I Nodi di Giusi

(di Marina Ruberto)

Ho conosciuto Giusi Loisi ormai parecchi anni fa, in un’agenzia con cui collaboravo come free lance.

Era una giovane account arrivata da non molto dalla sua terra natale: la Puglia.

La portava con sé nell’espressione aperta, nei colori della parlata, nel sorriso sincero e negli occhi un po’ selvatici, dal taglio asiatico. “Da husky”, le dicevo.

Barese normanna: bionda, occhi azzurri.

Una bella ragazza allegra e divertente, che un venerdì, a fine giornata, tirò fuori un’intera valigia di abiti che le aveva disegnato la madre, per deliziare i colleghi con un ironico defilé, tra mille risate e commenti da casting.

Io l’avevo appena conosciuta e, da brava milanese tra il cinico e il diffidente, pensai che era troppo di tutto. Che una simile spontaneità e fiducia, non potevano essere autentiche.

Pensai: “ci fa”.

Poi, però, rapidamente, dovetti ricredermi. Diventammo amiche e lei mi aprì la porta della sua seconda vita: quella d’artista.

E allora compresi i legami. Anzi: i nodi.

Qualche anno fa, Giusi si è trasferita a Torino e, da allora, vive lì con il marito Francesco e il figlioletto Andrea.

Ma Milano le è rimasta nel cuore. Più amici qui che là. Tanti ricordi. Torna di tanto in tanto (ma, pandemia permettendo, tornerà proprio) per fare mostre e incontrare la “sua” città nel modo che preferisce: elettrizzante, stimolante, …e introspettivo. 

A distanza di tre/quattro anni dall’ultima volta che ci siamo viste “live”, ci ritroviamo davanti allo schermo di un computer. Felici di vederci, anche se avremmo preferito la modalità precedente.

Dimmi Giusi, il primo nodo non si scorda mai… Come ti è venuto in mente di cimentarti in quella che, forse, all’inizio parve una follia anche a te?

Ricordo perfettamente quella sera in cui mi prese il desiderio di quel gesto un po’ folle. Sentivo di aver  bisogno di “legare” una parte di me, con un’altra che pareva sfuggire.  Così feci la prima cosa che mi venne in mente: bucai la tela che avevo dipinto poche ore prima con un punteruolo e, nei fori, feci passare una corda grossa, intrecciandola fino a creare un nodo.  Credo sia stato il tentativo di legare il mio mondo terreno a quello spirituale.

Andiamo a caccia di significati, dai. Raccontaci la poetica delle annodanze con parole tue. So che non ami troppo i blabla. Magari ci facciamo aiutare da alcune definizioni che Manuela Gandini ha scritto di loro. Così sembriamo anche persone serie.

Annodanze. Il termine è un mix fra la drammaticità del nodo e la leggerezza delle danze. I nodi, il più delle volte non sono scomposti, ma ordinati come fiocchi di neve, sferici come ricci di mare o minacciosi come virus. Hanno fattezze organiche e sono tridimensionali. Come un’ossessione o un groviglio emozionale che riaffiora quadro dopo quadro, le Annodanze sono pensieri sottaciuti, materiali del subconscio, che prendono forma e si impongono al mondo con impeccabile pulizia formale.”

Manuela Gandini

Mi ritrovo in quello che ha scritto Manuela. Ha colto in pieno i miei “grovigli” e il tentativo di ordinarli in qualcosa di materiale. Che ha un inizio, una fine e un aspetto piacevole, compiuto. Molte delle persone che si avvicinano alla mia arte si riconoscono negli intrecci e nelle inquietudini delle Annodanze. Le stesse, in altre persone, scatenano sensazioni positive di allegria ed apertura.  A ognuno il suo nodo, insomma.  

Quando ti ho conosciuta abitavi nel “buco locale” di via Orti, ricordi? Era delizioso, ma quello che lo rendeva unico, era la presenza dell’enorme “donna riccio” che occupava quasi tutto lo spazio disponibile.

Raccontaci la tua ispirazione, prima e oltre le Annodanze.

In quel periodo stavo lavorando con materiali organici “morti” (foglie, aghi di pino, gusci di ricci di mare) a cui  intendevo dare una “seconda chance”.

La donna riccio, in particolare, è il risultato di un’esperienza, una ricerca introspettiva che si è tradotta nella rappresentazione della mia dualità. Un io “diviso” tra  spine dell’anima e forme del corpo.

Torniamo alle Annodanze, la parte della produzione artistica su cui hai lavorato di più. Hai fatto performance in giro per Milano (a cui ho anche assistito) dove costruivi un nodo in diretta. Negli occhi degli ospiti c’è sempre stata molta partecipazione e curiosità. Cosa c’è di diverso nel lavoro fatto in solitudine e quello eseguito davanti a un pubblico? Ti arricchisce la presenza altrui? Ti carica?

Il lavoro in pubblico è più istintivo ed emozionante, rispetto a quello in solitudine. La presenza delle persone, le voci, il brusio mi aiutano ad  estraniarmi e a entrare in una sorta di trance.

E’ quasi come se il lavoro, il mio nodo, si facesse da solo…seguendo dei percorsi “guidati”. So che può sembrare strano ma “gli altri”, non mi distraggono affatto. Anzi: mi rilassano. Quando sono sola, devo trovare dei mezzi alternativi per concentrarmi. Quasi sempre la musica.

E’ stato qualcuno a suggerirti questa modalità?

Ho fatto la prima performance durante il concerto di un’amica ed è venuta benissimo perché era la sua musica a portarmi. Sinceramente non ricordo chi delle due abbia pensato per prima a quest’unione di espressioni. A volte, le cose migliori nascono così spontaneamente da non avere un solo ideatore.

Dicci qualcosa dei materiali che utilizzi. Come si è evoluta, nel tempo, la tua ricerca?

Non uso pennelli ma corde, cordoni, fili, lane per creare le forme che sono degli stati dell’anima.

Il punteruolo che buca la tela e la corda che l’attraversa mi portano ogni volta in una dimensione che non riesco a spiegare, è un viaggio sempre diverso.

Le annodanze sono sempre diverse, nelle forme e nei colori, come i mondi e i legami che rappresentano.

Veniamo all’oggi e alla tua ultima mostra al Grand Hotel Courmayeur Mont Blanc. Mi raccontavi che ci sono addirittura ben 52 tuoi quadri.

Come hai conciliato la tua vita di madre, di moglie e di account, con la necessità di “sfornare” una produzione così importante? Certo, la pandemia non ti avrà facilitata… 

Invece forse è stata proprio l’impossibilità di uscire, a rendermi le cose più facili. La casa è diventata anche il mio atelier. Ho lavorato di giorno, ma soprattutto di notte, per diversi mesi. Immersa in una frenesia creativa che mi ha stimolata moltissimo. Non avendo il tempo di pensare o sperimentare, creavo e basta. Forse per questo sono venuti fuori tanti nuovi lavori i cui risultati hanno stupito persino me.

Nel frattempo non ho smesso di dedicarmi alla mia famiglia e alla mia cucina, che tu conosci molto bene e senza la quale, credo che mi mancherebbe qualcosa.

Qualche chilo sicuramente…

Quindi, per finire, potremo vedere le Annodanze ancora fino al 30 settembre a Courmayeur, giusto?

Certo! I quadri sono sparsi per tutto l’hotel. E’ come fare una specie di tour all’interno di una splendida location, ai piedi del Monte Bianco.

Val la pena di fare un viaggetto.

Verrai con Paolo, vero?…

L’intervista può finire qui. Noi due abbiamo un sacco di cose da raccontarci, ma salutiamo i lettori dando loro appuntamento sul tuo sito  www.giusiloisi.it e sul profilo Instagram  www.instagram.com/giusi_loisi/ là dove i nodi si annodano con frequenza.




Poco da gasarsi

(di Marina Ruberto)

Anni fa, in Italia, la musica era ribelle.

I giovani se lo sentivano cantare da Eugenio Finardi e si gasavano.

Oggi, a Sanremo i “Ciovani” hanno gioito per la vittoria dei Måneskin: band rock di duri e puri la cui esponente femminile, durante la premiazione, ha riempito di parolacce i conduttori, rei di aver chiesto al gruppo un’altra esibizione.

Per carità.

In linea con l’immagine grintosa e il look dei quattro che, però, (per non incorrere nel reato di “già visto”) potevano fare a meno di sciogliersi in lacrime di commozione sul palco. Cosa che, invece, hanno puntualmente fatto.

Quanto al testo di Zitti e buoni, bah.

Sembra che la ribellione consista nell’affermare di essere diversi (da chi? Ah: da “loro”. Loro chi? La gente che non sa di cosa parla, gli uomini in macchina che non scalano le rapide, gli spacciatori che non aprivano la porta…) nonché “fuori di testa”.

Måneskin – ZITTI E BUONI (YouTube)

Bene.

A parte l’episodio abbastanza isolato, per lo più, oggi i “Ciovani” ascoltano Rap.

A chi fosse interessato, segnalo un articolo su alcuni dei suoi esponenti. Ma ce ne sono molti altri.

Io, che giovane non sono, mi limito ad osservare che i testi vertono (salvo eccezioni) su sesso, droga, nonsense e, a volte, persino violenza.

A caso, dal brano Lento di BoroBoro:

Giro por la calle e sono attento/Lei sopra di me lo muove lento/Steso dentro al letto, giuro che la spengo/E dopo faccio
Ra-pa-pam-pam
Ra-pa-pam-pam
Ra-pa-pam-pam”

E via così.

Ma l’ultima frontiera (che data ormai qualche anno) della musica Ciovane è il Trap. A chi fosse interessato e amante delle distorsioni vocali dell’Auto-Tuner, segnalo un altro articolo:

https://ripetizioni.skuola.net/blog/10-cantanti-della-musica-trap-italiana/

Ancora più che nel rap, qui si parla spesso di autoreferenzialità varie.

Sfera Ebbasta, uno dei portabandiera del genere, da tanto è diventato famoso, ha fatto pure un film che s’intitola (appunto) Famoso ed è un documentario sulla sua ascesa ai vertici delle classifiche europee.

Il testo della canzone omonima, recita:

Ora che sono famoso voglion farsi la foto/ fissano la collana, fissano l’orologio/

da piccolo guardavo /le scarpe in quel negozio/ mo’ tutte quelle che voglio/ le metto solo un giorno/ Non mi facevano entrare manco a pagare/ mò mi devono pagare per farmi entrare…”

Tutto chiaro?

Oltre a Rap&Trap ci sono le nicchie impegnate, naturalmente. Non proprio originali, a parer mio.  Tutti un po’ figli di Francesco DeGregori, ma lontani i chilometri.

C’è l’acclamato e  ben prodotto Mahmood (ospite a Sanremo), dal timbro vocale interessante e le melodie finto/arabeggianti, che continua a firmare successi. Quest’anno ha co-firmato la canzone seconda classificata, Chiamami col mio nome dall hype “ignorante”, appiccicosissimo e tutto sommato gradevole.

Bello l’official video della canzone, in cui il duo Fedez- Michielin canta dai palchi di una serie di teatri vuoti o chiusi per sempre durante la pandemia.

C’è Willie Pejote, a Sanremo pure lui con un brano come sempre ben scritto e divertente. Ci sono le giovani promesse che rimangono tali e infine c’è Ultimo, secondo all’edizione 2019, che pare riempia gli stadi con le sue canzoni pop/hip hop/altro.

Gli Ultimi saranno i primi. Già.

http://www.marinaruberto.eu/




Renzo Nissim: tra de Pisis, Lucio Battisti, Renzo Arbore e la Scuola Romana.

Renzo Nissim, Cupola di Santa Maria del Fiore, 1991. Olio su tavola.

Chiunque si interessi anche superficialmente di pittura, conosce certamente il nome di Filippo de Pisis, nome d’arte di Luigi Tibertelli (1896 – 1956). Ma anche i conoscitori più appassionati difficilmente sanno che Renzo Nissim (1907 – 1997) può considerarsi con cognizione di causa il suo ultimo, e talvolta degno, epigono. Anche nell’ecletticità: il ferrarese Filippo, laureato in lettere, è stato scrittore, poeta, critico d’arte e pittore; Il fiorentino Renzo, avvocato, musicista, giornalista radiofonico e televisivo, conduttore, commediografo….e pittore.

Nissim, per sua stessa ammissione, considerava De Pisis come il principale Maestro di riferimento: certo, cercando di distanziarsi dal suo stile (…non sempre ci è riuscito) ma, pur con risultati altalenanti, l’impronta del grande ferrarese è evidente.

Renzo Nissim, Cupola di San Pietro in Vaticano, 1992. Olio su tavola.

I due si erano anche conosciuti personalmente, quando Renzo acquistò delle opere direttamente dal Maestro: episodio raccontato dallo stesso Nissim nella sua interessante, divertente e consigliabilissima autobiografia “In cerca del domani: un’avventura autobiografica”, nella quale si narrano le peripezie di un giovane avvocato fiorentino, radiato dall’albo a seguito delle leggi razziali e costretto ad emigrare negli Stati Uniti, dove venne a contatto con molti artisti per poi diventare un commentatore radiofonico per varie emittenti, tra le quali “Voice of America”. Tornato in Italia alla fine dei ’50, proseguì in patria la sua carriera radiofonica e di musicista, oltre che come autore e conduttore di programmi musicali.

Renzo Nissim, Fori, 1993. Olio su tela.

Riguardo questo aspetto, tanto per far capire meglio il personaggio, vi proponiamo un siparietto televisivo del 1969. Il programma era “Speciale per voi”, condotto da Renzo Arbore. Renzo Nissim, schietto “comme d’habitude”, non le manda a dire, proprio “in faccia”, nientemeno che a… Lucio Battisti! In quell’occasione, ferocemente criticato per la sua voce.. 😉

Ma qui ci interessa soprattutto il Renzo Nissim pittore. Oltre a De Pisis, facile rintracciare anche l’influenza di Orfeo Tamburi (nella sua prima fase romana), Scipione e Mafai. Insomma, della Scuola Romana.

Renzo Nissim, Basilica della Salute, 1992. Olio su tavola.

Non tutta la produzione di Nissim può considerarsi memorabile; ma le vedute dei primi ’90 (quando l’autore era già oltre gli 80 anni) sono certamente meritevoli di una certa attenzione; e soprattutto tra le opere di questo periodo abbiamo scelto quelle da pubblicare, insieme a quelle degli “esordi” …da ultracinquantenne!

Renzo Nissim, San Pietro in Vaticano, 1993. Olio su tela.
Renzo Nissim, Bacino di San Marco, 1992. Olio su tavola.

Renzo Nissim, Cupola di Santa Maria del Fiore, tecnica mista su carta, 1958.




Semper fidelis

(di Damiana Ernesto)

Semper Fidelis, motto dei marines statunitensi, è il tatuaggio che Leo – il protagonista maschile del libro – porta tatuato sulle mani.

Ex marine, lavora in un poligono di tiro e con le armi ci è cresciuto. Savannah, l’altra protagonista, a quattordici anni ha visto la morte in faccia: ma questo – ora che lavora a New York nella redazione di un giornale – non le impedisce di credere nei sogni e sperare, un domani, di firmare un suo articolo. Non immagina ancora che il primo incarico che le sarà affidato sarà intorno alle armi, proprio il tema che mai avrebbe voluto trattare.

Due mondi lontanissimi quelli di Leo e Savannah, che quando si ritroveranno vicini a causa del lavoro, daranno vita, con la loro diversità, alla coinvolgente e appassionante storia che segna le pagine del libro e le loro vite stesse. Questa vicinanza, inizialmente quasi forzata, farà dapprima affiorare i ricordi dolorosi che entrambi si portano dietro. Leo ha perso il suo migliore amico durante una missione di guerra dopo l’11 settembre e dopo poco suo fratello in una rapina; il papà di Savannah è scomparso invece in un massacro scolastico, e le cicatrici che lei porta sul corpo le ricordano sempre il dolore causato da quelle armi. Entrambi si renderanno conto pian piano che avranno bisogno l’uno dell’altra per far pace con il passato e guardare al futuro con occhi diversi.

La scrittura scorrevole, dettagliata e ricca di aneddoti, è la chiave vincente per far emergere i caratteri dei protagonisti in tutte le sfumature, complesse ma compatibili a tal punto da dar luogo un un profondo intrecciarsi delle loro vite.

Semper Fidelis, edito da Triskell Edizioni, ma disponibile anche in formato kindle, segna l’esordio ufficiale come scrittrice di Erika Pomella, nata a Roma e laureata in Saperi e Tecniche dello Spettacolo Cinematografico a La Sapienza. Dopo la laurea  ha seguito un corso di specializzazione in montaggio, firmando inoltre per numerose testate online numerosi articoli su spettacolo,  cinema e libri. La Pomella ha collaborato inoltre all’organizzazione della prima edizione del festival del cinema francese in Italia.




La melanzana di David

Incontro David (David D’Amore) dopo qualche anno che non ci si vedeva.

Oggi capisco che quella che sembrava una forma di contestazione formale era una visione del futuro.

Ricordiamo brevemente i vecchi tempi e ci proiettiamo sull’oggi. Anzi, verso il domani.

D. Il nudo continua ad essere al centro delle tue opere. Perché la scelta dominante e quasi ossessiva di figure, diciamo, svestite? 
R.Credo che rappresentando il corpo si possa lavorare sulla mente. Il corpo come mezzo per scavare nel profondo a patto che il profondo esista. Il richiamo del corpo è sempre irresistibile, i tramonti possono essere stupendi, una notte stellata può essere molto romantica, ma vuoi mettere un bel paio di chiappe? 

D.  La tua produzione artistica è enorme. Disegni, incisioni, dipinti, fotografie, musica. Da cosa nasce l’esigenza di creare così tanto materiale? 
R.  Per uno che non sa fare niente l’arte era l’unico mezzo per passare il tempo. In genere le idee più brillanti mi vengono quando, in sella al mio motorino, percorro le strade di campagna in cerca di una grotta in cui infilarmi per qualche ora. 

D.  Sembra quasi che tu voglia, nei tuoi lavori, confermare una sorta di nichilismo dell’essere umano, enfatizzando  l’inutilità della ripetitività.

R.   Non sono un misantropo, in me, purtroppo, è più presente il vizio della filantropia.  

D.  Non credi che la misantropia sia una sorta di ispirazione per un Artista? Eppure  l’arte dovrebbe essere fruita dalla gente, da un pubblico. Non è un controsenso?
R.  Siamo esseri fallibili e soprattutto volubili. A causa delle nostre altalenanti vicende quotidiane  un giorno siamo fieri filantropi e il giorno dopo siamo misantropi convinti. In genere negli artisti subentra la misantropia quando si è incompresi o sottovalutati.

D.  Tu utilizzi il corpo come un contenitore, un oggetto, e lo associ sempre ad oggetti esterni a lui, come se volessi mettere in risalto la incomunicabilità delle due realtà. Questo genera una sensazione di violenza estetica, blasfema, ma con un obiettivo poetico.

R.  Sono un pessimo esempio per le nuove generazioni, lo ammetto. Nella prossima vita giuro che dipingerò solo prati in fiore e fotograferò esclusivamente località sciistiche con annessi impianti di risalita. Il termine che hai coniato, ”blasfemia poetica”, mi piace, potrebbe essere il titolo della mia prossima fotografia.

D.  Ho visto che spesso nelle tue opere compare l’immagine di una melanzana, o cucita o dipinta. Perché hai scelto proprio quell’ortaggio? 

R.  Ho scelto la melanzana per motivi estetici, non filosofici o esoterici. I riflessi sul corpo liscio di una melanzana sono fantastici da dipingere e anche da fotografare. Una mia foto del 1998, intitolata “Dissidente”, rappresenta una melanzana con un profondo taglio ricucito chirurgicamente. 

D.  Ti sei sentito o ti senti influenzato da alcuni artisti, da alcuni autori, anche letterari, nel tuo modo di produrre?
R.  L’espressionismo nordico mi ha molto attratto, ma troppe sono le cose che mi affascinano, potrei fare un elenco infinito di pittori, musicisti, registi, scrittori e fotografi importanti per la mia crescita artistica. Tra i pittori al momento ammiro il Guariento e Dierick  Bouts.  

D. Esiste un modus operandi di procedere per costruire e dare vita alle tue opere?
R.  Durante il giorno ho delle vere e proprie visioni ad occhi apertiSubito corro nel mio studio, ricreo la scena che ho visto e la fotografo. La foto rappresenta una sorta di appunto sul quale posso poi lavorare di nuovo per migliorarla.

D.Che rapporto hai con le tue opere una volta create?”   

 R.Il  rapporto con le mie opere è difficile, a volte arrivo a odiarle.   

D.  Credi nell’uomo?
R.  Ci vorrebbero cento vite per tentare di decifrare la natura umana. Io di vita ne ho solo una e cerco di dedicarla a cose più elementari e piacevoli. 

D.  C’è qualcosa che non hai ancora fatto e che ti piacerebbe fare? 
R.  Mi piacerebbe essere un artista ricco e famoso, possibilmente senza vocazione, che dipinge, suona o fotografa solo per il mercato

D.  L’amore è sopravvalutato? 
R.  Si, come tutti i vizi e le perversioni. 

D.  La morte è qualcosa di liberatorio? 
R.  Se tutto va bene, a noi umani ci attende l’inferno.

https://davidamore.weebly.com/




BO it! – Bologna, creativi a raccolta

(di Annalisa Rosati)

Logo e locandina della seconda edizione del Concorso

Il 2020 è stato per tutti un anno di forte rottura rispetto alla quotidianità e alle consuetudini a cui eravamo abituati: istruzione, lavoro, interessi, progetti, relazioni e affetti, tutti aspetti fondamentali delle nostre vite che sono stati di colpo interrotti e fermamente messi in discussione. Insomma, un game changer come si direbbe nell’universo nerd. Al loro posto, però, di abitudini ne sono nate altre, come fare il pane in casa o collegarsi con gli altri via device. E insieme alle abitudini abbiamo esplorato anche nuovi interessi: il bistrattato jogging, le passeggiate nella natura, i giochi da tavolo.

E’ sulla base di questo assunto che BO it! – Immaginando Bologna ha lanciato il tema per la sua seconda edizione: una call for artist per ripensare e – letteralmente – ridisegnare l’immagine di una città partendo da uno dei suoi simboli.

Nato proprio a Bologna nel 2018, BO it! è il concorso internazionale di illustrazione che mira a valorizzare la città di Bologna attraverso un’interpretazione artistica e creativa delle icone che la identificano, quali monumenti e altri simboli: Bologna descritta da chi la abita, da chi la immagina, da chi la scopre come turista e da chi ci arriva come migrante.

Dopo il successo della prima edizione, che ha visto la partecipazione di oltre 300 opere da tutto il mondo, la seconda edizione vede come protagonista i portici di Bologna: sagoma che rende omaggio alla candidatura come patrimonio dell’umanità UNESCO della città e che viene proposta ai creativi per la loro interpretazione artistica.

dettaglio della sagoma – traccia del concorso BO it!

“Bologna è sempre stata all’avanguardia e aperta alle innovazioni: una realtà che ha sempre raccolto prontamente gli stimoli, accolto e tradotto i cambiamenti in atto nella società” dichiara il direttivo di BO it! “Le tante difficoltà conseguenti alla pandemia in atto ci obbligano a ripensare il nostro modo di vivere la quotidianità, il lavoro e il rapporto con la città e la comunità. In questo scenario, le associazioni coinvolte nel progetto hanno scelto di rappresentare la nuova sagoma del 2021 come un unico grande abbraccio all’intera città: i portici di Bologna. È un invito a condividere le emozioni vissute durante il lockdown e le speranze e i desideri per la ripartenza.”

Il bando internazionale, che si chiuderà il 28 marzo 2021, è rivolto a tutti senza limiti di età; ed è possibile partecipare in modo individuale o collettivo. Una giuria qualificata selezionerà le 30 opere finaliste, che saranno esposte al pubblico in una mostra urbana realizzata in concomitanza con la Bologna Children’s Book Fair – Fiera del Libro per Ragazzi (14-17 giugno 2021). Tra le novità di questa edizione, i tre premi che saranno assegnati ai tre vincitori: Primo Premio “Città di Bologna” del valore di 1.200€, il Secondo Premio “Città dei Portici” del valore di 600€ e il Terzo Premio con un kit tecnico offerto da Maimeri.

Il progetto è accompagnato da un percorso di masterclass e laboratori, sia on-line che in presenza nel rispetto delle linee guida anti-covid19, volti a promuovere l’inclusività e la partecipazione di giovani creativi non professionisti e persone con bisogni particolari, come migranti o persone con disabilità.

“BO it!” è un’iniziativa culturale promossa dalle associazioni Il Civico 32 e MenoPerMeno, con il contributo della Fondazione Del Monte di Bologna e Ravenna e COOP Adriatica, promossa e sostenuta da Comune di Bologna, Bologna Welcome, Fiera del Libro per Ragazzi, Maimeri, Galleria Millenium, CotaBo, in collaborazione con Accademia di Belle Arti di Bologna, Cooperativa Nazareno e Autori di Immagini.

La seconda edizione del concorso, avviato con il Patrocinio del Comune di Bologna, rientra tra le iniziative per la Candidatura UNESCO dei Portici di Bologna.

CONTATTI:

boitcontest@gmail.com

www.bo-it.org




Amleto Cataldi, lo scultore dannato / bannato.

Nel giugno 1909 fu indetto un concorso pubblico per la decorazione scultorea delle pile e delle testate di un ponte dedicato a Vittorio Emanuele II , a rappresentare “Le virtù del re”, che sarebbe stato inaugurato in occasione dell’Esposizione Universale del 1911, anno del cinquantesimo anniversario dell’unità d’Italia. Un ponte intitolato al primo Re d’Italia, costruito per una occasione eccezionale di rilevanza mondiale, quindi. Ma la commissione non si fece condizionare dalla giovane età e dalla mancanza di notorietà del giovane autore. Complimenti quindi alla Commissione, per aver individuato un talento di tale portata. E complimenti, naturalmente, al nostro Amleto, che realizzò una vittoria alata in bronzo (l’unica con le braccia abbassate, tuttora “in situ”.

La sua attività è stata un susseguirsi ininterrotto di successi; commesse – pubbliche e private – esposizioni, biennali, fontane,
monumenti, decorazioni per edifici istituzionali sempre più prestigiosi, fino ad arrivare al coronamento dello Stadio
Nazionale di Marcello Piacentini con quattro gruppi di atleti in bronzo, davvero formidabili nella loro possente plasticità, anticipatrice di Botero.

Subito dopo questi magnifici lavori, Amleto incontrò la morte in età relativamente giovane e non sappiamo cos’altro avrebbe
potuto produrre; di certo la scultura allora perse un vero maestro, sul quale sarebbe lecito rintracciare qualche notizia in
più nei Musei e nelle pubblicazioni di Storia dell’Arte. Purtroppo, tranne qualche sporadica eccezione, non è affatto così:
tanto famoso in vita quanto oscurato post-mortem. “Colpevole” di aver attraversato splendidamente il periodo liberty, quello
ancor più elegante della secessione romana e quello dell’arte di regime; “colpevole” di essere sempre rimasto un artista
figurativo, disdegnando astrattismo e avanguardie di qualsiasi colore; “colpevole” – e questo, per certi critici da schieramento, è
il vero efferato delitto – di essere stato un vero classicista, focalizzando la sua ricerca sulla bellezza del corpo umano,
espressa con grazia femminile o potenza virile… fidatevi dei vostri stessi occhi, la nostra galleria fotografica parla forte e chiaro.

(cliccare sulle immagini per vederle per intero ed ingrandite)

Aggiornamento (gennaio 2024)

I nostri accorati appelli sul recupero della figura di Cataldi sembrano non essere gli unici: il 23 ottobre 2023 si è svolta una giornata di studi “Cataldi classico alla Sapienza”. Di seguito i video documentari

…e un “bonus” :

Aggiornamento (11 gennaio 2024)




MCG 360° – Quizz’arte VR


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Ve lo diamo noi l’editoriale…;-) per il primo articolo del nostro magazine, nessuna retorica! Apriamo invece col botto: una retrospettiva al quadrato (…retrospettiva di una retrospettiva…) con distorsione spaziotemporale e quadruplo punto di vista sincrono: una mostra in VR su un artista molto noto (non diciamo quale, dovrete scoprirlo voi stessi, altrimenti vi annoiate), al tempo allestita in una Galleria d’Arte che purtroppo non troviamo, o forse non esiste più.

Era il 2011, più due lustri fa. Ma noi allora già sapevamo di essere avanti di almeno una decina d’anni, sapevamo che sarebbero state rilasciate delle piattaforme ad hoc per ospitarla e che soprattutto sarebbe comparso “Fuori”…!

A voi il risultato. Per ora senza commenti. Anzi, uno: Alberto Angela “ce spiccia casa”.

(su smartphone e tablet si consiglia la visione orizzontale)

La visita in galleria si compone di diversi punti di vista leggermente differenti, ognuno corrispondente ad una finestra sullo schermo, per cercare di avvicinare il più possibile l’esperienza virtuale a quella reale.

Scegliete quelli che più vi aggradano (anche tutti, ma uno per volta). Cliccando il quadratino si ottiene lo schermo intero…

Lasciateci i commenti e soprattutto cercate di individuare l’Artista. la prima lettrice / il primo lettore che risolve il quiz “vince” la possibilità di pubblicare un articolo a piacere su FUORI. (…se gli va, eh…)




Le installazioni di Anghelopoulos, Micaela Legnaioli e Fabiana Roscioli per la Collettiva Rome Art Week “We as Nature”

(di Sabrina Consolini)

Per il primo numero di questa rivista online vogliamo dare spazio alla più importante manifestazione di Arte Contemporanea che si è tenuta a Roma a fine 2020: la IV ed. di Rome Art Week (dal 26 al 31 ottobre) che a causa delle restrizioni del DpCM ha visto annullati, all’ultimo, i tantissimi degli oltre 100 eventi espositivi in programma che sono visibili (per tutto il 2021) a 360° sul sito www.romeartweek.com. Dei 350 artisti italiani che hanno partecipato a RAW 2020, in 50 sono invece presenti alla Collettiva prevista per l’Opening, “We as Nature”, un progetto della curatrice Roberta Melasecca che fa riferimento all’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile. La Collettiva a cura di Roberta Melasecca, con la collaborazione dei curatori Fabio Milani e Sabrina Consolini si è tenuta presso gli spazi dell’Hotel Ripa Roma e Ripa Place. Tra i 50 artisti partecipanti troviamo alcuni nomi celebri dell’arte contemporanea come Achille Pace, Piero Gilardi, Tancredi Fornasetti e Achille Perilli che si sono confrontati con opere su tela, sculture e installazioni, per indagare il rapporto tra uomo e natura. A catturare il nostro sguardo, perché più concettuali, sono state soprattutto alcune opere di noti e raffinati artisti internazionali: Anghelopoulos, Micaela Legnaioli e Fabiana Roscioli.

All’ingresso nella hall dell’Hotel erano esposte due installazioni: quella di Anghelopoulos “Stazione di posta-Riappropriazione” sottotitolo Sedia con lettere (2019) è composta da semplici oggetti in legno: un bancale (oggetto simbolo del mercato globale su cui vengono trasportate le merci), una vecchia sedia in legno (che è memoria del nostro passato, dei nostri anziani e della vita semplice nelle campagne) e da un cumolo di lettere intagliate (con cui i bimbi imparano le lettere dell’alfabeto e a scrivere il loro nome). Questi semplici elementi, di legno naturale, rappresentano per Anghelopoulos un punto di sosta, di osservazione per l’uomo viaggiatore – sia nel senso di “post-azione”, ovvero nuovo insediamento, con uno spirito pionieristico, quindi con volontà di ricostruzione di una umanità che deve ripartire dalla Natura e dalla Comunicazione, autentica, tra esseri umani. La base per quella ricostruzione di un Nuovo Umanesimo -indicato dal sociologo Zygmunt Bauman- che è urgente e necessaria e che deve compiersi dalle ceneri delle rovine della comunicazione contemporanea. Una comunicazione che attraverso l’uso eccessivo dei social e dei media è spesso omologata, banalizzata, urlata e che non comunica più le cose davvero importanti. Ecco allora che la Stazione di posta di Anghelopoulos è un’occasione per fermarsi e riappropriarsi dei significati, soprattutto delle parole, dei simboli -a partire dai più elementari- e successivamente dei gesti che possono generare azioni complesse e socialmente significative.

Di fronte, troviamo l’installazione di Fabiana Roscioli “Paradiso e Inferno” (1989) che è composta da un dipinto su un grande pannello. L’opera è davvero molto raffinata e realizzata sui toni naturali dell’ocra, dell’azzurro e del verde muschio su uno fondo dorato che raffigura, accanto ad elementi decorativi naturali, un grande uovo. Quest’ultimo che è il simbolo della vita che compare insieme alla Colomba è stato scelto per la collettiva dall’artista, come opera-simbolo della forza rigeneratrice, necessaria all’uomo, per una Vita in Armonia e Pace con la Natura. L’opera è poggiata su di una vecchia sedia in paglia con alcuni rami con foglie, bacche e fiori.

L’altra grande installazione di Micaela Legnaioli “Foglie nel vento” (2019) posta nel Ripa Place è costituita da un muro bianco e da ventidue foglie, tutte di forma e dimensioni differenti, così come diversa è la loro provenienza. Le foglie, poste l’una accanto all’altra, sono realizzate in gesso e resina, di colore bianco, per sottolinearne l’omogeneità nella loro diversità. La vicinanza delle foglie è casuale e provvisoria. Quando arriverà il vento spargerà le foglie ognuna in un’altra collocazione. La foglia simboleggia l’ineluttabilità del cambiamento e del rinnovamento. Le foglie hanno poteri curativi e protettivi. Le foglie rappresentano noi esseri umani, tutti diversi, vicini ma in balìa del vento della vita che ci porta in posti a noi sconosciuti. Il muro bianco è il luogo dove idealmente viviamo e rappresenta il nostro destino invisibile: assume spessore e materia attraverso le foglie che sembrano emergere. Il muro, dove temporaneamente siamo appesi, sottintende per le foglie il dato casuale del trovarsi in un punto piuttosto che in un altro.  Ad essere raffigurato è un luogo mentale per descrivere l’incertezza del destino degli esseri umani. “Il bianco ci colpisce come un grande silenzio che ci sembra assoluto” scriveva Kandinskij. Il bianco come astrazione e sottrazione. Bianco è il muro e bianche sono le foglie, diverse nella forma, come una storia di destini e silenzi differenti. La certezza di trovarsi a lungo in un posto custodito o in una situazione confortevole non esiste. Noi tutti, nel tempo che ci è dato vivere, come le foglie, viaggiamo nel mondo indipendentemente dalla nostra volontà. Cerchiamo di controllare e scegliere il nostro viaggio ma, forze più grandi di noi, stabiliscono il nostro percorso. L’artista Micaela Legnaioli vuole far riflettere sul fatto involontario e l’accidentalità del trovarsi in un determinato luogo a causa dell’imprevedibilità della vita che, come il vento con le foglie, scompagina, sposta e rimescola decidendo il destino di ognuno.

https://it.linkedin.com/in/sabrina-consolini-3b691419/it-it




Il suono intrappolato

Al centro: Infiltration Homogen für Konzertflügel, Joseph Beuys, 1966. Paris, Centre Pompidou.

(di Cristiana Caserta)

Joseph Beuys amava il feltro, fin da quando, pilota nella Seconda guerra mondiale, abbattuto dal nemico e precipitato col suo aereo in Crimea, sperimenta il freddo e rischia di morire assiderato: lo salva un gruppo di nomadi tartari, curandolo con antiche pratiche mediche. Di feltro era il suo cappello, iconico, che ne sottolineava lo sguardo fermo.

Ricoperta di feltro è anche una delle sue opere più famose: Infiltrazione omogenea per pianoforte a coda (1966), a Parigi, Centre Georges Pompidou.

L’installazione consiste in un pianoforte interamente avvolto nel feltro grigio. Il suo interesse risiede non soltanto nella rete di concetti che ha presieduto alla sua ideazione e realizzazione, ma al dialogo che è capace di intessere con altre immagini. L’immagine del pianoforte ‘incappottato’ – così apparentemente eccentrica – è capace di attrarre altre immagini, e aggregarle. Come in una Tavola del Bilderatlas di Aby Warburg, il geniale storico dell’arte tedesco che aveva ideato un Atlante di immagini, organizzate in Tavole – su ciascuna tavola un montaggio fotografico di riproduzioni di opere diverse, ritagli di giornale, etichette e altro – intorno a motivi, temi iconografici.

Di che parla infatti Infiltrazione omogenea? Del suono. E del silenzio. Il pianoforte è, come altre ‘opere’ di Beuys, un oggetto che racconta la sua storia. Questa storia è fatta di suono e di silenzio: di suono, perché il pianoforte può produrlo: anzi, è costruito per produrre un suono; di silenzio, o di ‘suono in potenza’, che è ciò che accade quando lo strumento non è usato, quando nessuno esercita su di esso un’attività creativa. Ma l’installazione dice più di questo: il suono del piano è intrappolato dentro un panno di feltro.

Se un pianoforte ha sempre un suono potenziale, “in questo caso – dice Beuys – invece non è possibile nessun suono e il pianoforte è condannato al silenzio. (…) Infiltrazione omogenea descrive il carattere e la struttura del feltro, così il piano diventa un deposito omogeneo di suono con la capacità di filtrare il suono attraverso il feltro. L’aggancio con la posizione dell’uomo è indicato dalle due croci rosse che stanno a significare emergenza, il pericolo che ci minaccia se rimaniamo in silenzio”.

Il pianoforte non è dunque semplicemente non-usato, è messo proprio a tacere, “muto, sofferente”, volontariamente intrappolato nel feltro. Il feltro: isolante nei confronti del calore, dell’energia e del suono.

Cioè: silenzio non è semplicemente l’assenza di suono; la sua impossibilità è creata artificialmente attraverso l’isolamento. E il feltro è la materia che racconta questo isolamento.

[Beuys prese parte al movimento Fluxus, che portò in Europa le concezioni del Neodadaismo americano a partire dagli anni ’50; ma si ricollega anche a Tatlin e all’Avanguardia russa degli anni della Rivoluzione d’Ottobre. L’artista sovietico sperimenta viene l’interdizione della voce, della rappresentazione del movimento, di tutto ciò che può alludere al cambiamento dello stato di cose. Tatlin tende allora a far muovere letteralmente le persone, gli oggetti, le luci. Prendendo spunto dall’esperienza teatrale. Questa nuova grammatica artistica è presupposta dalle installazioni di Beuys e dalla riflessione sul silenzio imposto.]
Da Infiltrazione omogenea si deve fare un salto indietro di qualche migliaio di
anni per imbattersi in alcune immagini che lasciano perplessi gli studiosi.
Nella pittura vascolare greca alcuni eroi del mito appaiono raffigurati in una
strana posizione: seduti, in pensiero, col busto piegato in avanti e la mano
posata sul capo. Nulla di strano. Ma anche: avvolti nei mantelli,
letteralmente imbacuccati (che siano mantelli, cioè feltro o lana, e non velo lo sappiamo per certo: i pittori greci erano maestri nella resa pittorica della trasparenza).
Sorprendentemente, è spesso raffigurato in questo atteggiamento il guerriero per eccellenza: Achille. In diversi momenti della sua breve e gloriosa vita raffigurati dai ceramografi, l’eroe sta seduto, ammantato.
Una postura che toglie al corpo ogni possibilità di movimento, ogni agilità.

In Omero, cioè nel testo da cui quelle immagini dipendono, non c’è niente del genere. Achille è seduto, sì, ma non avvolto nel mantello.
Il ceramografo, anonimo, pensato di rendere figurativamente in questo modo il silenzio sdegnato dell’eroe, il versante sonoro della sua ira. Cioè l’assenza di sonorità. Sia quando soffre per l’affronto di essere privato della schiava Briseide, prelevata dalla sua tenda per essere donata ad Agamennone; sia quando gioca a dadi con Odisseo che vuole convincerlo a riprendere la guerra,

o quando la madre Teti lo consola per la morte di Patroclo, amico adorato; in tutte queste occasioni Achille è ‘sordo’ ad ogni tentativo di persuasione e incapace di articolare parola, muto. Solo e in disparte, mentre intorno a sé infuria la battaglia, Achille è isolato, invisibile. E perciò, in figura: ammantato.
[In gioco, nell’ira di Achille, c’è più di uno sgarbo ricevuto. Egli ha subito una ferita profonda, che sfigura
non il corpo ma l’onore, che i Greci chiamavano timé: privato della sua donna, il suo “dono”, egli è ridotto
all’impotenza tout court.]

Completiamo la Tavola col fotogramma di un film di Giovanni Veronesi di qualche anno fa: Manuale
d’amore 2. Capitoli successivi.
È un dialogo fra il protagonista Ernesto (Carlo Verdone) e Fulvio, un conduttore radiofonico (Claudio
Bisio).
Ernesto è un uomo di mezz’età, con un matrimonio noioso ed una vita abitudinaria, improvvisamente
sconvolta dall’arrivo di Cecilia, giovane, bella, abbandonata dal padre.
Inizia una intensa e passionale relazione.
Una scena del film ci mostra Ernesto e Cecilia sulla terrazza di un palazzo popolare, fra i fili del bucato e i panni appesi, che si nascondono sotto un lenzuolo (Veronesi gioca con la scena in terrazza di Una giornata particolare con Loren e Mastroianni.) Ed ecco perché, malato e tornato infine dalla moglie, Ernesto racconta – a Fulvio in diretta radiofonica – la fine della storia in questo modo (corsivi miei):
Fulvio: “No no Ernesto, non mollare adesso eh! Regalaci ancora un’immagine”.
Ernesto: “Ma che ne so Fulvio, che ne so… Io non avevo mai tradito mia moglie e da quel giorno non l’ho fatto più, però, ogni tanto, quando litighiamo e ho voglia di sentirmi un po’ infedele, vengo qua su in questa terrazza, prendo un lenzuolo e me lo metto in testa, poi recito quella poesia. ‘C’è la neve nei miei
ricordi / c’è sempre la neve / e mi diventa bianco il cervello / se non la smetto di ricordare’”.
Le immagini intanto scorrono su Ernesto che si copre la testa con un lenzuolo.

Fuori, il mondo con le sue rassicuranti noiose abitudini. La trappola matrimoniale ha silenziato la voce di
Ernesto ed essa si può esprimere soltanto dentro lo spazio del lenzuolo. E si esprime con le parole di lei,
in poesia, la poesia di Cecilia. Rivive empaticamente il mondo interiore di Cecilia e trova in esso la voce
perduta.
Ma che ne è del suono di Achille? Ebbene in Omero, quando l’eroe decide di partecipare infine alla
battaglia, di mettere da parte l’ira, egli si alza in piedi (era stato sempre seduto, durante la sua ira) a capo
scoperto, disarmato e si fa vedere dai nemici dall’alto di un fossato:
“Tre volte sopra il fossato gridò alto Achille glorioso,
tre volte furon sconvolti i Troiani e gli illustri alleati”
Non sfugga la precisazione “tre volte …. tre volte”: è la corrispondenza fra il gettito di voce e la reazione
dei nemici. La voce di Achille – quando decide di usarla – non è inutile, il suo grido non è frastuono né
schiamazzo, non cade invano: ogni sua emissione ha il suo effetto, l’effetto per cui è stata prodotta.
Resta “muto, sofferente” solo il pianoforte. Necessariamente. Da questo punto di vista, la piena fruizione
di una installazione come Infiltrazione omogena coinciderebbe con la sua distruzione in quanto opera d’arte:
l’unico gesto creativamente compatibile con Infiltrazione omogena è infatti quello di liberare il pianoforte
dal feltro e infine suonare.
Chissà che Beuys non se lo aspettasse!

https://it.linkedin.com/in/cristianacaserta

https://independent.academia.edu/CristianaCaserta