del restare soli, del “perdere l’amore” (seppur capestro).
Una paura che forse un po’ tutti ci attanaglia, ma che talvolta è tale e talmente forte, che acceca, non permette di vedere l’evidente, di avere discernimento, di indirizzare le nostre scelte verso un bene maggiore. Un bene maggiore che non coincide per forza con il nostro “immediato bene”, che anzi nell’immediato ci porterà nuovamente una sofferenza, uno strappo, magari un conflitto, ma nel tempo ci ripagherà.
Per essere pratici, possiamo calare questa idea, nuovamente, nella vicenda umana raccontata.

“Mi chiedi di scegliere tra te e mia figlia? Scelgo mia figlia e non perché ami più lei di te, ma perché mi rendo conto che tu non mi ami e sei incapace di amare ciò che amo, semplicemente mi vuoi (forse), ma se mi amassi non mi chiederesti una cosa del genere! Mi domando cosa mi chiederai domani…”.

“Figlia mia, lo sai quanto bene ti voglio, ma se anche tu mi vuoi bene, perché mi chiedi di restare solo, di rinunciare a chi mi può stare vicino, con cui spero condividere una altro pezzo della mia vita anche quando tu te ne sarai andata… perché figlia mia tu, come è giusto, te ne andrai, te ne andrai con chi amerai in modo totale e diverso dal bene che dici di avere per me… e io ne sarò felice!”.

Questo forse è quello che si sarebbe potuto dire e certamente ci sarebbero potute essere delle conseguenze, non è detto che tutto si sarebbe risolto con un abbraccio piuttosto che con una rottura, ma nella vita le scelte possono essere “stroncature” che non lasciano speranza o “potature” di evangelica memoria, che permettono all’albero di crescere più rigoglioso e forte di prima… e a suo tempo dare frutto.


Mario Barbieri, classe 1959, sposato, tre figli ormai adulti.
Appassionato di Design e Fotografia.

Inizia la sua carriera lavorativa come illustratore, passando per la progettazione di attrazioni per Parchi Divertimento, negli ultimi anni si occupa di arredamento, lavorando in particolare con una delle principali Aziende Italiane nel settore Cucina, Living e Bagno.

Blog:
https://ceuntempoperognicosa.wordpress.com/
https://immaginieparoleblog.wordpress.com/




La quadrilogia de “L’amica geniale” – Elena Ferrante

Un libro ben scelto ti salva da qualsiasi cosa. 

Persino da te stesso”


Rubrica a cura di Sara Balzotti_

“L’amica geniale” di Elena Ferrante 

Casa editrice: Edizioni e/o 

Anno di pubblicazione: 2011

Genere: narrativa 


Ho letto la serie dell’amica geniale nel 2015 e per un anno intero non sono più riuscita a leggere altro!

La storia viene sviluppata in quattro libri e racconta l’amicizia fra Elena (Lenù) e Raffaela (Lila) nata nell’infanzia e proseguita fino all’età adulta.

Il racconto della loro amicizia viene contestualizzato nelle vicende familiari di entrambe; le difficoltà e le esperienze tipiche di ogni fase della crescita delle due ragazze (infanzia, adolescenza, età adulta) sono ben descritte e assolutamente coinvolgenti.

Lenù e Lila hanno caratteri molto differenti.

Lenù è timida e introversa e, solo all’apparenza, fragile. 

Lila è un vulcano, ribelle, eccentrica; la sua sicurezza in se stessa l’ha raggiunta soltanto a seguito di tanti sacrifici.

Entrambe vivono una vita familiare molto difficile e dolorosa; Lila forse è quella che ne risente di più e il suo futuro verrà fortemente condizionato dal rapporto con il padre e il fratello.

La storia è ambientata nella Napoli degli anni ’50, ancora libera dalle problematiche politiche e sociali di oggi ma non per questo più facile. 

Le regole del rione sono spietate; la famiglia è molto dura e violenta con i figli ed essere donna comporta farsi carico di pesi molto grandi da sopportare.

La serie coinvolge il lettore per l’intensità della scrittura. Gli sviluppi sono molto chiari e l’attenzione viene mantenuta alta fino all’ultima pagina; quattro libri possono essere tanti per la storia della vita delle due amiche ma assolutamente non viene mai meno la passione del racconto.

Elena Ferrante mantiene alta l’attenzione e le emozioni che regala sono varie e di alto livello. Non ho mai avvertito un calo nella storia, ho divorato tutti i libri, assetata del prosiéguo e addolorata per gli eventi che si susseguono.

Si tifa per Lila, per la sua forza e la sua capacità di non arrendersi, nonostante le sue contraddizioni.

Si apprezza Lenù per la precisione del racconto e l’amore, a volte soffocato, per la sua città e i suoi abitanti. Le sue origini le rimangono nel sangue, anche quando cerca di rimuoverle e i sentimenti che prova entrano nel sangue del lettore.

Il successo di Elena Ferrante non è mai abbastanza per le emozioni regalate dalla sua serie “L’amica geniale”!


Ciao a tutti! Sono Sara Balzotti. Adoro leggere e credo che oggi, più che mai, sia fondamentale divulgare cultura e sensibilizzare le nuove generazioni sull’importanza della lettura. Ognuno di noi deve essere in grado di creare una propria autonomia di pensiero, coltivata da una ricerca continua di informazioni, da una libertà intellettuale e dallo scambio di opinioni con le persone che ci stanno intorno. Lo scopo di questa nuova rubrica qui su FUORIMAG è quello di condividere con voi i miei consigli di lettura! Troverete soltanto i commenti ai libri che ho apprezzato e che mi hanno emozionato, ognuno per qualche ragione in particolare. Non troverete commenti negativi ai libri perché ho profondamente rispetto degli scrittori, che ammiro per la loro capacità narrativa, e i giudizi sulle loro opere sono strettamente personali pertanto in questa pagine troverete soltanto positività ed emozioni! Grazie per esserci e per il prezioso lavoro di condivisione della cultura che stai portando avanti con le tue letture! Benvenuto!

A questo link qui sotto puoi trovare altre mie recensioni.

https://www.francesia.it/freetime/consigli-di-lettura/




Assorbire il nero oscuro.


di Pierluigi “Pierre” Ibba.

Ogni giorno quando mi sveglio una delle prime cose che faccio è guardare il cielo. Credo sia una sorta di saluto al mondo, al pianeta . Saluto, ringrazio e mi preparo il caffè, la mente potrebbe “sembrare” sgombra ma la mia è carica di sogni, tutti legati alla bicicletta.

Riflettendo, tra un cucchiaio e l’altro mentre riempio la mia moka di caffè, a volte mi sorprendo della sensazione che questo mezzo mi crea. Rilassamento, ma anche una carica energetica, un desiderio un bisogno proprio fisico di salirci e di provare quel senso innato di vivere…

La bicicletta per me rappresenta il perno su cui far girare la mia vita. É quel lato che trasforma il mio modo di relazionarmi, rapportarmi al mondo circostante e ancor più a me stesso. Vivere la bici è il vero senso della libertà, della gioia e del delirio delle mie paure. Sto in bilico attraverso il mondo e ha volte questo si paga. Se conosci le sensazioni del poter pedalare sai cosa vuol dire, non la puoi spiegare a qualcuno che non l’ha mai provata. Ma io ci provo, troppo bello poter far sognare le persone.

Si la bicicletta è fatta di sogni, che poi grazie a lei diventano realtà. E Forse proprio quella realtà diventa ancor più bella in sella. La mia bici quindi diventa una sorta di identità, il mio stile, la mia indole, il mio vero essere. É una prova di forza, è il coraggio di valicare i miei limiti, di voler scoprire, andare oltre…Ecco questo “tratto” è il mio preferito, la scoperta inebria, la mente si apre e il mio corpo si adatta tra il ritmo della mente e del cuore. I miei occhi aperti, l’aria che mi impregna il viso, le mie gambe, dure, a volte…Sensazioni, dolori anche profondi come la vita… La bici ti guarda in faccia, ti affronta , a volte vince, a volte vinci tu, altre ti logora perché ti porta all’estremo di tutto.

Mi sono spesso sorpreso, ancor adesso che sto scrivendo accade, di quanto subisca la sua mancanza. Se non pedalo in qualche maniera soffro. Come mi capita per la perdita di qualcuno di speciale. Un vuoto potente. Ditemi pure che può sembrare follia la mia, ma è vero…Mi succede anche ora che cerco in ogni modo di far capire che cosa valga davvero la pena vivere attraverso una bicicletta. Sembreranno solo una accozzaglia di emozioni sconclusionate, invece, quasi istintivamente come un correttore automatico, la bicicletta distribuisce in modo naturale le cose, soprattutto il sorriso. Credo di non essermi mai sentito così “naturalmente” felice come quando salgo su una bicicletta, di qualsiasi forma essa sia. Potrei quasi definirla curativa per i miei “bui emotivi” ; assorbe il nero scuro e rilancia i colori, li irradia; ecco perché dovremmo fare di tutto e spingere le persone a usare una bicicletta, anche per i piccoli tragitti. Un cambio di rotta, un modo di intendere la vita più leggera. Chi lo sa se il mondo capirà che la bici è il futuro dell’uomo…per me è così.

Sono selvaggiamente sporco, amo il selvaggio e il pantano che mi resta attaccato, amo le vie impervie e i colori delle montagne nei boschi. L’asfalto l’ho vissuto molto, le paure date dal traffico dagli automobilisti e dalle distrazioni ovviamente le conosco, ma preferisco il rischio naturale dove l’errore resta umano e non del caso. Dove e come sentirsi lo dice il percorso, mi indica dove scegliere le vie che mi portano alla gioia di raggiungere un luogo davvero speciale ,una discesa ripida. Il punto più alto del viaggio è il mio momento più intenso, se poi uno sguardo arriva a vedere la vastità del mondo, allora è davvero indimenticabile. I momenti più alti sono quelli in cui il mio istinto prevale sulla mia ragione. Il vero coraggio di voler vivere senza trattenere le emozioni catturandole una ad una, una scorpacciata di vita.

La vera forza della bicicletta sta nel non dare limiti a me stesso, se mi sento di andare, uno scatto mi spara in paradiso. Se amo vivere e cogliere l’attimo tengo una velocità leggera, ascolto il rumore del cuore e del terreno, e se invece ho bisogno di riflettere basta fermarmi, posare la bici e sdraiarmi per terra, ed osservare il cielo.

Tutto questo per me è vita, da vivere adesso, senza più rimandare .


Pierluigi “Pierre” Ibba.

Il mio é un amore, e la bici mi rende vivo.Ho fatto molti sport ,ma solo con lei vivo questa energia questa essenza di vita e libertá. Ho 40 anni ,ma ho un energia da ragazzino. Tutto ció che piú vorrei é poter lavorare e vivere per e con la mia bici. Sono di origine Sarda, anche se nato in veneto, e naturalmente amo la Sardegna, altro infinito amore che sento vibrare profondamente in me.

p.s.= la bici sullo sfondo è “Daisy”, la mia vecchia bici protagonista di molte avventure.